Quei veleni inalati da chi lavora a Fiumicino.
Due esperti hanno analizzato le conseguenze dell’incendio che ha devastato il Terminal 3 dell’aereporto internazionale di Fiumicino e in particolari gli effetti su quelle lavoratrici e lavoratori costretti a lavorare nonostante i rapporti dell’Istituto Superiore di Sanità ne certificassero la pericolosità. Ma, come ha detto il ministro Delrio :”Bisogna contemperare da una parte l’esigenza della sicurezza dei lavoratori, che è prioritaria, dall’altra Fiumicino è il nostro hub internazionale, l’aeroporto più importante e certamente questi giorni di disagi hanno fatto pagare un certo prezzo al paese”. Quindi datevi una mossa e si proceda secondo quanto indicato dal presidente dell’Enac Vito Riggio: “se si potesse riaprire il molo D (quello sotto sequestro della procura, ndr) potremmo affrontare meglio l’estate, l’Expo e il Giubileo, con una media di 150 mila passeggeri al giorno”. E infatti tante lavoratrici e lavoratori sono stati costretti a lavorare nonostante le analisi lo sconsigliassero.
Con questo articolo vogliamo fornire alcuni elementi di conoscenza rispetto ai rischi ai quali sono stati sottoposti i lavoratori dell’aeroporto di Fiumicino dopo l’incendio del Terminal 3 e indicare eventuali interventi da compiere su una questione che è tutt’altro che chiusa.
Tra le sostanze che sono state emesse durante l’incendio risultano dai monitoraggi effettuati diverse sostanze cancerogene, come il PM10, registrato oltre i limiti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per gli ambienti di vita indoor, e i PCB. Le relazioni dell’ISS sottolineano la pericolosità di alcune di queste, mentre riguardo i PCB si ritiene dover sottolineare alcuni punti critici.
Recentemente, è stata pubblicata la Monografia n.107 dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) che aggiorna la valutazione della cancerogenicità di queste sostanze (disponibile sul sito dal 26 maggio 2015: http://monographs.iarc.fr/ENG/Monographs/vol107/), che contiene degli elementi informativi interessanti al caso specifico, ai quali si farà riferimento.
Una premessa tecnica necessaria per comprendere la problematica è che i PCB, il cui nome chimico completo è Policlorobifenili, sono una famiglia di sostanze che hanno caratteristiche diverse. Alcuni di questi hanno una struttura, e quindi proprietà, simili alle diossine (sostanze note per la loro cancerogenicità) e vengono denominati simil-diossina (DL-PCB), e la loro concentrazione viene espressa in TEQ, ovvero in Tossicità equivalente, che utilizza un fattore di conversione rispetto alla tossicità delle diossine. Gli altri PCB, di contro, vengono denominati non-diossina-simili (NDL-PCB).
Finora la maggior parte dell’attenzione sulla tossicità dei PCB è stata rivolta ai DL-PCB, sia negli studi che nelle norme di sanità pubblica, per le note caratteristiche tossiche e cancerogene di queste sostanze e la loro capacità di persistenza nell’ambiente e negli organismi, ma il recente documento della IARC pone l’attenzione anche sugli altri.
La produzione e l’utilizzo di queste sostanze è vietata da tempo (anni ’80) in diversi Paesi, compresa l’Italia, ma si possono trovare ancora nell’ambiente sia come rifiuto diretto dei prodotti che le contenevano (come i trasformatori elettrici) che come emissioni di processi di combustione di alcuni prodotti.
Seppure la maggior parte dei PCB tendono ad accumularsi nei grassi, per cui la via di esposizione principale per la popolazione generale è per ingestione di grassi animali contaminati, il recente documento della IARC evidenzia, anche la via inalatoria come possibile via di esposizione in situazioni particolari, come nel caso di lavoratori delle ex aziende che lavoravano queste sostanze. I PCB interessati da questo tipo di esposizione sono quelli più leggeri, in fase gassosa, non-diossine-simili, che per caratteristiche chimiche vengono escreti dall’organismo umano più rapidamente, cioè si accumulano per un tempo inferiore.
La IARC ha valutato che tutti i PCB sono cancerogeni per l’uomo, inserendoli nel Gruppo 1 delle sostanze cancerogene. La relazione tra esposizione e rischio di tumore viene identificata essere di tipo dose-risposta, ovvero un aumento di rischio al crescere dell’esposizione. Quindi la cancerogenicità dei PCB non è legata esclusivamente alla similitudine con le diossine e riguarda entrambi i tipi. Per questo la stima della concentrazione in termini di TEQ (unità di misura utilizzata classicamente, vedi sopra) viene ritenuta non essere idonea per misurare la tossicità e cancerogenicità complessiva dei PCB, in quanto esclude i NDL-PCB.
La IARC ha definito cancerogeni i PCB in base alle indicazioni di studi sia sperimentali che epidemiologici. Per quanto riguarda gli studi epidemiologici in ambiente occupazionale, l’aumento di rischio di tumore è stato osservato in lavoratori di aziende di lavorazione dei PCB (produzione o utilizzo) esposti per decine di anni a tali sostanze. Ma vengono menzionati anche due studi che riguardano lavoratori esposti a PCB emessi durante incendi di trasformatori elettrici. In uno di questi studi si evidenzia un aumento del numero di aberrazioni cromosomiche tra i soggetti esposti, che non significa l’insorgenza di tumore, ma che è un indicatore precoce di un aumento di rischio per le patologie cancerogene.
Oltre agli effetti cancerogeni su menzionati, la monografia della IARC menziona i possibili effetti negativi sul sistema immunitario dell’esposizione ai PCB anche nel periodo prenatale, la cui gravità dipende dalle concentrazioni di PCB nel sangue materno durante il periodo di gravidanza e di allattamento.
Pertanto nel caso dei lavoratori costretti, dai ritardi di ENAC e Aereoporti di Roma, a lavorare nei giorni immediatamente successivi l’incendio fino alla chiusura del Terminal, oltre ai rischi già correttamente valutati, in particolare nella relazione dell’ISS, va posta una giusta attenzione alle possibili conseguenze relative all’esposizione per via inalatoria dei PCB non diossina-simili.
Alla luce di queste considerazioni, nella valutazione sulla salubrità dell’ambiente interessato dall’incendio e zone limitrofe andrebbe previsto un monitoraggio di tutti i PCB e, conseguentemente un valore di stima della concentrazione diverso dal TEQ che consenta di stimare tutti i PCB, sia quelli simil- diossina che quelli non-diossina-simili.
Inoltre seppure in Italia non sia previsto un limite di riferimento per i NDL-PCB, rispetto ai valori generici riportati nella relazione dell’ISS “da unità a centinaia di nanogrammi/l” sarebbe utile conoscere valori più precisi visto che comunque esistono come parametri valori limite utilizzati in altri Paesi, come ad esempio la Germania dove limite è di 1000-500 nanogrammi/l.
E’ quindi evidente che, come peraltro raccomandato anche dall’ISS, in mancanza di dati specifici si continuino ad adottare tutte le precauzioni per limitare l’esposizione dei lavoratori a tutti i PCB, soprattutto quelli gassosi NDL e in particolare se ci sono lavoratrici gravide, fino a quando l’ambiente non risulterà bonificato.
Infine, considerando che gli svariati fattori di rischio presenti successivamente all’incendio erano facilmente intuibili anche da non addetti ai lavori, appare evidente l’errore commesso nel costringere i lavoratori ad una esposizione prolungata dopo l’incendio. In questo senso andrebbe valutata l’opportunità di garantire ai lavoratori un percorso di monitoraggio sanitario nel tempo utile a prevenire gli effetti delle esposizioni a tutti i tipi di PCB.
Redazione
22/6/2015 www.contropiano.org
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