La barbarie giustizialista in Italia e il modello nordamericano
Rubo da un articolo di Luigi Ferrajoli pubblicato sul Manifesto del 2 marzo 2023, alcuni dati sulla situazione criminale del nostro paese che trovo semplicemente sconcertanti.
Pare che la criminalità negli ultimi trent’anni sia letteralmente crollata. Si è passati dai 1938 omicidi del 1991 ai 309 del 2022 (addirittura 271 nel 2021). Numeri simili, seppure non riportati, si hanno per la generalità degli altri crimini. Ebbene, nello stesso periodo, a fronte della diminuzione di quasi sette volte del peggiore dei crimini: il procurare la morte, la massima delle pene prevista nel nostro ordinamento, vale a dire l’ergastolo è più che quadruplicato passando dai 408 casi del 1992 agli attuali 1859, di cui i due terzi – esattamente 1267 – in regime “ostativo”. Sempre dal 1991 ad oggi, il numero totale dei reclusi è quasi raddoppiato passando da 31.053 agli attuali 56.158. Numeri folli! Come si possono giustificare?
Va detto innanzitutto che nella storia della lotta al crimine si sono determinate storicamente due tipi di risposte tra loro contrapposte. L’idea più antica è quella della perfetta simmetria tra crimine e pena. E’ la legge del taglione, “l’occhio per occhio”, o come diceva ancora Kant: “Chi ha ucciso merita di morire.” L’idea insomma che il criminale deve subire una punizione altrettanto crudele del danno che ha procurato. Con la nascita dello Stato di diritto si è affermata una logica opposta, quella della radicale “asimmetria tra la civiltà del diritto e l’inciviltà del crimine” (ancora Ferrajoli). L’idea insomma che di fronte alla crudeltà del crimine il diritto deve tenere saldi e riaffermare i valori di umanità come beni comuni inderogabili, anche nei confronti del criminale.
Ma com’è possibile che nel nostro paese si sia potuto verificare questo regresso dal diritto alla vendetta? Un regresso che è anche testimoniato dal continuo aggravarsi delle condizioni puramente punitive del carcere duro. Tutti capiscono, infatti, che limitare gli spazi, le ore d’aria, la disponibilità di libri e giornali, gli incontri con le famiglie e tutte le altre restrizioni che attualmente caratterizzano il 41 bis, non possono avere nessun rapporto con l’idea originaria, che dovrebbe giustificarle di impedire al recluso di avere rapporti con l’organizzazione criminale d’appartenenza.
Sicuramente all’origine del mutato orientamento del sistema penale, deve esserci stata la strumentalizzazione del giusto sdegno popolare contro i misfatti della mafia giunti alla loro massima espressione nella stagione stragista, con l’uccisione di Falcone e Borsellino. Una strumentalizzazione ampiamente favorita anche dalla tradizione non garantista e tendenzialmente giustizialista della sinistra storica italiana e del Partito Comunista in particolare. L’idea, non del tutto esplicitata e forse non del tutto consapevole, che in un’ottica di conquista riformista dello Stato, la giustizia potesse rappresentare la vendetta del povero nei confronti del ricco. Un’idea che si attagliava perfettamente alla lotta contro una mafia che fino agli anni ottanta è stata la più potente arma messa in campo dallo Stato per la normalizzazione e statalizzazione del Sud e delle periferie. Simbiosi tra boss e notabili democristiani per controllare i flussi della ricchezza e le forme della governance generale. Una sostanziale convergenza tra forze dell’ordine e famiglie mafiose per il controllo dei territori.
Ma con la caduta del muro e il mutamento dei rapporti geopolitici, e forse anche per rispondere all’indignazione popolare, tutto è cambiato, e allo Stato-mafia è subentrato lo Stato-legalità. Il controllo sociale tolto alla mafia e riconsegnato allo Stato sotto forma di polizia e magistratura, e col bisogno di giustizia prodotto dal basso, trasfigurato in giustizialismo gestito dall’alto. Una trappola entro la quale la finta sinistra di regime è facilmente caduta. O forse è meglio dire che ha fatto finta di cadere per occultare la sua organica complicità.
Potremmo accontentarci di questo, ma vogliamo azzardare per concludere un’ulteriore ipotesi da affiancare a quanto fin qui detto.
Se vogliamo considerare ciò che più macroscopicamente è mutato nell’ultimo trentennio, non possiamo non osservare come, nell’ambito del mondo Occidentale, la subordinazione dell’Europa al comando USA si sia trasformata in totale asservimento: l’accoppiata dollaro-guerra che costituisce il nocciolo del dominio nordamericano, presenta parecchie difficoltà a livello globale, ma in Europa la fa da padrona. L’Euro che poteva rappresentare una alternativa come moneta di scambio internazionale, ha ormai perso la sua battaglia, ed in fatto di guerra l’Europa non è un alleato, ma un fedele esecutore di ordini, come si può vedere dagli avvenimenti del conflitto in Ucraina. Per farla breve, siamo una colonia!
Ma cosa c’entra questo con lo sviluppo a casa nostra di un sistema penale giustizialista, punitivo e vendicativo?
Il fatto è che se una colonia è dominata innanzitutto dal punto di vista economico e politico militare, alla fine è portata ad assimilare anche i modelli culturali che dal centro arrivano alla periferia dell’impero. Se insomma siamo una parte sempre meno decisiva del mondo occidentale, non è lecito pensare che gli USA che ci sovrastano e comandano, alla fine riescano anche a condizionare il nostro modo di pensare, le nostre credenze e i nostri comportamenti?
Non è dunque lecito pensare che il giustizialismo, e la teoria e la pratica della pena crudele a fini punitivi e di vendetta, siano anche il prodotto della colonizzazione delle nostre menti da parte dei padroni nordamericani, grazie anche ai loro film, alla loro televisione e a tutti i loro stereotipi culturali?
Anzi permettetemi di dire a proposito della concezione della pena che domina nel sistema nordamericano, che più che parlare di modelli culturali bisognerebbe parlare di vera e propria barbarie. Ricordiamo a tal proposito che gli USA sono uno dei 56 paesi dove è in vigore la pena di morte; hanno la più numerosa popolazione carceraria del mondo, più di sei volte superiore alla media degli altri paesi; sono al primo posto nella diffusione delle armi da fuoco, che risultano essere 1,2 per ogni residente, in pratica 400 milioni di armi da fuoco per una popolazione di 333 milioni (bambini ed anziani compresi).
Se le cose stanno così, dobbiamo preoccuparci seriamente. Forse il fondo del barile non è stato ancora toccato. E magari dovremmo cominciare a interrogarci, da veri e convinti europeisti, se non sia il caso di vedere come sbarazzarci di questa Unione Europea, che sembra ormai divenuta a tutti i livelli un organo di controllo dei popoli, burocratico e repressivo, al servizio del padrone d’oltreoceano.
Antonio Minaldi
7/3/2023 https://www.pressenza.com
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