Guai a essere poveri in Italia
Nel 2004 lo scrittore britannico John Berger pubblicava un articolo intitolato “Dieci dispacci sulla resistenza di fronte ai muri” e nel secondo di questi dispacci spiegava: “Collettivamente i poveri sono inafferrabili. Oltre a essere la maggioranza del pianeta, sono dappertutto e anche il più piccolo evento parla di loro. Ecco perché oggi l’attività fondamentale dei ricchi è costruire muri: muri di cemento, sorveglianza elettronica, sbarramenti di missili, campi minati, controlli di frontiera, e gli schermi opachi dei mezzi d’informazione”.
Diciott’anni dopo i poveri sono ancora inafferrabili, sono ancora la maggioranza del pianeta e sono ancora dappertutto: lo sono anche i muri, che sono aumentati insieme al numero delle persone spinte ai margini. È vero nel mondo ed è più che vero in Italia, paese dove la povertà è cresciuta così tanto che perfino i muri faticano a starle dietro: anche se non manca la buona volontà di costruirne di nuovi o rattopparne di vecchi.
I numeri
Cominciamo allora da questi numeri, che come tutti i numeri non mentono, ma molte cose nascondono: dalle rivelazioni della Caritas, per esempio, sfugge chi non si rivolge alle parrocchie o ai centri d’aiuto; dalle indagini dell’Istat molti di quelli che vivono per strada o in edifici occupati. In ogni caso, grazie all’istituto di statistica nazionale sappiamo che nel 2004, quando Berger scriveva i suoi dispacci, in Italia le persone in povertà assoluta erano poco meno di due milioni, e che oggi sono quasi sei milioni. Due milioni, sei milioni. Una vertigine se si pensa che sono più degli abitanti del Veneto, della Sicilia o della Campania, e che insieme formerebbero la terza regione più grande del paese. Nella lingua fredda dell’Istat “l’incidenza della povertà assoluta è calcolata sulla base di una soglia corrispondente alla spesa mensile minima (…) essenziale a uno standard di vita minimamente accettabile”.
In Italia sotto questo “standard di vita minimamente accettabile” vivono anche 1,4 milioni di bambini, ragazze e ragazzi minori. Le loro famiglie abitano in egual misura (42,2 per cento) nel sud e nel nord del paese, e spesso in affitto (45 per cento). Nel 25 per cento dei casi uno dei genitori lavora, ma il lavoro – molti lavori, dall’operaio (13,3 per cento) al libero professionista (1,8) – non serve a evitare di finire in rovina.
Sembra una novità, quella del lavoro povero, ma basta uscire per un attimo dal campo della statistica ed entrare in quello della letteratura per capire che non è così. Nel 1883 Carlo Collodi pubblicava in un unico volume Le avventure di Pinocchio, uscite in precedenza a puntate. Collodi raccontava la storia di un burattino, ma attraverso di lui faceva anche il ritratto di tantissime persone in carne e ossa (e in alcuni casi più ossa che carne): “Ho conosciuto una famiglia intera di Pinocchi: Pinocchio il padre, Pinocchia la madre e Pinocchi i ragazzi, e tutti se la passavano bene. Il più ricco di loro chiedeva l’elemosina”.
Quando Pinocchio incontra Mangiafoco, Collodi scrive un dialogo esemplare: “Mangiafoco chiamò in disparte Pinocchio e gli domandò: ‘Come si chiama tuo padre?’. ‘Geppetto’. ‘E che mestiere fa?’. ‘Il povero’. ‘Guadagna molto?’. ‘Guadagna tanto, quanto ci vuole per non aver mai un centesimo in tasca’”. Geppetto lavorava, ma non riusciva a scrollarsi di dosso la miseria: allora come oggi lavorare non libera dalla fame. E non basta neanche ad assicurare ai figli, ai nipoti e ai pronipoti le risorse per sfuggirvi: in Italia, dice la Caritas nel suo ultimo rapporto, la povertà si eredita in sei casi su dieci e “occorrono cinque generazioni per una persona che nasce in una famiglia povera per raggiungere un livello di reddito medio”.
Parlando di generazioni, c’è una coincidenza singolare da notare. Vybarr Cregan-Reid, docente di scienze umane all’università del Kent, nel Regno Unito, scrive in Il corpo dell’antropocene (Codice 2020): “Gli effetti di qualcosa di negativo accaduto a nostra madre possono agire su di noi e sui nostri figli, a tal punto che possono occorrere cinque generazioni per superare una sola generazione di carestia, o di malattie epidemiche o di qualcosa di simile”.
La povertà è qualcosa di simile a una carestia o a un’epidemia: e in alcuni casi alle due cose insieme. Un ultimo numero, e sempre dalla Caritas: “La misura di contrasto alla povertà esistente nel nostro paese, il reddito di cittadinanza, è stata finora percepita da 4,7 milioni di persone, ma raggiunge poco meno della metà dei poveri assoluti, il 44 per cento”. Sul reddito di cittadinanza vale la pena soffermarsi, perché consente di passare dai numeri alle storie.
Le storie
Ecco una storia. Nel 2018 l’Italia ha dichiarato guerra alla povertà, e la povertà ha vinto. Era una sera mite di fine settembre e Luigi Di Maio, il ragazzo che qualche tempo prima si era svegliato nel suo letto trasformato in vicepremier e ministro del lavoro, festeggiava la legge di bilancio che prevedeva l’istituzione del reddito di cittadinanza. Sul provvedimento era stato trovato l’accordo con una Lega un po’ fredda e un po’ riottosa, ma molto interessata a portare avanti il governo formato da poco con il Movimento 5 stelle e guidato da Giuseppe Conte. In una scena ricca di ironia involontaria e volontaria retorica, alla fine del consiglio dei ministri che aveva dato il via libera al provvedimento, Di Maio era insieme ad altri ministri dei cinquestelle sul balcone di palazzo Chigi, a Roma, e ripeteva: “Abbiamo abolito la povertà”.
Ecco un’altra storia. Nel 2010 M. ha perso il marito e il figlio in un incidente: e con loro la ragione, e infine il lavoro. Una depressione forte l’ha spinta a troncare ogni rapporto con amici e parenti, e a non presentarsi più nell’albergo in cui faceva le pulizie. Dopo anni di affitti non pagati e risparmi divorati dalle bollette è arrivato lo sfratto, e dopo lo sfratto le notti in auto, e dopo le notti in auto la perdita della residenza. In piena pandemia M., il viso asciugato dalle difficoltà, si è rivolta a un’associazione per chiedere se la potevano aiutare a fare domanda per il reddito di cittadinanza, ma nonostante diversi tentativi, non è stato possibile: M. non aveva una residenza, perciò come nel gioco dell’oca doveva tornare indietro di diverse caselle e ripartire da quella per andare avanti. Intanto, nel paese in cui tutti ripetevano di stare a casa, M. una casa non ce l’aveva, e i soldi per poterne affittare una le erano negati proprio perché l’aveva persa, insieme al resto: i paradossi della burocrazia sono diversi dagli altri, somigliano più a delle tagliole che a dei cortocircuiti della logica.
In questi ultimi anni il reddito di cittadinanza ha tenuto a galla milioni di persone, ma moltissime ne ha lasciate affondare: stranieri; famiglie che abitano in edifici occupati; lavoratori che guadagnano poco più delle soglie previste dalla legge; molti di coloro che vivono in condizioni di povertà relativa, come la chiama l’Istat, che però di relativo ha solo che non si fa la fame, o non la si fa abbastanza per accedere agli aiuti. Eppure, nonostante questi limiti siano chiari, e nella loro chiarezza moltiplichino tagliole e trappole, quasi tutti i mezzi d’informazione e la maggior parte dei politici di centro e di destra hanno preferito concentrarsi su altro: per esempio sulle truffe dei cosiddetti furbetti del reddito, truffe moltissimo presunte e pochissimo vere; sulle persone (migliaia, milioni: la fantasia non ha limiti) che il reddito avrebbe incentivato a stare sul divano invece di andare a lavorare.
La sociologa Antonella Meo in Disciplinare i poveri (Mimesis 2022) individua una tendenza precisa dietro questa propaganda: “Quando la povertà torna alla ribalta nella vita pubblica come un problema da risolvere emerge con particolare evidenza che i poveri sono soggetti da gestire e da governare”. Lo dimostra il bilancino usato per stabilire cosa si possa o non si possa comprare con i soldi del reddito, caricati ogni mese su una carta acquisti: niente gratta e vinci (guai a essere poveri e voler tentare la fortuna); niente gioielli (neanche se si tratta di un regalo per un figlio o una figlia); niente assicurazioni o spese online. I prelievi di contanti sono scoraggiati, o comunque molto limitati: non più di cento euro al mese per chi è solo, di duecento se si è in due, e così via. C’è poi il divieto assoluto di risparmiare: se a fine mese i soldi del reddito non sono stati spesi, quel che resta va restituito.
Sulla spesa, sul suo significato politico e per alcuni asfissiante, si può lasciare la parola ancora una volta alla letteratura, e in questo caso ad Annie Ernaux, che in Guarda le luci, amore mio (L’Orma 2022) scrive: “Meno soldi si hanno, più la spesa richiede un calcolo minuzioso, senza errori (…) un lavoro non contabilizzato, ossessivo, che assorbe completamente migliaia di donne e di uomini. L’inizio della ricchezza – della sua leggerezza – si può riassumere così: servirsi in un reparto di prodotti alimentari senza guardare il prezzo. L’umiliazione inflitta dalle merci. Costano troppo, quindi io non valgo niente”.
Nonostante tutto questo “abbiamo assistito alla proliferazione e al prevalere di retoriche incentrate sull’immagine dei poveri ‘fannulloni’, ‘spreconi’ e ‘imbroglioni’”, scrive Meo. Aggiungendo che la scelta e l’uso di queste parole “non presenta caratteri di novità”, bensì richiama pregiudizi e stereotipi del passato. Fattori che consentono di passare dalle storie alla storia.
La storia
Lo studioso Enzo Ciconte traccia un profilo sociale della povertà nel libro Classi pericolose (Laterza 2022), in cui individua un punto di svolta fondamentale: “Ci fu un tempo in cui la povertà divenne fonte di diritti, tanto da far assurgere il patrimonio della chiesa a ‘proprietà dei poveri’”. Succedeva nell’alto medioevo, quando i vescovi potevano essere scomunicati per l’uso improprio di questo patrimonio. “L’intera società considerava il povero come l’immagine più vicina a quella di Dio, poi le cose cambiarono, e arrivarono leggi che avevano l’obiettivo di governare una situazione complessa”. Allora come oggi, quando il diritto si è occupato di chi non ha niente, e a volte meno di niente, lo ha fatto per proteggere chi ha qualcosa, e più di qualcosa. “Presto, ancora in età medioevale, i poveri smarrirono il riferimento a dio per acquisire il ruolo di peccatori, di parassiti, di esseri antisociali simili al demonio e meritevoli, per questo, di punizione”.
Nel cinquecento si moltiplicarono bandi, leggi e ordinanze contro mendicanti e vagabondi, che aprirono la strada al secolo della “grande reclusione”, com’è stato definito il seicento. Nascevano case di lavoro coatto in cui rinchiudere chi chiedeva l’elemosina, ospizi per anziani senza niente, riformatori per minorenni e ospedali per pazzi. Tra seicento e settecento fecero la comparsa anche le carceri: “Furono create per mendicanti, poveri e prostitute. Il loro scopo principale era quello di mantenere la quiete pubblica e di togliere la miseria dalle strade”.
L’ottocento fu il secolo delle fabbriche, ma anche dello sfruttamento dei contadini che mollavano gli aratri per i torchi e dei bambini sottratti alle famiglie: “C’era una vera e propria tratta dei fanciulli. I mediatori affittavano bambini e li portavano per lo più all’estero a fare lavori umili, pesanti, faticosi, pericolosi”. A metà secolo negli stati sardi diciottomila lavoratori avevano meno di quattordici anni. Negli stabilimenti lombardi quelli tra i sei e i quattordici anni erano cinquantaquattromila. A inizio novecento in provincia di Udine ogni anno circa cinquemila bambini erano mandati a spaccarsi la schiena nelle fornaci tedesche, ungheresi e croate. Com’è prevedibile, le due guerre mondiali – e vent’anni di fascismo tra loro – peggiorarono la situazione.
Oggi i poveri non sono tutti in carcere, ma tutti in carcere sono poveri
Negli anni cinquanta “l’11,8 per cento della popolazione viveva in condizioni subumane, una cifra di poco inferiore viveva in condizioni disagiate”, si legge nell’Inchiesta sulla miseria in Italia condotta dalla commissione parlamentare dell’epoca. “Oltre 870mila famiglie non consumano né carne, né vino, né zucchero; oltre un milione consumano quantità minime di zucchero e vino e niente carne”. Tantissimi emigravano dal sud al nord, e a Torino e in altre città erano accolti da cartelli su cui si leggeva: “Non si affitta ai meridionali”. A Genova “sono malvisti dalla popolazione lavoratrice che li accusa di togliere il pane”, scriveva nel 1959 Corrado Alvaro. Nel 1961 Pier Paolo Pasolini denunciava: “Non dimentichiamo che a Torino ci sono delle scritte sui muri che dicono ‘Via i Terroni = Arabi’”. La periferia di Milano – puntellata da baracche costruite da siciliani, abruzzesi e calabresi – fu ribattezzata “Milano Corea”: a qualcuno dovette sembrare appropriato paragonare la guerra di Corea con la situazione di sottoproletari e proletari a Cinisello Balsamo e Bollate.
Con il passare degli anni l’immagine del meridionale povero, pericoloso e portatore di malattie è stata sostituita da quella dell’immigrato straniero: sempre povero, sempre pericoloso e sempre portatore di malattie. Adriano Sofri ne ha colto le conseguenze in Beati i poveri in spirito (con Gianfranco Ravasi, Lindau 2012): “L’ultimo arrivato è dunque anche l’ultimo per importanza. Ha occupato il gradino più basso, e ne ha sloggiato l’occupante precedente. È quello che succede con i migranti, con gli stranieri. Per prendersi un posto devono spingere via quelli che incontrano, e quelli che incontrano sono gli ultimi. Prendersi un posto, non è un’espressione metaforica. È letterale. Può essere una coperta sporca o un giaciglio di cartoni nella nicchia di un atrio di stazione, di un portico di città. Può essere l’angolo di un capannone in rovina”. E spesso è il letto di una cella.
Oggi i poveri non sono tutti in carcere, ma tutti in carcere sono poveri. Dietro le sbarre ci sono quasi quattromila persone condannate a pene inferiori a due anni, cioè per reati irrisori. Circa un terzo dei 56mila detenuti c’è finito per aver violato la legge sulla droga: e per quanto la tentazione di qualcuno sia quella di farli passare tutti per narcotrafficanti, la realtà è che, come scrive l’associazione Antigone, “la sostanza più utilizzata e punita è la cannabis”. Molti non reggono, come dimostra il fatto che nel 2022 si sono uccisi 84 detenuti. Uno degli ultimi è stato un ragazzo che da pochi giorni era in cella a Torino, arrestato per aver rubato un paio di cuffie.
Come nel settecento, il carcere è ancora il fondo del pozzo in cui è spinta la povertà. Secoli di storia insegnano che a confinarcela sono spesso paure indotte e ansie collettive. Sentimenti che diventano pregiudizi, pregiudizi che danno vita a leggi, leggi che modellano la realtà. È un paradigma che va rovesciato, insieme alla concezione della povertà come un insieme immutabile di persone che oscillano tra l’ozio e la criminalità. Le storie singole mostrano che oggi si diventa poveri più spesso di quanto non lo si nasca; che si può uscire ed entrare da questa condizione con facilità, e con una buona dose di dolore; che tra chi è caduto e non riesce a risollevarsi possono esserci il senzatetto ma anche la famiglia, la madre single, l’anziano invalido a cui non basta lavorare o ricevere una pensione.
Capire che il quadro è così sfaccettato può aiutare a immaginare soluzioni in grado di rompere con il passato. In alcune città italiane si sperimenta con successo un’alternativa ai dormitori per i senzatetto: a chi vive per strada si dà subito una casa e gli si costruisce intorno una rete di assistenti sociali, medici e volontari per aiutarlo a risollevarsi. L’esperienza dimostra che funziona, e che ha costi minori per lo stato.
In molti paesi le droghe leggere sono depenalizzate, sottraendo soldi e manovalanza alle mafie che le gestiscono, ed evitando a molte persone di finire in carcere per il loro uso o lo spaccio. I corridoi umanitari aiutano chi scappa da situazioni infernali ad arrivare in Italia senza essere risucchiato dall’illegalità, e spesso da piccoli crimini. Le misure come il reddito di cittadinanza vanno migliorate e non affossate. Le alternative vanno incoraggiate e non scoraggiate.
Ancora una volta, lo si può dire meglio con la letteratura, in questo caso prendendo in prestito i versi di una poesia di Stig Dagerman: “Un giorno all’anno si dovrebbe immaginare / la morte chiusa in una scatoletta bianca. / A nessuna illusione si dovrebbe rinunciare, / nessuno morrebbe per quattro dollari in banca.// (…) Nessuno vien bruciato all’improvviso / e nessuno per strada ha da crepare”. Un giorno all’anno è poco, si dirà: può darsi, ma se così fosse è uno sforzo che tutti potrebbero fare. Non una rivoluzione, un inizio.
Da sapere
Le arterie della povertà
Le foto di queste pagine fanno parte del progetto La vita è altrove di Gabriele Guida. Incrociando una serie di dati diffusi da Istat, ministero dell’economia e delle finanze, Inps, sindacati e associazioni, Guida ha scelto di concentrarsi su sei arterie stradali e alcuni comuni, scelti in base alla popolazione e alla percentuale di dichiarazioni dei redditi al di sotto dei diecimila euro. Il progetto, cominciato nel 2020, è ancora in corso.
Giuseppe Rizzo
11/1/2023 https://www.essenziale.it/
Questo articolo è uscito su Parole, un numero di Internazionale Extra che raccoglie reportage, foto e fumetti sull’Italia. Si può comprare in tutte le edicole e sul sito di Internazionale, oppure in digitale sull’app di Internazionale.
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