8 MARZO 2023: LE DONNE, TRA DIRITTI NEGATI E CONSAPEVOLEZZE NUOVE

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E siamo giunti anche all’otto marzo dell’anno 2023. La Giornata Internazionale della Donna. Certo, queste Giornate non devono ridursi alla ritualizzazione di un evento o di una problematica che poi viene accantonata e chi s’è visto s’è visto! A volte mi è capitato di sentir dire che questa Giornata è inutile, perché si riduce poi a folklore, allo scambio di auguri e di cioccolatini, a una cena tra amiche…Però a me sembra anche importante il fatto di poter accendere i riflettori con una luce più vivida su una problematica sociale o esistenziale o su una ricorrenza storica, di cui occorre mettere in rilievo tutto il significato, non perché poi venga accantonata, ma perché ci si torni a riflettere su e ad attivarsi di conseguenza, anche alla luce di nuove acquisizioni. Ed è quello che mi propongo di fare con questo articolo.

Dunque, a che punto è il processo di effettiva liberazione della donne dalle oppressioni o anche solo delle limitazioni imposte loro da una società e cultura patriarcali? Come riportato dalla rivista “Atlante” “Il 2022 è stato un anno ambivalente per i diritti delle donne. Se si sono verificati clamorosi passi indietro, ci sono da segnalare anche piccole e grandi buone nuove”.
Eh, sì, purtroppo occorre registrare “clamorosi passi indietro”. A cominciare dall’Italia.
Vorrei soffermarmi su due fatti di cronaca, che testimoniano piuttosto la violazione dei diritti delle donne, proprio nell’ambito della salute e del lavoro. Il primo viene riportato da Pina Catalanotto sul quotidiano online “Pressenza”. Si riferisce a un caso accaduto nell’Ospedale Pertini di Roma lo scorso gennaio. Una giovane donna, a tre giorni dal parto, è lasciata sola con il suo bambino, ma, stremata dalle fatiche del parto, si addormenta e, inavvertitamente, soffoca il neonato.

Questo episodio ha suscitato un vespaio di polemiche e molte donne hanno testimoniato il fatto che, specialmente nel periodo del covid, dopo il parto sono state lasciate completamente da sole, abbandonate a se stesse, con tutte le difficoltà fisiche e psicologiche del post partum. “Cura, attenzione, tempo, proprio quello che manca nei reparti maternità depotenziati dalla riduzione di risorse e dall’emergenza Covid degli ultimi anni. Pesa la mancanza cronica di ginecologi, pediatri, ostetriche ma anche di una formazione adeguata per questi operatori che devono affrontare un percorso di accompagnamento e di cura “affettiva” e non solo medica verso un evento emotivo con il suo strascico di emozioni, paure, dubbi, talvolta devastanti per molte donne” scrive l’autrice dell’articolo. E non sono mancate anche voci di critica e di condanna per quella povera donna che ha soffocato il figlio, in virtù del vieto pregiudizio che una donna deve essere “naturalmente” madre e che, come tale, fin dall’inizio e a costo di tutto, deve sapersi occupare di suo figlio!

L’altro fatto è stato riportato su “La Stampa” di Torino. A una donna non è stato rinnovato il contratto di lavoro perché incinta da più di sei mesi. Si tratta di una torinese di 37 anni che lavorava nel settore vendita e back office. Il fatto ha anche suscitato la reazione sdegnata dell’assessora al Welfare e alle Pari Opportunità del Piemonte Chiara Caucino, la quale sottolinea che “la donna sostiene di non aver avuto problemi con il datore di lavoro fino a quando si è accorta di aspettare un bambino: da quel momento l’azienda le avrebbe raddoppiato il lavoro, quasi a voler provocare un passo indietro. Poi la doccia gelata: nessun rinnovo, e solo una scarna comunicazione che attribuiva al Covid la causa della presunta impossibilità a proseguire il rapporto”.

Questi due eventi si commentano da soli. Peraltro, in un contesto in cui per la prima volta, nella storia della Repubblica, abbiamo un (una?) Presidente del Consiglio donna. La quale, fin dall’inizio della sua campagna elettorale, non ha fatto altro che accentuare la necessità di incoraggiare l’incremento delle nascite, affidandone il compito a un apposito Ministero, il ministero della “Famiglia, Natalità e Pari Opportunità”. Che poi non sfuggono alcune incongruenze logiche: se la politica intende aumentare le nascite e le donne incinte vengono estromesse dal mondo del lavoro, evidentemente le donne incentivate a diventare madri devono rinunciare a essere anche lavoratrici. O meglio: lavoratrici retribuite con diritti sindacali, perché poi sarebbero ugualmente caricate del lavoro domestico, di cura dei minori e di assistenza agli anziani. Rigorosamente senza retribuzione. Mi chiedo allora in che cosa consistano le “Pari opportunità”! E lasciamo anche perdere i richiami alle viete retoriche sulla necessità di “dare figli alla Patria”, mentre altre donne incinte o con bambini piccoli rischiano di essere considerati meri “carichi residuali”.

Un altro dato inquietante sul pauroso regresso di diritti conquistati dalle donne viene dall’Associazione LAIGA194, la quale, sull’obiezione di coscienza per i sanitari prevista dalla legge 194 rispetto all’interruzione volontaria di gravidanza, riporta che la percentuale degli obiettori – obiettrici supera il 70% in ben 10 Regioni. Le percentuali più alte si rilevano nella provincia di Bolzano (87,2%) e nel Molise (92,3%). Inoltre spesso le donne, dati i tempi di attesa troppo lunghi negli ospedali pubblici sono invitate a rivolgersi a strutture private oppure sono costrette ad andare all’estero. “Tuttavia, tale opzione di viaggiare lontano alla ricerca di accesso a servizi di IVG, dati i costi, i tempi e le preoccupazioni logistiche che ciò comporta, non è una soluzione alla portata di tutte ed esacerba quindi le disparità esistenti nell’accesso all’assistenza sanitaria”.

Altro dato di una allucinante drammaticità e che non accenna affatto a diminuire è l’altissimo numero dei femminicidi, compiuti in tutto il mondo e per lo più da partner affettivi o familiari delle donne. Sempre per restare in Italia, secondo il dato del Viminale sono state ben 120 le donne uccise durante il 2022, l’ultima delle quali il 24 dicembre, la vigilia di Natale! Una donna 29enne della provincia di Trapani, uccisa a coltellate dal marito 63enne. Il governo Meloni prevede l’erogazione del “Reddito di Libertà” che ammonta a 400 euro mensili all’anno e che dovrebbe essere gestito dai Centri Antiviolenza. Ma Viviana Lanza scrive su “Il Riformista” “I C. A. dovrebbero avere finanziamenti regolari, dovrebbero ottenere più fondi, dovrebbero essere più numerosi su ciascun territorio e invece sono in costante sofferenza e diffusi ancora a macchia di leopardo”.

Se poi spostiamo la nostra visuale dall’Italia al mondo su avvenimenti recenti che riguardano le donne e la loro condizione, non possiamo fare a meno di registrare ulteriori regressi o quanto meno il persistere, se non l’aggravarsi, di situazioni di forte oppressione o di discriminazione che riguardano le donne. Faccio riferimento solo a tre realtà geopolitiche, in questi ultimi tempi al centro della scena e del dibattito internazionale. La prima riguarda gli Stati Uniti. Riporta la giornalista Elisabetta Grande in un articolo pubblicato su “Micromega”: “Dopo la sentenza della Corte suprema che ha eliminato la garanzia costituzionale del diritto all’aborto, negli Usa è esplosa una vera e propria guerra giurisdizionale fra Stati anti-abortisti e Stati pro choice e fra livello statale e livello federale. Una drammatica confusione che neanche una vittoria dei democratici alle mid-term di novembre potrà risolvere facilmente”. Riguarda ovviamente la regressione che c’è stata in diversi Stati (dodici per l’esattezza) in cui si è drasticamente ridotto, se non addirittura eliminato, il diritto delle donne statunitensi alla interruzione volontaria di gravidanza. A volte anche quando essa sia frutto di violenza, di incesto o in caso di malformazione del feto. In Texas, per chi pratica l’aborto su una donna è previsto l’ergastolo. E prosegue la giornalista: “Si tratta, insomma, di un vero e proprio quadro di guerra fra giurisdizioni, in cui gli Stati si equipaggiano sul piano giuridico per colpire e per difendersi. Senza contare che il diritto di libera circolazione, messo in pericolo da chi vorrebbe impedire alle donne di viaggiare per abortire fuori dalla propria giurisdizione che non glielo consente, è da tempo riconosciuto come degno di protezione dalla costituzione federale. Le battaglie legali si estendono così anche al livello federale”. Una restrizione ai diritti delle donne nell’ambito di un Paese che si dice “esportatore di democrazia” e “difensore dei diritti delle donne”, iniziata sì ai tempi della presidenza Trump, ma che non accenna a trovare soluzione neppure con i Democratici al governo!

D’altra parte, se ci spostiamo in un’altra parte del pianeta, dopo ben venti anni di permanenza di questi “esportatori di democrazia e di diritti”, in Afghanistan sono tornati al potere i talebani e, in spregio alle risibili promesse fatte dopo la partenza degli Americani di tutelare i diritti delle donne, la condizione femminile in Afghanistan è nettamente peggiorata. Scrive l’inviata di Euronews Annelise Borges “Con il ritorno dei talebani la condizione femminile in Afghanistan ha fatto un balzo indietro di 20 anni: alle donne sono stati proibiti gli studi superiori e le cariche pubbliche. Sono state bandite dallo sport e scoraggiate a uscire di casa senza un parente uomo”. Inoltre la ONG “Save the Children” fa presente che molte donne afghane sono tagliate fuori dagli aiuti umanitari perché un decreto dei talebani vieta alle donne di avere contatti con le ONG. Gli aiuti umanitari possono essere distribuiti esclusivamente dagli uomini. Ma le donne possono essere aiutate solo dalle donne. In questo modo, moltissime donne sole o vedove e con figli piccoli sono irrimediabilmente tagliate fuori anche dagli aiuti, di diritti non se ne parla nemmeno!

Infine, come non citare il caso della ragazza curda -iraniana Mahsa Amini, picchiata a morte dalla “polizia morale” del suo Paese soltanto perché non portava il velo in modo appropriato? D’altra parte, anche in Iran la situazione delle donne è nettamente peggiorata negli ultimi tempi, perché quando era presidente Hassan Rohani, un ayatollah più riformista, la questione dell’abbigliamento femminile era seguita in modo meno rigido, pur restando nei canoni della morale islamica integralista. Ma da quando al potere è andato
Ebrahim Raisi, più conservatore, la situazione è nettamente peggiorata e la polizia morale si sente autorizzata a intervenire in maniera molto più brutale.

Eppure, nonostante i diritti negati, nonostante le repressioni sanguinose, si possono cogliere anche segnali di speranza. A cominciare proprio dalle donne iraniane. L’omicidio di Mahsa Amini ha dato il via a una serie ininterrotta di manifestazioni di protesta e il dato importante è che queste proteste sono attivate proprio dalle donne, perché riguardano in gran parte la loro situazione specifica, a cominciare dall’obbligo di abbigliarsi in un certo modo. E l’altro dato importante è che le proteste coinvolgono anche gli uomini a fianco delle donne e si estendono anche ad altri settori che comunque mettono a rischio la stessa tenuta della Repubblica islamica, le fondamenta stesse dell’integralismo religioso.
Scrive Alice Pistolesi su “Atlante”: “Questa è forse la prima volta che una protesta di queste dimensioni riguarda la polizia morale e l’hijab. È una mobilitazione interessante anche perché sta coinvolgendo in primis le donne, ma sono molti anche gli uomini che partecipano. Si tratta poi di una protesta che coinvolge in primo luogo le nuove generazioni, ma non solo. Lo slogan che molti recitano è “Giustizia, libertà, hijab volontario”, un altro è “morte al dittatore”, ovvero quello che si gridava a suo tempo contro lo Shah”. La protesta sta diventando sempre più forte e generalizzata anche perché le condizioni economiche dell’Iran sono molto critiche e per molti giovani lì non c’è futuro. Come sottolinea la Pistolesi: “Il Paese sta attraversando una crisi economica spaventosa di cui soffre anche la classe media. I giovani non vedono prospettive future. In questo momento basta un fiammifero per incendiare la prateria. Il Regime deve quindi stare attento a non provocare l’ira dei suoi cittadini. Non c’è oggi una forza politica organizzata che punta ad abbattere il regime, ma il malcontento popolare è molto forte”.

D’altra parte, la protesta femminile in Iran è forte e strutturata da tempo. Da anni attiviste iraniane danno voce alla loro protesta, attraverso il progetto “My Stealty Freedom” fondato dalla giornalista Masih Alinejad. Come riporta sempre Alice Pistolesi, entro il 2016 la Pagina Face Book del movimento aveva superato il milione di like. Il movimento ha anche ricevuto il Women’s Rights Award dal Summit di Ginevra “per aver dato voce a chi non ha voce e sostenuto la lotta delle donne iraniane per i diritti fondamentali di libertà e di uguaglianza”. E sempre per opera della coraggiosa giornalista, nella battaglia per i diritti delle donne sono stati coinvolti anche gli uomini. Già nel 2016, è stato rivolto agli uomini l’invito a farsi fotografare con l’hijab accanto alle loro mogli o fidanzate. Molti uomini hanno risposto all’appello, sono apparsi velati e hanno pubblicamente dichiarato di essere contrari all’hijab indossato dalle donne.

Ma anche in Afghanistan la lotta delle donne non si è fermata, per quanto si esprima più in sottotono. Anche qui l’attivista Shamail ha organizzato il Movement for freedom and justice. Le proteste pubbliche sono molto più contenute e gli uomini non sono scesi in strada accanto alle loro donne. Tuttavia, un gruppo di studenti di Kandahar e Nangarhar ha protestato contro il divieto di frequentare l’università imposto dai talebani alle donne. E poi c’è stato il caso eclatante, riportato da “Avvenire”, del giovane professore universitario Ismail Mashal. “Mashal è salito alla ribalta dopo aver strappato i documenti accademici in diretta tv per protestare contro il divieto dei talebani all’istruzione universitaria e secondaria per le donne”. L’uomo ha affermato coraggiosamente alla BBC: “L’unico potere che ho è la mia penna, anche se mi uccidono, anche se mi fanno a pezzi, non rimarrò in silenzio ora”. “Inoltre – prosegue l’articolo su “Avvenire” – nella stessa intervista aveva rivolto un appello agli uomini afghani, perché sempre più numerosi si unissero alle proteste per permettere alle ragazze di studiare negli istituti superiori e nelle università.Quando i talebani hanno annunciato a dicembre che alle donne non sarebbe stato più concesso di studiare fino a nuovo ordine, il professore ha chiuso definitivamente l’università affermando che l’istruzione o viene offerta a tutti o a nessuno”.

Sono atti coraggiosi pesantemente pagati. Le proteste in Iran sono costate circa 400 vittime. Il professore afghano è stato duramente malmenato dalla polizia, prima di essere arrestato. Ma le donne iraniane e afghane hanno comunque innescato un processo di liberazione che, forse per la prima volta nella storia, ha costretto anche gli uomini a cambiare il loro punto di vista su di loro, a rinunciare ai loro privilegi patriarcali, E direi che non è poco!
Inoltre, è da registrare anche un importante caso di solidarietà internazionale tra donne.
Ritornando al continente americano, nel 2022 le femministe messicane hanno espresso piena solidarietà alle donne degli Stati Uniti a causa della limitazione del diritto di aborto e, come riporta “Atlante” “erano pronte a fornire sostegno alle loro sorelle nel nord perché avevano accumulato decenni di esperienza operando in aperta sfida alle leggi del governo messicano contro l’assistenza sanitaria riproduttiva di base

Ma l’anno 2023 è anche l’anno della guerra. Certo, di guerre ce ne sono sempre state tante, in ogni parte del mondo, ma questa che viviamo oggi e che dura da un anno è la “nostra” guerra, si combatte nel cuore dell’Europa, divide il mondo detto “cristiano”, entra con il suo grande impatto divisivo nelle nostre relazioni, nelle nostre case e persino nelle nostre coscienze. Allora, la domanda: come si pongono oggi le donne, di fronte alla guerra?

Ma, più nello specifico, come la vivono le donne dei Paesi in guerra, cioè l’Ucraina e la Russia? Mi limito a riportare due testimonianze, che ritengo interessanti. La prima, tratta da “Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa”, è dell’attivista femminista ucraina Viktoriia Pihul del collettivo anticapitalista “Sotsialnyi Rukh”. Da questa intervista emerge come la posizione delle donne ucraine, femministe e della sinistra socialcomunista, di fronte alla guerra sia molto difficile e anche irta di contraddizioni. E questo è facilmente
comprensibile. L’Ucraina è un Paese invaso e, al di là delle cause passate e recenti che hanno scatenato il conflitto, oggi è di fatto sotto occupazione. Viktoriia sottolinea il fatto che agli ucraini civili viene sottratto un bene prezioso: quello della sicurezza. “Definirei la nostra vita in questo periodo come un processo di lotta per la vita stessa. Veniamo infatti derubati di un bisogno umano fondamentale: la sicurezza”.

Pertanto la sua posizione è chiara e inequivocabile: lei, come le altre del suo collettivo, sono per la difesa armata, per opporsi militarmente alla Russia. Quindi sono favorevoli all’invio delle armi e all’éscalation militare, cosa, per esempio, che il Movimento per la Pace in Occidente rifiuta. Questo è quanto riferisce nella sua intervista. “Tutte le rappresentanze delle organizzazioni femminili e delle minoranze sono favorevoli alla difesa armata, perché il pacifismo astratto non funziona di fronte all’invasione russa. Inoltre sono attivamente coinvolte nella lotta: trovano aiuti umanitari, medicine (anche per le persone trans), creano rifugi e aiutano le donne con bambini a trovare o lavorare come babysitter. In più, donne e minoranze fanno parte delle forze armate e combattono in prima linea”. E prosegue: “Vorrei anche ricordare che la Russia e la sua propaganda ritengono che tutti i movimenti sociali, compresi quelli delle donne, siano una sorta di “agenti dell’Occidente”. Per questo motivo noi (attiviste) non abbiamo motivo o intenzione di rinunciare alla lotta. Non possiamo semplicemente deporre le armi, perché questo porterebbe a una catastrofe su scala globale. Il punto è che abbiamo il diritto di difenderci e lottiamo per la nostra libertà”.

Con tutta la comprensione per la situazione che sta vivendo attualmente il popolo ucraino sotto occupazione e senza alcuna presunzione di voler pontificare da una posizione di maggiore tranquillità esistenziale, vorrei però avanzare una piccola obiezione: a mio avviso, quello che lei definisce “pacifismo astratto” è in realtà la posizione di chi auspica la cessazione dei combattimenti e l’avvio di negoziati. Perché diversamente la guerra, pur con tutti gli aiuti militari immaginabili ai resistenti ucraini, diventa una guerra tra due superpotenze e a farne le spese è proprio, sempre di più e sempre con più vittime, il popolo ucraino e il suo territorio. Però mi rendo conto che è impossibile chiedere l’avvio di negoziati a chi è immerso fino in fondo nella guerra poiché la sua percezione della realtà è comunque in parte o in tutto distorta dalle sue convinzioni nazionalistiche e/o ideologiche.
E questo vale tanto per i Russi quanto per gli Ucraini. Pertanto, sarebbe necessario che un autorevole organismo sovranazionale realmente super partes proponesse le trattative e facesse da mediatore. Ed è proprio questo che manca, in effetti.

Ma poi c’è un’altra questione importante da tenere presente, sempre riguardo alle donne, e la stessa Viktoriia ne è pienamente consapevole. Qual è la posizione del governo ucraino nei confronti delle libertà e dei diritti femminili? Da poco il governo ha ratificato la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione, protezione e condanna della violenza contro le donne e della violenza domestica. Proprio a tale proposito, lei precisa: “Ma è importante ricordare che l’Ucraina l’ha adottata con emendamenti e restrizioni per garantire il consenso con i conservatori e la Chiesa. In altre parole l’Ucraina si è riservata il diritto di non modificare la Costituzione, il Codice di famiglia e altre leggi adottate in precedenza. Pertanto, tutto dipenderà dall’effettiva applicazione della Convenzione nella realtà”.

Ecco, appunto, che cosa succederà poi nella realtà? E quale posizione sta assumendo il governo ucraino nei confronti dei diritti sociali? “Il governo ucraino ha approvato leggi che limitano i diritti di lavoratrici e lavoratori: in primo luogo prevede la possibilità di rifiutare gli accordi collettivi con i sindacati (e questo viene già messo in pratica nelle imprese); in secondo luogo i datori di lavoro possono costringere a lavorare di più senza un accordo sindacale; ancora, viene previsto un sistema di licenziamento semplificato. Gli scioperi e le manifestazioni sono vietati. Dato che le donne sono ora costrette a lavorare di più, questa legge le riguarda direttamente.
Questa legge era stata preparata prima della guerra ma ora è un momento molto opportuno per approvarla, mentre l’attenzione dell’opinione pubblica è completamente spostata sul conflitto”. E aggiunge “In generale c’è un’opinione diffusa per cui questo non è il momento di criticare le politiche interne del governo, di affrontare le questioni di genere, comprese le quote di genere in politica, di affrontare il problema della violenza domestica, della disuguaglianza nel pagamento dei salari. Ma sappiamo che è impossibile rimandare tali questioni. Altrimenti questo nodo si stringerà ancora di più
”. E se è vero che anche per la politica nazionalistica russa femministe e pacifisti non sono che “agenti dell’Occidente”, è pur vero quello che lei stessa ammette: “Nella società ucraina c’è un certo stereotipo secondo cui le femministe sono “giovani ragazze pazze” che non hanno sviluppato una vita personale e odiano gli uomini. Questa è una debolezza, ma ci si può lavorare. Per me il nostro ruolo di femministe è quello di stare con le donne, aiutarle a superare i momenti più difficili, capire le loro esigenze, aiutare e dimostrare che ci battiamo davvero per i nostri diritti”. Potrà sicuramente finire la guerra e l’invasione russa, e io mi auguro quanto prima, e poi? Che posizione prenderà il governo ucraino? Questa è storia ancora da scrivere ma una cosa è sicura: la lotta delle femministe ucraine per l’affermazione e la tutela dei diritti delle donne non sarà finita!

Per quanto riguarda la situazione in Russia, anche qui non mancano le contraddizioni. Se è vero che il consenso alla “operazione militare speciale” di Putin contro l’Ucraina ha un notevole consenso, sia tra gli uomini che tra le donne, è pur vero che crescono anche in Russia le voci dissidenti e si amplificano sempre di più le proteste e le scelte di “obiezione di coscienza”, con conseguenti sanzioni punitive. Soprattutto si intensificano le voci femminili contro la guerra e l’invasione dell’Ucraina. La giornalista Marta Ottaviani de “L’Avvenire” riporta questa notizia: “È sempre più femminile la voce in Russia contro la guerra. I media del regime cercano di ignorarla, ma non passa giorno senza che nel Paese gruppi di donne scendano in piazza contro il conflitto, esasperate dalla crudeltà delle operazioni contro l’Ucraina, ma soprattutto perché vogliono sapere che fine abbiano fatto i propri figli, spesso portati al fronte in modo coatto e di cui non hanno più avuto notizie”. E aggiunge: “A San Pietroburgo, la città natale del presidente Putin, Liliya Yushchenko, madre di due figli, ha organizzato un picchetto solitario presso il centro commerciale Galereya, uno dei più noti della città. Sui social sono circolati cartelli, tenuti in mano durante le proteste che recitano “la guerra in Ucraina è un delitto contro l’umanità tutta e contro il senso dell’umanità” e “per la guerra in Ucraina pagheranno i nostri figli”.

Del resto, sin dagli inizi della guerra, la leader del “Movimento degli Obiettori di coscienza russi” è stata una donna, Elena Popova, la quale, ovviamente rischiando di persona, si è fatta portavoce delle posizioni del Movimento. Già un anno fa scriveva questo messaggio, riportato da “Azione nonviolenta”: “Penso sempre…agli amici ucraini che sono sotto le bombe, penso a chi sta perdendo le proprie case e i propri cari e quindi non devo lasciarmi prendere dal panico e devo continuare a lavorare per la pace. Vengono arrestate ogni giorno circa 3 o 5 mila persone. Fatelo sapere

Anche queste sono donne che, insieme alle iraniane, alle afghane, alle europee, alle sud e nordamericane, cercano di indirizzare la Storia su nuovi binari, che rifiutino il controllo sui corpi e sulle vite femminili, che rifiutino la soluzione dei conflitti con le contrapposizioni armate sempre più potenti e distruttive, retaggio anche di una millenaria logica patriarcale e maschilista, che scoprano nuove e inedite vie di solidarismo internazionale, anche e soprattutto, fra le donne. Perché oggi più che mai le donne, tutte le donne, da questa solidarietà internazionale e interculturale non hanno nulla da perdere “se non le proprie catene”!

Rita Clemente

Scrittrice. Collaboratrice redazionale di Lavoro e Salute

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