Droghe, diritti del lavoro e tutela della salute. Verso la conferenza nazionale sulle droghe e le dipendenze
L’uso di sostanze psicoattive, legali o illegali – sporadico o sistematico – è un fenomeno sociale di enorme portata, che investe le condizioni di vita e di lavoro di milioni di persone (1). I cittadini utenti in carico ai servizi sono oltre centocinquantamila.
Si comprende bene perché vi sia una specifica attenzione da parte del sindacato confederale, che ha più fronti di intervento. Si pensi alla questione dei test antidroga imposti ai lavoratori (che riguardano anche la tutela da forme di “controllo” improprio), al diritto alla tutela della salute e alle cure per i cittadini, alle condizioni delle operatrici e degli operatori dei servizi socio sanitari pubblici e privati. Sono tutti fronti di intervento impegnativi, sui quali la Cgil e la Fp Cgil hanno deciso di agire insieme alle diverse associazioni che hanno formato il “Cartello di Genova” e, naturalmente, sviluppando un lavoro unitario con Cisl e Uil.
La Conferenza nazionale sulle droghe e le dipendenze (verso Ungass 2016)
La Cgil e la Fp Cgil intendono contribuire alla preparazione della Conferenza governativa sulle droghe e parteciparvi attivamente (verso l’Assemblea Generale dell’ONU sulle droghe di New York (UNGASS 2016). La conferenza di Genova dell’autunno 2000 è stata l’ultimo vero, grande confronto fra operatori e degli operatori stessi con le istituzioni. Nel frattempo – nell’era della totale autoreferenzialità del Dipartimento Anti Droga (governato dal duo Giovanardi – Serpelloni) – l’unico appuntamento “istituzionale” in cui sindacato e associazioni hanno potuto far sentire la loro voce è stata la Conferenza sulle droghe di Torino 2009 “La governance nel settore delle Dipendenze”, organizzata dalla Conferenza delle Regioni. Subito dopo è nato il Tavolo di confronto nazionale sulle Dipendenze, presso le Commissioni Salute e Politiche Sociali della Conferenza delle Regioni, che purtroppo ha avuto vita breve con il cambio della regione coordinatrice (dalla Toscana al Veneto). Nel frattempo – complice un’attuazione disordinata della riforma del Titolo V della Costituzione – si sono creati sistemi sanitari assai diversi, con una frammentazione e un’accentuazione del divario tra le regioni – e persino all’interno delle stesse.
I temi da affrontare nella Conferenza italiana del 2016 riguardano in particolare: l’approvazione di nuove norme, dopo gli interventi della Corte Costituzionale, per la depenalizzazione, con una regolamentazione per la cannabis.
dare piena legittimità in Italia alla Riduzione del danno e alle innovazioni, adottando il modello europeo dei 4 pilastri (applicazione legge penale contrasto narcotraffico, prevenzione, trattamento, riduzione del danno); tutela dei diritti e della libertà dei lavoratori (e test antidroga);
come restituire forza ai servizi, e quindi al lavoro, e realizzare una maggiore integrazione/collaborazione tra pubblico e privato sociale;
la revisione dei Lea Sanitari e la definizione di quelli Sociali;
1 Secondo lo studio IPSAD 2013/2014 hanno consumato, nell’anno, almeno una sostanza psicoattiva illecita quasi 4 milioni di italiani tra i 15 e i 64 anni. Di questi, circa 3,5 milioni hanno consumato cannabis.
valorizzare la ricerca indipendente condotta in questi anni, anche per orientare le politiche;
definire forme stabili per il coinvolgimento degli “attori” che si occupano di politica delle droghe, della giustizia e del carcere, di politiche sociali e sanitarie: il sindacato dei lavoratori e le forze sociali, le associazioni, le reti di consumatori.
Sindacato, Associazioni, organizzazioni di rappresentanza e tutela non chiedono di partecipare solo per “rivendicare”, sono impegnati ad assumersi responsabilità, ma le Istituzioni (Governo, Regioni, Comuni) non possono chiedere responsabilità senza aprirsi alla partecipazione. Che va organizzata con sedi e strumenti definiti.
Una nuova legislazione.
Quella delle “droghe” è una grande questione sociale e culturale – come abbiamo scritto e sostenuto tante volte – che non può essere affrontata con strumenti moralistici o repressivi.
Che anzi si sono dimostrati fallimentari e da cambiare. Finora il tema dell’uso di sostanze è stato affrontato in termini securitari, e così la lotta alla droga si sostanzia, di fatto, in lotta alle persone che fanno uso di sostanze (piuttosto che ai grandi trafficanti). E’ indispensabile spostare l’attenzione dalla repressione penale alla salute pubblica.
La sentenza della Corte Costituzionale sull’illegittimità della legge Fini-Giovanardi offre finalmente questa possibilità: e spinge a definire una nuova normativa penale, che porti alla depenalizzazione e de criminalizzazione, con nuove ipotesi di regolamentazione per la cannabis (indispensabile anche per interrompere il ricorso ad una pena illegittima che ha incarcerato migliaia di persone). Contro quella legge la Cgil si è battuta insieme ad un vasto schieramento di forze; e oggi non può non rilevare che, dopo la sentenza della Consulta, il semplice ritorno al decreto 309/90 “riveduto e corretto” è del tutto insufficiente. E’ necessaria, quindi, l’elaborazione di un nuovo quadro normativo che consenta di procedere sulla via della deflazione carceraria e contenga la misura, tante volte anche da noi auspicata, della depenalizzazione del consumo di sostanze.
La tutela e la libertà dei Lavoratori (test antidroga)
Le politiche di criminalizzazione e meramente repressive hanno conseguenze preoccupanti anche per i diritti dei lavoratori e per la loro libertà. Ancora più preoccupante è constatare che si sommano ai ripetuti tentativi di ristabilire un totale controllo delle imprese sui propri dipendenti, da ultimo con alcuni decreti attuativi del Jobs Act, che modificano persino l’articolo 4 dello Statuto dei diritti dei Lavoratori sul controllo a distanza. Il rispetto dei diritti e della libertà si afferma sempre in modo inseparabile nel lavoro e nella società.
L’annosa questione dei consumi fra i lavoratori impegnati nelle cosiddette mansioni a rischio, non può certo essere impostata – come purtroppo si è fatto negli anni scorsi – sul facile e velleitario presupposto del “consumo zero, sempre e per sempre” da parte di chiunque guidi un mezzo pubblico o faccia un lavoro analogo.
Il consumo è dannoso – e va sanzionato – quando incide effettivamente sulla prestazione lavorativa, abbiamo detto e ripetuto mille volte. La dipendenza e l’abuso, invece, vanno curati e prevenuti con l’educazione e l’informazione e non “stanati” tendendo inutili agguati ai lavoratori, che possono avere conseguenze pesantissime, ingiuste e ingiustificate, di tipo professionale, salariale e persino per la conservazione del posto di lavoro. Un conto è accertare l’integrità psicofisica del dipendente nel momento in cui sta lavorando, mentre non è accettabile occuparsi dello stile di vita di una persona al di fuori del luogo di lavoro, nel tempo libero. È una palese violazione della privacy che nulla ha a che vedere con le sacrosante esigenze di sicurezza per le lavorazioni a rischio. Peraltro i risultati dei test antidroga confermano l’inefficacia – l’inutile spreco potremmo dire – di una simile strategia.
Da tempo CGIL CISL UIL si sono espresse chiaramente, si veda la nota del 6 febbraio 2009: “Accertamenti sanitari di assenza di tossicodipendenza o di assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope in lavoratori”, e quella più recente del 21 maggio 2015. Negli incontri degli ultimi mesi avvenuti al Ministero del Lavoro e della Salute su questo tema sembra emergere, anche fra le organizzazioni datoriali, la consapevolezza della complessità del problema. Per la Cgil, al di là delle singole particolari questioni, è proprio questo il nodo: la consapevolezza della complessità del problema in tutte le società contemporanee (vedi anche le novità che vengono dagli Usa e dall’America latina) e, dunque, la necessità di soluzioni razionali e eque, profondamente estranee ad ogni approccio fondato sulla demagogia e sulla semplificazione.
Importante è anche fare il punto sugli strumenti normativi e contrattuali a disposizione per la tutela dei lavoratori con problemi di dipendenza.
Dare forza ai servizi, per garantire il diritto alla salute e all’assistenza.
Una casa danneggiata (diroccata ?) ma ancora utile per ripararsi; e un gruppo di persone – gli utenti – che ne ha un estremo bisogno, come riparo e rifugio, come base per ripartire. Questa metafora può rendere l’idea di cosa è oggi il sistema di cura italiano per le dipendenze: un edificio prezioso che va, nello stesso tempo, difeso, rinnovato e ricostruito. Anche per rispondere alle trasformazioni intervenute nello scenario delle dipendenze e dei consumi.
In questi anni, sono intervenuti cambiamenti profondi nelle tipologie e nelle modalità di consumo e di consumatori, di contesto sociale, legislativi, nell’assetto dei poteri tra Stato e Regioni. Il primo fondamento del sistema dei servizi, il decreto 309/90 (e il suo inapplicato completamento, il decreto 444 sui Sert) è tragicamente invecchiato e andrebbe drasticamente ristrutturato.
Ma c’è soprattutto un estremo bisogno di riprendere il dibattito sulla qualità dei servizi, sugli stili operativi, sui modelli organizzativi a partire dal rilancio del Dipartimento delle dipendenze, sulle risorse destinate ai servizi, sull’integrazione sociosanitaria e sul rapporto fra pubblico e privato sociale.
Stop ai tagli, risorse adeguate
Innanzitutto bisogna invertire le politiche di austerità degli ultimi anni, centrate su una visione distorta di sostenibilità del sistema sociale e sanitario, intesa solo dal punto di vista economico, e quindi basate su tagli, il più delle volte lineari, che hanno penalizzato in maniera drammatica soprattutto i servizi territoriali, per quanto riguarda sia le risorse che il personale. Sapendo che in Italia la spesa, sia pro capite che in rapporto al PIL, per la protezione sociale (sanità e assistenza sociale) è più bassa della media UE a 152 .
Gli effetti perversi di politiche di riduzione della spesa, basati su una interpretazione ragionieristica dei costi standard, ha portato, per esempio, in alcune Asl all’acquisto di siringhe di qualità estremamente scadente (come segnalato da operatori di vari territori, vedasi ad esempio Arcieri – responsabile drop in dipartimento Dipendenze 1 ASLTO2 – su “Il Manifesto” del 10 giugno 20153 ) mettendo a rischio l’efficacia degli interventi e il conseguente riemergere di comportamenti a rischio, come lo scambio delle siringhe acquistate personalmente dai consumatori.
In una simile situazione sono i servizi più fragili, come quelli per le dipendenze, che rischiano di essere compromessi. Al contrario sono proprio quelli verso i quali la spesa dovrebbe essere considerata un “investimento prezioso, ad altissimo rendimento
2 R. Fantozzi su dati Eurostat – maggio 2014) 3 http://www.sossanita.it/doc/2015_06_OBIETTA-SIRINGA.pdf
Attualmente il costo dell’ intero sistema dei servizi per le dipendenze si aggira intorno all’ 0,8% della spesa sanitaria. Per questo è bene essere netti: bisogna arrivare per il Settore Dipendenze a finanziamenti non inferiori al 2% dei fondi sanitari, ci si può arrivare in modo progressivo ma l’obiettivo deve restare.
Qualità del lavoro è qualità dei servizi
Il blocco del turn over ha fatto sì che le dotazioni organiche si siano sempre più impoverite, e che le sostituzioni, laddove effettuate, siano state sempre fatte ricorrendo a personale precario (i dati ci parlano di un 50% circa di sostituzioni precarie).
Anche per questo i servizi per le dipendenze spesso oggi si trovano troppo spesso nella condizione di essere ambulatori per la somministrazione delle terapie farmacologiche alternative e di accogliere in gran parte persone inviate dalla magistratura, o dalle prefetture, e quindi poco motivate, che vivono la frequenza al Ser.T come una inutile vessazione. Come un obbligo non un’opportunità di cura. Di conseguenza, è estremamente difficile elaborare e praticare forme diverse di intervento, come servizi di prossimità (drop in, attività di strada, centri a bassa soglia, ecc), più appropriati e più efficaci, mortificando la professionalità degli stessi operatori.
Mentre la prevenzione, in questi anni, e non solo per le dipendenze, è stato tema letteralmente abbandonato, che invece è urgente far tornare al centro dell’agenda e del lavoro dei servizi, sapendo che per fare prevenzione serve agire in modo integrato su “tutte le politiche”. Un concreto terreno di lavoro è offerto dal Piano nazionale per la Prevenzione 2014 – 2018 che, tra i dieci macro obiettivi, ne dedica uno specifico: “Prevenire le dipendenze da sostanze e comportamenti”
Questa mortificazione dei servizi ostacola i Sert nello sforzo affrontare i fenomeni nuovi. E con il blocco del turn over e l’invecchiamento degli operatori si rischia di non poter trasmettere a nessuno le capacità e le esperienze accumulate. Nel frattempo, i dati disponibili sul fenomeno – purtroppo sempre di più scarsi e lacunosi – rendono comunque evidente la continua evoluzione qualitativa e quantitativa del problema (cocaina; nuove sostanze nei luoghi del divertimento; gioco d’azzardo patologico, …).
Il privato sociale accreditato ha cercato spesso e utilmente un raccordo con i Sert ed ha sperimentato una gamma vastissima di forme innovative di cura o di accompagnamento (riduzione del danno; unità di strada; intervento nei luoghi del divertimento. Quest’area di nuove professionalità e nuove strumentazioni, invece di passare, come sarebbe stato necessario, dalla condizione del “progetto” a quella del vero e proprio “servizio”, è stata in genere delegittimata culturalmente e, spesso, addirittura demolita sul piano del finanziamento.
La tendenza va allora invertita cercando i luoghi e gli strumenti per una autentica programmazione integrata, in cui il ruolo del pubblico rimane centrale, ma senza timidezze rispetto alla cronica sordità del decisore politico e dei vari livelli amministrativi. In particolare, la riduzione del danno, vero e proprio paradigma innovativo degli ultimi due decenni, va riportata necessariamente ai livelli europei, sostituendo, anche culturalmente, quella “drastica eliminazione di tutte le droghe, per sempre” che era il presupposto – autoritario ed utopico al tempo stesso – della legge 49 del 2006.
Contrattare per innovare
Per fare tutto ciò bisogna innovare, e per farlo bisogna investire nel lavoro: con adeguate dotazioni organiche e stabilizzazione dei precari, con formazione, percorsi professionali, incentivi all’innovazione. se è cosi, bisogna rendere effettivo lo sblocco del turn over e della contrattazione.
Cgil, Cisl, Uil proprio in queste settimane (dopo un’altra sentenza clamorosa della Corte Costituzionale: che ha giudicati illegittimo il blocco dei contratti di lavoro disposti dalle manovre finanziarie) hanno presentato le piattaforme per il rinnovo del Contratto, fermo al 2009, e per sviluppare la contrattazione integrativa, come strumenti che permettono di intervenire concretamente sui temi dell’organizzazione del lavoro e della valorizzazione delle competenze.
Il tema dei diritti, della contrattazione e della qualità del lavoro riguarda tutti i lavoratori ovviamente: l’occupazione del settore (oltre 15mila addetti) è al 50% nel pubblico e al 50% nel privato accreditato/autorizzato. La qualità del lavoro, a partire dalle corrette condizioni contrattuali e salariali degli operatori, è la base fondamentale per sostenere e rinnovare il sistema di welfare nazionale e locale. E le regole delle convenzioni e degli appalti sono e saranno determinanti per garantire diritti, legalità, trasparenza, contro ogni forma di corruzione. Esiste infatti un nesso inscindibile tra la qualità del lavoro e quella dei servizi offerti ai cittadini, tanto più di cura alla persona. Così solo un corretto sviluppo del settore può essere volano indispensabile di coesione sociale e di ripresa economica.
Per questo abbiamo chiesto a Governo e Regioni di concordare Linee Guida omogenee di fronte all’incredibile molteplicità delle forme di accreditamento, e per i criteri di affidamento delle concessioni o degli appalti, che hanno conseguenze dirette sulla qualità del servizio e sulle condizioni materiali di lavoro delle persone, e spesso sulla garanzia del posto di lavoro. In questo senso, può aiutare anche la semplificazione contrattuale con l’orizzonte della ricomposizione delle filiere.
Per questo pensiamo al contratto di settore come strumento per rispondere al dumping contrattuale, per far si che davvero ad uguale lavoro corrispondano uguale salario ed uguali diritti.
Ci preoccupa invece il testo del ddl di Riforma del Terzo Settore che rischia di allargare anziché restringere la possibilità di agire per imprese profit, con il serio rischio che irrompano logiche di mercato nei servizi del welfare, già duramente colpito dai tagli alla spesa per la protezione sociale
Infine, bisogna organizzare il coinvolgimento diretto degli utenti nell’organizzazione dei servizi, che devono essere posti in sedi adeguate ed idonee: spesso proprio la collocazione dei servizi contribuisce allo stigma ed alla marginalizzazione delle persone.
I Livelli Essenziali di Assistenza sanitaria e delle Prestazioni Sociali.
Il problema delle dipendenze deve essere necessariamente affrontato anche nell’ottica dei Livelli Essenziali “delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale”, come li prevede la Costituzione. Altrimenti diritti non definiti non sono poi esigibili.
Oggi sappiamo che i Livelli Essenziali Sanitari (LEA) sono definiti, mentre quelli di Assistenza Sociale no. Manca quindi un tassello fondamentale. Già questo descrive un primo compito: si tratta di definire i “LE Sociali” per via legislativa. Mentre sarebbe di grande utilità la revisione dei Lea sanitari (prevista anche nell’ultimo Patto per la Salute), nella cui bozza in discussione tra Governo e Regioni vi è un capitolo interessante dedicati ai Lea per le dipendenze compreso il riferimento al Gioco d’Azzardo Patologico. Anche questo è tema da discutere nella Conferenza governativa.
Ma il vero problema è che il diritto alla tutela della salute e all’assistenza sociale non è garantito in tutto il Paese. Vi stato un eccesso di autonomia delle regioni, così si rischia di distruggere l’unità del Paese nel campo dei diritti sociali. E vi sono differenze enormi tra regione e regione, certo dovute anche a differenti capacità di amministrare e governare. Per questo è urgente una parziale revisione del Titolo V della Costituzione assegnando maggiori responsabilità allo Stato, senza nessuna ipotesi neo centralista. Questo non toglie autonomia e piena responsabilità alle regioni. Soprattutto serve creare un sistema più forte a garanzia dei Livelli Essenziali (non controllare solo i bilanci), con una a “Task Force” Stato Regioni che possa intervenire nei territori in difficoltà.
Le questioni da affrontare sono molteplici e complesse, è dovere delle Istituzioni pubbliche governarle e agire, ma l’esperienza ci insegna che solo affidando responsabilità, ruolo, e organizzando sedi e spazi di effettiva partecipazione a tutti gli attori sociali impegnati – sindacato, associazioni, utenti – è possibile ottenere risultati efficaci e sostenere i cambiamenti.
di Stefano Cecconi, Giuseppe Bortone (CGIL nazionale)
Denise Amerini (Funzione Pubblica CGIL nazionale)
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