Il nesso mancante nel dibattito sull’omicidio di Alika Ogorchukwu

Il dibattito sull’omicidio di Civitanova si è polarizzato tra chi ne nega la matrice razzista e chi si concentra sulle colpe dei passanti. Così finiscono in secondo piano le responsabilità della politica e il nesso tra oppressioni di razza, genere e classe

Alika Ogorchukwu è stato ucciso il 29 luglio 2022 nel centro di Civitanova Marche da Filippo Ferlazzo. Apparentemente l’incontro tra i due reciproci sconosciuti è avvenuto in pieno giorno, quando Ogorchukwu, immigrato nigeriano e venditore ambulante, si è avvicinato a Ferlazzo e alla sua compagna per vendere dei fazzoletti. Ne è seguita un’aggressione di quattro minuti, durante i quali Ferlazzo ha ucciso a mani nude Ogorchukwu sotto gli occhi increduli di testimoni, alcuni dei quali hanno filmato l’omicidio. Ne è scaturito un dibattito mediatico che si è concentrato principalmente su due questioni: la denuncia dell’apparente indifferenza dei testimoni e la potenziale matrice razzista del crimine. Entrambe le questioni sono problematiche perché trascurano, in modi diversi, elementi importanti che aiuterebbero ad arricchire l’analisi dei fatti, ovvero il classismo e il sessismo e di come questi si intersecano con il razzismo.  

Le responsabilità della politica

Prima molti opinionisti, anche mainstream, e poi la stessa comunità nigeriana di Civitanova e dintorni hanno additato il mancato intervento dei passanti, condannandone la mancanza di umanità. Il Partito democratico non si è sbilanciato sul ruolo del razzismo, limitandosi a deplorare la «ferocia inaudita» dell’omicida e poi anch’esso «l’indifferenza diffusa» della società. Questa linea di pensiero, che si potrebbe definire «moralista» (nel senso di critica che si concentra sul comportamento dei singoli invece che sulle responsabilità della politica), è stata chiaramente condivisa anche dalla stampa vaticana e da commentatori legati alla Chiesa. Ma i toni preoccupati che denunciano la presunta indifferenza rispetto alla violenza verso i più deboli tralasciano (a volte volutamente a volte inconsapevolmente) due aspetti politicamente rilevanti. 

Il primo è il potenziale dei video virali messi in rete da vittime o testimoni che documentano crimini d’odio. Filmare episodi di violenza è un fenomeno crescente a livello globale: se da un lato esso rischia di riprodurre una forma di disimpegno (il cosiddetto «clictivismo») e una spettacolarizzazione della violenza, dall’altro è stato spesso uno strumento potente di denuncia da parte di movimenti per la giustizia razziale, come ci hanno insegnato le proteste di Black Lives Matter contro la violenza e il razzismo della polizia statunitense. Biasimare così apertamente la donna moldava che ha girato il video a Civitanova potrebbe condurre eventuali testimoni di altri casi di violenza a non condividerne i video quando, in realtà, questi potrebbero contribuire ad accendere un dibattito su questioni come la discriminazione di gruppi svantaggiati. 

L’altro – e forse più importante – aspetto trascurato dalla critica alla presunta indifferenza dei testimoni è la responsabilità della politica nell’esacerbare le tensioni di classe. L’indifferenza di fronte alla sofferenza degli emarginati non si crea in un vuoto; essa nasce in un preciso contesto storico, politico e culturale. Oltre a criminalizzare esplicitamente la solidarietà (come nel caso dei migranti: si consideri, per esempio, la persecuzione legale dell’ex-sindaco di Riace, Mimmo Lucano), la classe politica degli ultimi decenni ha demonizzato i poveri delle città. Questo è quello che è stato fatto negli ultimi cinque anni, soprattutto con l’introduzione del Daspo urbano nel 2017. Questo strumento di sicurezza preventiva, in nome del decoro, vieta l’accesso ad alcune zone a coloro che esercitano attività commerciali non autorizzate e accattonaggio, come venditori ambulanti e senzatetto. Di fatto si tratta di persone spesso molto povere che operano nell’ambito dell’economia informale, in cui si trovano largamente rappresentati gruppi etnici spesso stigmatizzati (come i rom) o migranti senza documenti. 

Anziché limitarci a denunciare la corruzione morale della società odierna, dovremmo contestualizzare l’omicidio di Ogorchukwu all’interno di una crescente colpevolizzazione delle classi povere, fomentata da politiche pubbliche divisive e securitarie. E combattere esplicitamente queste politiche. 

La giustificazione sessista di crimini razzisti

Il secondo nodo del dibattito ha riguardato la dimensione razzista di questo crimine. 

I partiti della sinistra (come Sinistra Italiana ed Europa Verde) hanno denunciato la responsabilità di vari leader politici (soprattutto di destra) nell’alimentare tensioni razziali – come avvenuto fin all’inizio della nuova campagna elettorale estiva, che ha già visto la strumentalizzazione della questione degli sbarchi dei migranti. Diversi commentatori e giornalisti hanno sottolineato la matrice razzista di questo omicidio, denunciando la vulnerabilità della vita delle persone nere e la mancata reazione dei passanti causata dal colore della pelle della vittima, nominato da alcuni il «nostro Floyd». 

Dal lato opposto, i leader della destra hanno cercato di sminuire la questione, offrendo le condoglianze alla famiglia di Ogorchukwu e riducendo l’accaduto a una disgrazia isolata causata da un individuo mentalmente instabile. Questa strategia non è così sorprendente, dal momento che la retorica del «lupo solitario» è alquanto diffusa quando si tratta di indagare atti di terrorismo perpetrati da uomini bianchi ai danni di minoranze religiose, di razza, genere e orientamento sessuale. Gli inquirenti nel frattempo hanno escluso il movente razziale e sostengono che il crimine di Civitanova sia avvenuto per «futili motivi», mettendo apparentemente a tacere gran parte del dibattito. 

È importante dividere il piano delle indagini che riguardano l’imputato da quello di un’analisi sociologica dell’accaduto, che cerca di analizzare l’intera questione ricollegando la dimensione individuale a quella più ampia dei processi storici e sociali che la determinano. Nell’offrire riflessioni sulla significatività del razzismo in questo omicidio, molti critici si sono soffermati sulle rispettive identità dei due uomini coinvolti nell’accaduto: da un lato un immigrato nero e dall’altro un italiano bianco. Ma io ritengo che, seppur poco commentate, siano decisamente più rivelatrici le parole pronunciate dall’assassino agli inquirenti: Ferlazzo ha sostenuto di aver aggredito Ogorchukwu dopo che quest’ultimo aveva importunato la sua compagna, trattenendola per un braccio. Al di là della veridicità della dichiarazione (che parrebbe essere stata smentita dalla donna in questione), questa spiegazione, a dispetto delle apparenze, non esclude un movente a sfondo razziale; bensì ricollega idealmente questo omicidio al razzismo degli Stati uniti del sud a cavallo tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. 

Come documentato più di un secolo fa nel libro Southern Horrors (1892) da Ida B. Wells, giornalista, attivista e sociologa afroamericana, la presunta molestia di donne bianche da parte di uomini neri era spesso usata da uomini bianchi per giustificare i linciaggi a sfondo razziale. La strategia di difesa dei rappresentanti legali di Ferlazzo è stata in parte simile. Questo ci dice molto su quali siano i repertori giustificativi oggi ritenuti accettabili in Italia. Secondo la sociologia pragmatica francese e la sociologia culturale americana, le giustificazioni usate da ciascuno per le proprie azioni rivelano non tanto la psiche del singolo individuo, quanto le idee e i valori collettivi di una società. In Italia, e non solo, affermare di aver ucciso un uomo nero perché quest’ultimo aveva molestato la propria compagna bianca è presentato come la prova di un mancato movente razziale. Eppure, come ci insegna la storia dei linciaggi degli afroamericani, la reazione alla molestia sessuale era usata per giustificare crimini razzisti. 

Più di un secolo fa, Wells aveva giustamente osservato come il razzismo fosse legato a filo doppio con il sessismo: se da un lato, i suprematisti bianchi rappresentavano gli uomini neri come predatori sessuali, dall’altro riducevano le donne bianche a vittime passive da proteggere. E questo legame, seppur in termini diversi, ancora oggi è molto forte nei paesi occidentali, basti pensare alla diffusione del cosiddetto «Femonazionalismo», termine coniato dalla sociologa Sara R. Farris per indicare la strumentale intersezione a livello discorsivo tra gli argomenti delle forze nazionaliste (incentrate sulla purezza etnica della nazione) e quelli femministi (che invocano l’uguaglianza di genere). Un discorso che identifica come nemici comuni gli uomini neri (spesso musulmani), visti come misogini, mentre le donne nere vengono dipinte come vittime inerti di violenza patriarcale. 

Di nuovo, per capire meglio l’omicidio di Ogorchukwu, non dobbiamo considerare il razzismo in modo isolato: esso è un sistema di oppressione del tutto inestricabile dalla discriminazione di genere, oltre che di classe. 

Per un’analisi intersezionale

Le riflessioni che hanno accompagnato il dibattito sull’omicidio di Civitanova Marche sono quindi rimaste incomplete. L’accusa di indifferenza ai testimoni descrive indubbiamente alcuni elementi delle società individualiste contemporanee, in cui gli imprenditori della paura fomentano divisioni sociali. Ma se non si problematizzano le cause di questa presunta indifferenza, prodotta da anni di politiche di demonizzazione della povertà e dei migranti, è difficile andare oltre una semplice condanna morale che non trova controparte politica e quindi possibilità di mobilitazione.

Dall’altro lato, l’argomentazione della matrice razzista di questo omicidio, di fronte a una mancanza di esplicito movente razziale, non può basarsi sul semplice colore della pelle dei due uomini coinvolti nei fatti. Ma includendo nell’analisi il ruolo del sessismo si comprende meglio il modo in cui il razzismo ha offerto un terreno fertile a questo crimine. 

Come sottolineato già in passato dalle femministe afroamericane teoriche dell’intersezionalità (come Angela Davis, Patricia Hill Collins e Kimberlé Crenshaw), seppur diversi, i concetti di razza, genere e classe dovrebbero sempre essere considerati congiuntamente. La razza (beninteso, non come aspetto biologico ma come costrutto sociale e strumento di identificazione e suddivisione, e quindi di potere) non produce effetti univoci. Per questo ci dovremmo porre una domanda più complessa: Ogorchukwu sarebbe stato vittima di violenza se non fosse stato un uomo nero immigrato, impegnato in un’attività economica criminalizzata? 

Per riflettere seriamente sul ruolo del razzismo nell’omicidio di Civitanova Marche, non si può quindi non considerare l’inseparabile connubio fra violenza di razza, discriminazione di genere e stigmatizzazione di classe.

Gaja Maestri è una sociologa che lavora all’università di Aston (Birmingham, Regno Unito). Le sue ricerche riguardano la discriminazione di minoranze etniche, i movimenti sociali di solidarietà e le politiche di integrazione in Italia, Francia e Inghilterra.

16/8/2022 https://jacobinitalia.it

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