I fantasmi di Cutro sul processo Salvini a Palermo
1.Sul processo Salvini a Palermo, videoregistrato da Radio Radicale, si è allungata l’ombra delle vittime della strage di Cutro. In aula sono risuonate le stesse tesi che distinguono gli interventi di soccorso (SAR) dagli interventi di sorveglianza delle frontiere e di contrasto dell’immigrazione irregolare (law enforcement) che si sono ripetute per affermare che il caicco proveniente dalla Turchia si avvicinava alle coste italiane “in buone condizioni di navigabilità“. E “in buone condizioni di navigabilità” sarebbe stato il barchino (o barcone) di dieci metri con 55 persone a bordo soccorso da OIpen Arms il primo agosto del 2019. Ma non basta questa rilevazione per escludere una situazione di distress ( pericolo grave ed immediato) che impone un tempestivo intervento di soccorso, e che imporrebbe pure l’assunzione del coordinamento da parte della prima autorità statale che ne abbia notizia ed abbia i mezzi per intervenire e salvare vite umane, in modo da sbarcare i naufraghi in un porto sicuro (Place of safety- P.O.S.). Gli obblighi di intervento in caso di distress (pericolo immediato per i naufraghi), stabiliti dalle Convenzioni internazionali non cambiano a seconda della zona SAR nella quale avvengono i salvataggi o della natura della nave soccorritrice, del tipo di attività o di percorso che ha intrapreso o della attività che sta operando, perchè prevale il principio della salvaguardia della vita umana in mare che non ammette discriminazioni a seconda della ubicazione in mare, della tipologia del mezzo che effettua il soccorso, o dello status dei naufraghi, che si trovino all’interno del mare territoriale o in acque internazionali. La ripartizione del mare in zone SAR (Search and rescue) di competenza di singoli Stati, sempre in base alle stesse Convenzioni di diritto del mare e dei relativi emendamenti, non modifica i criteri di valutazione di una situazione di distress a seconda dell’ubicazione dell’imbarcazione da soccorrere, o delle circostanze dell’intervento di soccorso, se interviene un mezzo militare in attività di contrasto dell’immigrazione irregolare (law enforcement). Le zone SAR notificate dagli Stati all’IMO (Organizzazione matittima internazionale) sono zone di competenza non esclusiva per garantire la salvaguardia della vita umana in mare, non sono zone di giurisdizione nazionale o territoriale, nè tantomeno spazi stabiliti per escludere o rallentare attività di soccorso, quando è in gioco il valore superiore della vita umana in mare. Gli accordi bilaterali tra Stati non possono ridurre gli spazi di applicabilità delle norme e dei criteri di valutazione derivanti dalle Convenzioni internazionali e dai Regolamenti europei, semmai sarebbero doverosi accordi di coordinamento tra gli Stati costieri, al fine di garantire il soccorso immediato dei naufraghi e lo sbarco in un porto sicuro. Le decisioni in materia di ricerca e soccorso in mare non possono essere condizionate in definitiva dall’esigenza di ridurre o gestire i “flussi migratori”, termine che si può applicare nel caso di ingressi con visti legali, ma non nel caso di attività di ricerca e salvataggio in mare. L’esigenza di contrastare l’immigrazione irregolare non deve prevalere sul rispetto della vita umana, del principio di non respingimento, e della dignità della persona.
Il Protocollo addizionale alla Convenzione di Palermo contro il crimine transnazionale stabilisce infatti all’art.16 che “Nell’applicazione del presente Protocollo, ogni Stato Parte prende, compatibimente con i suoi obblighi derivanti dal diritto internazionale, misure adeguate, comprese quelle di carattere legislativo se necessario, per preservare e tutelare i
diritti delle persone che sono state oggetto delle condotte di cui all’articolo 6 del
presente Protocollo, come riconosciuti ai sensi del diritto internazionale applicabile,
in particolare il diritto alla vita e il diritto a non essere sottoposto a tortura o altri
trattamenti o pene inumani o degradanti”. L’art. 19 dello stesso Protocolli stabilisce poi che: “Clausola di salvaguardia
(1) Nessuna disposizione del presente Protocollo pregiudica diritti, obblighi e
responsabilità degli Stati e individui ai sensi del diritto internazionale, compreso il
diritto internazionale umanitario e il diritto internazionale dei diritti dell’uomo e, in
particolare, laddove applicabile, la Convenzione del 1951 e il Protocollo del 1967
relativi allo Status di Rifugiati e il principio di non allontanamento.
(2) Le misure di cui al presente Protocollo sono interpretate ed applicate in modo
non discriminatorio alle persone sulla base del fatto che sono oggetto delle condotte
di cui all’articolo 6 del presente Protocollo. L’interpretazione e l’applicazione di tali
misure è coerente con i princìpi internazionalmente riconosciuti della non discri-
minazione.
2. Secondo gli ammiragli consulenti della difesa di Salvini, acoltati in udienza a Palermo il 24 marzo scorso, il “REGOLAMENTO (UE) N. 656/2014 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 15 maggio 2014 recante norme per la sorveglianza delle frontiere marittime esterne, che dichiarano di non prendere in considerazione, non sarebbe vincolante per le autorità degli Stati membri al di fuori delle acque territoriali e delle zone SAR dei paesi dell’Unione Europea. Inoltre, secondo gli stessi ammiragli, protagonisti dell’ultima udienza del processo Salvini a Palermo, nel caso della ricorrenza degli indici di distress (pericolo grave ed immediato) indicati dal Regolamento, che è direttamente vincolante per tutti gli Stati membri, sarebbe sufficiente un attività di “assistenza” e non invece un intervento di soccorso e l’assunzione del coordinamento da parte dell’autorità SAR comunque informata, in assenza del coordinamento dell’autorità SAR competente, in quanto responsabile di una determinata area. La linea di attacco contro Open Arms inventata dalla difesa di Salvini per sviare l’attenzione dei giudici dalle responsabilità dell’ex ministro dell’interno, frana su un cumulo di omissioni e di travisamento delle norme applicabili. Ma sul piano mediatico prevale la macchia che si lascia sul comportamento dei soccorritori, senza alcun riscontro fattuale, e questo potrebbe influenzare le decisioni del collegio. Ancor meno rilevante nei resoconti dei media il rispetto del principio di legalità e del sistema gerarchico delle fonti normative.
Secondo gli articoli 10 e 117 della Costituzione, le Convenzioni internazionali ratificate dall’Italia, come le Convenzioni di Diritto marittimo e la Convenzione di Ginevra sui rifugiati sono vincolanti per le autorità italiane, lo ribadisce la sentenza della Corte di Casazione n.6626 del 2020 sul caso di Carola Rakete. In base all’ordinamento dell’Unione Europea i Regolamenti europei sono direttamente vincolanti per le autorità italiane e prevalgono pure sulle norme di legge interne, ed a maggior ragione sulle scelte discrezionali di un singolo ministro, con la possibilità in caso di contrasto, di un intervento della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Appare pacifico come il Regolamento europeo n.656 del 2014 non disciplini soltanto le attività delle unità Frontex impegnate in operazioni di law enforcement, e sia applicabile anche al di fuori delle frontiere esterne dell’Unione Europea. In questo senso, oltre alla sua espressa formulazione, i richiami che, in recenti provvedimenti adottati dalle autorità italiane proprio per regolamentare le attività delle ONG al di fuori della zona SAR italiana, si fanno ai Regolamenti Frontex, come il n.1624 del 2016, adesso abrogato, ma che richiamava il Regolamento n.656 del 2014 tuttora vigente. Come si può verificare da ultimo nei decreti interministeriali a firma del ministro dell’interno Piantedosi, adottati nei confronti dei comandanti delle navi delle Geo Barents e Humanity One a novembre dello scorso anno, per impedire lo sbarco del “carico residuo” dei naufraghi nel porto di Catania. Decreti che il Tribunale di Catania ha peraltro dichiarato illegittimi, affermando la piena legittimità delle attività di ricerca e salvataggio poste in essere dalle navi della società civile nella cosiddetta zona SAR “libica”e dunque il diritto allo sbarco in un porto sicuro italiano. Una zona SAR che ancora oggi, malgrado il riconoscimento da parte dell’IMO nel 2018, non presenta i requisiti richiesti dalle Convenzioni internazionali, come la presenza di porti di sbarco sicuri ed un coordinamento unificato su scala nazionale (che in Libia non esiste ancora) dei soccorsi (Maritime Rescue Coorination Center– MRCC). Ed anche questo è emerso nel corso dell’udienza del processo Salvini, svolta a Palermo il 24 marzo, quando sono stati sentiti i consulenti delle parti civili, gli Ammiragli Alessandro e Gallinelli.
Il Regolamento Frontex n.656 del 2014 detta regole vincolanti per i casi in cui durante una operazione di contrasto dell’immigrazione irregolare (law enforcement) si verifica una situazione di pericolo per le persone imbarcate su un mezzo privo di bandiera in navigazione nell’alto mare. Sono regole che fissano le responsabilità delle autorità nazionali dei paesi ospitanti le missioni Frontex, ma che si impongono a qualsiasi comandante di una nave che avvisti persone in situazione di pericolo in alto mare, sia nello svolgimento delle attività di intercettazione e monitoraggio, che nelle operazioni di ricerca e salvataggio. Regole che non possono essere ignorate dagli agenti istituzionali, dai vertici politici, dalla magistratura. Regole sui soccorsi in acque internazionali che in diversi procedimenti contro le ONG sono state chiarite ed hanno imposto l’archiviazione dei procedimenti a loro carico. Con l’archiviazione di quelle stesse accuse, basate su una presunta collaborazione con scafisti e trafficanti, che la difesa di Salvini ha rilanciato ancora una volta nell’udienza di venerdi 24 marzo nel processo “Open Arms” (perchè scaturito proprio da una denuncia della ONG, come qualcuno dimentica).
3. Si è giocato molto sulla confusione tra “eventi di immigrazione irregolare” ed eventi di soccorso (SAR) per dare un fondamento al potere del ministro dell’interno di vietare l’ingresso nelle acque territoriali, oppure soltanto il transito e la sosta, come richiama il Decreto legge 130 del 2020 che per il resto ha mantenuto in vigore il Decreto sicurezza bis n.53 del 2019. Al quale adesso si vorebbe tornare con ulteriori inasprimenti, che codificava i poteri del ministro dell’interno, prima esercitati, a partire dal caso Aquarius nel giugno del 2018 sulla base di mere direttive amministrative. La classificazione degli eventi di soccorso in acque internazionali come eventi di immigrazione irregolare, mantenuta con toni più sommessi anche dall‘ex ministro Lamorgese, dunque affidati di fatto ai poteri di veto del Ministro dell’interno, tramite la Centrale di coordinamento (NCC) ubicata presso la Direzione di polizia di frontiera del Viminale, ed alle attività di monitoraggio a distanza da parte della Guardia di finanza, è stata un passaggio fondamentale per vietare lo sbarco dei naufraghi soccorsi dalle ONG nei porti italiani, ma anche per ritardare in generale gli interventi di salvataggio in acque internazionali, magari per imporre alle stesse ONG stand by prolungati in modo da permettere l’arrivo delle motovedette libiche e la sucecssiva riconduzione dei naufraghi negli stessi luoghi dai quali erano fuggiti. Queste prassi si sono così istituzionalizzate sulla rotta libica, a sud di Lampedusa e Malta, anche per ottenere un effetto dissuasivo delle partenze. Effetto che però non si è verificato, come dimostrano i dati di questi ultimi mesi, mentre sono aumentati esponenzialmente gli sbarchi autonomi a Lampedusa e le partenze di subsahariani dalla Tunisia e dall’Algeria, con un correlato incremento di morti e di dispersi. Che nessuno considera, come se si trattasse di vittime di incidenti stradali. Si ripete il richiamo alla necessità di un intervento dell’Unione Europea, ma si rimane nel solco delle prassi di respingimento delegato alle autorità libiche e di contrasto dei soccorsi umanitari, prassi che hanno isolato l’Italia in Europa per la sua aperta complicità con governi che non rispettano i diritti umani ed omettono i soccorsi in mare.
4. Non sembra affatto possibile escludere che le unità della missione Eunavfor Med Sophia, all’epoca dei fatti relativi alla vicenda Open Arms oggetto del processo in corso a Palermo a carico di Matteo Salvini, si potessero esentare dal rigoroso rispetto dei Regolamenti europei previsti in materia di attività di contrasto dell’immigrazione irregolare alle frontiere marittime esterne. E la stessa considerazione vale per le unità militari italiane impegnate in attività di sorveglianza di frontiera in acque internazionali. L’esistenza di accordi con paesi terzi come la Libia non attenua il rispetto del diritto dell’Unione Europea da parte degli Stati membri. Secondo il Considerando n.5 del Regolamento n.656 del 2014, “La cooperazione con i paesi terzi limitrofi è essenziale per impedire l’attraversamento non autorizzato delle
frontiere, contrastare la criminalità transfrontaliera ed evitare la perdita di vite umane in mare. Conformemente al regolamento (CE) n. 2007/2004 e purché sia garantito il pieno rispetto dei diritti fondamentali dei migranti, l’Agenzia può cooperare con le autorità competenti di paesi terzi, in particolare per quanto riguarda l’analisi del rischio e la formazione, e dovrebbe agevolare la cooperazione operativa tra Stati membri e paesi terzi. Quando la cooperazione con i paesi terzi avviene nel territorio o nelle acque territoriali di tali paesi, gli Stati membri e l’Agenzia dovrebbero osservare norme e standard almeno equivalenti a quelli stabiliti dal diritto dell’Unione”. Quanto affermato riguardo le acque territoriali di paesi terzi vale a maggior ragione nelle acque internazionali rientranti nella zona SAR di un paese terzo, nelle quali gli Stati membri hanno comunque l’obbligo di rispettare i diritti fondamentali della persona, a partire dal diritto alla vita fino al diritto al soccorso ed allo sbarco in un luogo sicuro per presentare una istanza di protezione. La possibilità di cooperare con le autorità di paesi terzi in attività di contrasto dell’immigrazione irregolare (law enforcement), o in presunte attività SAR di ricerca e salvataggio, che di fatto si riducono a vere e proprie intercettazioni, talvolta anche con l’uso delle armi, viene meno quando non ci sia la possibilità effettiva di garantire la tutela dei diritti fondamentali.
Infatti, al Considerando n.8 del Regolamento si stabilisce che “Durante operazioni di sorveglianza di frontiera in mare, gli Stati membri dovrebbero rispettare i rispettivi obblighi
loro incombenti ai sensi del diritto internazionale, in particolare della convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, della convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare, della convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo, della convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale e del suo protocollo per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria, della convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati, della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, della convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, della
convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo e di altri strumenti internazionali pertinenti”. Secondo la Convenzione SAR di Amburgo del 1879, Convenzione di Amburgo del 1979 (Annex, ch. 1, para. 1.3.11) «[…] una situazione in cui vi sia ragionevole certezza che un’imbarcazione o una persona sia minacciata da un pericolo grave ed imminente e che richieda immediata assistenza»
In base all’art.4 del Regolamento UE n.656 del 2014, (Protezione dei diritti fondamentali e principio di non respingimento):
1. Nessuno può, in violazione del principio di non respingimento, essere sbarcato, costretto a entrare, condotto o altrimenti consegnato alle autorità di un paese in cui esista, tra l’altro, un rischio grave di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura, alla persecuzione o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti, o in cui la vita o la libertà dell’interessato sarebbero minacciate a causa della razza, della religione, della cittadinanza, dell’orientamento sessuale, dell’appartenenza a un particolare gruppo sociale o delle opinioni politiche dell’interessato stesso, o nel quale sussista un reale rischio di espulsione, rimpatrio o estradizione verso un altro paese in violazione del principio di non respingimento. Questa previsione è di grande importanza, perchè oltre a rafforzare il dettato dell’art.33 della Convenzione di Ginevra e degli articoli 18 e 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,
Secondo l’art. 9 del Regolamento UE n.656 del 2014 “se, nel corso di un’operazione marittima, le unità partecipanti hanno motivo di ritenere di trovarsi di fronte a una fase di incertezza, allarme o pericolo per un natante o qualunque persona a bordo, esse trasmettono tempestivamente tutte le informazioni disponibili al centro di coordinamento del soccorso competente per la regione di ricerca e soccorso in cui si è verificata la situazione e si mettono a disposizione di tale centro di coordinamento del soccorso;
b) le unità partecipanti informano quanto prima il centro internazionale di coordinamento di ogni contatto con il centro di coordinamento del soccorso e di quanto da esse eseguito; La stessa norma, in particolare, prevede che “si considera che un natante o le persone a bordo siano in una fase di pericolo, in particolare:
i) quando sono ricevute informazioni affermative secondo cui una persona o un natante è in pericolo e necessita di assistenza immediata; oppure
ii) quando in seguito a una fase di allarme, ulteriori tentativi falliti di stabilire un contatto con una persona o un natante e più estese richieste d’informazioni senza esito portano a pensare alla probabilità che esista una situazione
di pericolo; oppure
iii) quando sono ricevute informazioni secondo cui l’efficienza operativa del natante è stata compromessa al punto di rendere probabile una situazione di pericolo;
f) per valutare se un natante si trovi in una fase di incertezza, allarme o pericolo, le unità partecipanti tengono in conto, e trasmettono al centro di coordinamento del soccorso competente, tutte le informazioni e osservazioni pertinenti,
anche per quanto riguarda:
i) l’esistenza di una richiesta di assistenza, anche se tale richiesta non è l’unico fattore per determinare l’esistenza di una situazione di pericolo;
ii) la navigabilità del natante e la probabilità che questo non raggiunga la destinazione finale;
iii) il numero di persone a bordo rispetto al tipo di natante e alle condizioni in cui si trova;
iv) la disponibilità di scorte necessarie per raggiungere la costa, quali carburante, acqua e cibo;
v) la presenza di un equipaggio qualificato e del comandante del natante;
vi) l’esistenza e la funzionalità di dispositivi di sicurezza, apparecchiature di navigazione e comunicazione;
vii) la presenza a bordo di persone che necessitano di assistenza medica urgente;
viii) la presenza a bordo di persone decedute;
ix) la presenza a bordo di donne in stato di gravidanza o di bambini;
x) le condizioni e previsioni meteorologiche e marine;
Secondo la Convenzione SAR di Amburgo del 1979, ricorre un caso di distress (Annex, ch. 1, para. 1.3.11) «[…] quando si verifica una situazione in cui vi sia ragionevole certezza che un’imbarcazione o una persona sia minacciata da un pericolo grave ed imminente e che richieda immediata assistenza». Il termine di “assistenza” è dunque da intendere come intervento immediato con trasbordo dei naufraghi, non soltanto come mero monitoraggio o tracciamento a distanza, come invece sembravano ritenere i consulenti della difesa dell’ex ministro dell’interno. E’ il codice della navigazione che chiarisce come il termine assistenza non significhi monitoraggio a distanza o mera sorveglianza di polizia, ma comporti attività immediate per portare soccorso e mettere in salvo vite umane. L’art. 1158 del Codice della Navigazione, prevede che il comandante di una nave, nazionale o straniera, “che ometta di prestare assistenza ovvero di tentare il salvataggio” nei casi in cui ne abbia l’obbligo (alla luce di quanto previsto dallo stesso Codice), debba essere punito con la reclusione fino a due anni (la pena sarà invece della reclusione da uno a sei anni, se dal fatto sia derivata una lesione personale; da tre ad otto se ne sia derivata la morte).
In base al Piano Sar nazionale del 1996, vigente all’epoca dei fatti oggetto del processo di Palermo (2019), ed operante anche in acque internazionali in presenza di unità militari battenti bandiera italiana, come nel caso del sottomarino italiano presente il primo agosto del 2019 sulla scena dei soccorsi operati da Open Arms, “l’eventualità di un sinistro marittimo può configurare tre fasi di emergenza:
- INCERFA (incertezza): si apre un’inchiesta per stabilire lo stato di sicurezza di un’unità di cui non si hanno notizie, cercando di acquisire informazioni e testimonianze
- ALERFA (allarme): si estende l’inchiesta e vengono preallertati i mezzi e i servizi SAR
- DETRESFA (pericolo): scatta l’esecuzione delle operazioni di ricerca e soccorso in mare
5. Da questi requisiti che indicano quando dalla fase di allerta si doveva passare alla fase di distress e dunque ad un immediato intervento di soccorso, si rileva che nel caso del soccorso operato dalla Open Arms il primo agosto del 2019 ricorrevano almeno per quattro dei punti elencati dal Regolamento Frontex n.656 del 2014. Si ricava dunque la ininfluenza della circostanza di fatto, approssimativamente riferita da una parte civile, che il barcone presentasse falle a prua tali da comportare un imbarco di acqua, che poteva ben verificarsi a seguito del moto del mezzo, ed in particolare del beccheggio prua-poppa, in quanto il barcone era sovraccarico e con un bordo libero sull’acqua di appena 60 centimetri. Se una motovedetta libica si fosse avvicinata a velocità elevata, magari tagliando di prua la rotta del barcone, come si è verificato in altri casi, il ribaltamento sarebbe stato più che probabile.
La nave Open Arms In occasione dell’evento di soccorso del primo agosto 2019, dopo una nottata passata a lento moto, nella prima mattina di quel giorno, quando si erano determinate le condizioni per l’avvistamento visivo delle imbarcazioni in difficoltà, accelerò per svolgere una legittima attività di ricerca e salvataggio, come imposto dalle Convenzioni internazionali e non per effettuare”consegne concordate”, non si comprende ancora con quali entità ed a quali condizioni. Come continua ad insinuare la difesa di Salvini senza alcun riscontro, ma solo per sviare l’attenzione dei giudici dai capi di imputazione per sequestro e abuso contestati dell’imputato che, malgrado la sospensiva del Tar Lazio del 14 agosto, con i decreti “sparati” dal Viminale impediva lo sbarco a terra dei naufraghi, dal 14 al 19 agosto 2019, quando questi si trovavano già da giorni davanti Lampedusa, in acque italiane. Dopo attività di ricerca e salvataggio (SAR) operate correttamente e doverosamente da Open Arms In acque internazionali, almeno secondo la Convenzione Unclos (Onu) che la Libia non ha mai ratificato, come non è mai riuscita ad attivare una Centrale unificata di coordinamento dei soccorsi a livello nazionale. Tanto che ancora oggi in Libia esistono diverse guardie costiere facenti capo alle milizie locali e non direttamente al governo provvisorio di Tripoli. Per non parlare delle collusioni dei vertici di queste guardie costiere con le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico.
L’ex ministro dell’interno, ed oggi titolare del ministero delle infrastrutture, non aveva alcun potere di vietare l’ingresso e lo sbarco a terra dei naufraghi soccorsi dalla Open Armsi, in base all’art.19 comma 2 della Convenzione UNCLOS, perchè lo sbarco a terra, che in quell’occasione si verificò solo il 20 agosto a seguito dell’intervento e del sequestro operato dalla Procura di Agrigento, costituiva effetto del passaggio inoffensivo di una nave che trasportava naufraghi, e non clandestini o pericolosi terroristi, come pure si era insinuato in quei giorni. Le attività di soccorso operate dalla Open Arms nella zona SAR libica si erano svolte infatti secondo i criteri di assoluta professionalità, come hanno dovuto riconoscere i periti sentiti dal Tribunale di Palermo, e seguendo le regole operative stabilite dalle Convenzioni internazionali (per le quali si rinvia al Manuale IAMSAR ed al Piano SAR nazionale del 1996, allora vigente) e le prescrizioni dei Regolamenti europei sulla sorveglianza alle frontiere marittime esterne dell’Unione. In ogni caso il comandante della nave umanitaria, in base all’art. 98 della stessa Convenzione UNCLOS, doveva procedere con la massima velocità al soccorso dei naufraghi, non solo per il rischio che sopraggiungesse una motovedetta libica che avrebbe riportato i naufraghi in un paese che non poteva garantire porti sicuri di sbarco, ma perchè nel lasso di tempo di oltre due ore, dall’avvio del trasbordo all’arrivo della motovedetta, si sarebbero potuti verificare eventi tragici, qualora il barcone si fosse ribaltato,al sopravvenire della motovedeta Fezzan, o qualche naufrago si fosse gettato in mare, magari per evitare di essere ripreso dai libici, come si era verificato in simili occasioni precedenti. Tutti dovrebbero ricordare le conseguenze mortali di un analogo intervento di una motovedeta libica il 6 novembre 2017 mentre era in corso il salvataggio di naufraghi da parte della nave umanitaria Sea Watch.
6. Il processo di Palermo nei confronti di Salvini si sta trasformando in un processo nel quale la difesa dell’imputato, di fatto, tenta di sostituirsi alternativamente al Presidente del Tribunale ed ai rappresentanti della Procura, mettendo sul banco di accusa gli operatori della Open Arms da cui erano arrivate le denunce che hanno portato all’apertura del procedimento penale. Un processo nel quale i consulenti della difesa dell’imputato vanno ben oltre i limiti della loro attività di consulenza, e si pronunciano come ufficiali di polizia giudiziaria, arrivando a tracciare su via meramente presuntiva e senza riscontri fattuali o documentali, profili di responsabilità nella ipotizzata collusione della Open Arms con non meglio identificati soggetti, scafisti o trafficanti, con cui avrebbe avuto una sorta di appuntamento in alto mare per effettuare il soccorso. La nota tesi delle “consegne concordate” smentita da anni di indagine delle procure siciliane, che ancora non ha trovato alcun riscontro in una sola sentenza di condanna. Si deve ricordare che la famosa informativa sul soccorso operato dalla Open Arms il primo agosto del 2019, trasmessa dalle autorità militari a diverse procure siciliane non era stata seguita dall’apertura di una qualsiasi indagine, evidentemente per la mancanza di elementi che costituissero una notizia di reato. Che adesso, a distanza di anni, si cerca di costruire sulla base di mere supposizioni, per ribaltare il piano dell’accertamento penale nei confronti dell’imputato Salvini.
Le varie ipotesi formulate in ordine all’apprezzamento delle capacità di percorrenza delle imbarcazione di cui alle dichiarazioni dei consulenti della difesa di Salvini introducono infatti elementi puramente presuntivi che nessuna certezza danno sulla mancanza di una situazione di emergenza a bordo della stessa al momento del soccorso operato da Open Arms. Appare veramente arbitrario ritenere che dall’altezza delle fiamme visibile in un filmato si possa stabilire che a bordo del barcone vi fosse una consistente quantità di carburante a bordo. Senza avere peraltro alcuna certezza sul materiale con il quale era costituita l’imbarcazione, a fronte della divergenza tra quanto rilevato dai periti (secondo cui si trattava di imbarcazione metallica) e quanto osservato da Eunavfor med nel suo rapporto di servizio ( che affermava trattarsi di un barcone di legno). Non è comunque possibile, in base a quanto rilevato dai periti della difesa dell’imputato alcuna stima in ordine al consumo e alla velocità dell’imbarcazione nel restante tratto per raggiungere un porto di sbarco. Sia che fosse ferma, sia che potesse continuare la navigazione, o avvicinarsi autonomamente alla Open Arms, gli indici di distress forniti con disposizioni vincolanti dalle Convenzioni internazionali e dal Regolamento europeo n.656 del 2014 non sarebbero infatti venuti meno. Sfugge che una imbarcazione ferma in alto mare, sovraccarica di persone, può avere problemi di stabilità superiori a quelli che può incontrare quando procede a lento moto. Per i periti della difesa, appartenenti alla Guardia costiera, sembra irrilevante quanto affermato dal Tribunale di Roma nella sentenza che ha dichiarato la prescrizione sul procedimento relativo al naufragio dei bambini dell’11 otobre 2013, pure richiamato ieri nel corso dell’udienza di Palermo, pur accertando gravi profili di responsabilità a carico dei due imputati, rispettivamente coordinatori dela Centrale operativa della Guardia costiera italiana (IMRCC) e della omologa centrale della Marina militare (CINCNAV). In questa sentenza si afferma chiaramente che “In particolare, fuori delle acque territoriali e della zona SAR di competenza italiana, è imposto ad IMRCC – che assicura l’organizzazione generale dei servizi marittimi di ricerca e salvataggio – di tenere i contatti con i centri di coordinamento del soccorso degli altri stati (…) e di intervenire secondo la scelta dei mezzi più idonei al relativo svolgimento che è prerogativa del MRCC responsabile e richiedente. In tal caso alle Autorità italiane spetta, oltrechè trasmettere tutte le informazioni acquisite, il compito di fornire, a richiesta l’assistenza all’Autorità procedente ed in particolare mettere a disposizione navi, aeromobili, personale o materiale (art. 3.1.7 conv. SAR). Perciò stesso la “sicurezza pubblica” – che imponeva di agire altrimenti alla data dell’evento, salvaguardando l’incolumità dei migranti in pericolo conclamato – non è soltanto riferibile ad aree di pertinenza del nostro Paese ovvero rientranti nella nostra competenza SAR e da garantirsi all’interno dell’ambito territoriale (e giurisdizionale) italiano, ma rappresenta, piuttosto, il bene/interesse tutelato penalmente sia che si assuma il coordinamento delle operazioni di salvataggio, sia che si debba prestare assistenza ai coordinatori degli altri Stati richiedenti”. Allo stesso riguardo è molto importante tenere conto della pronuncia del 21 gennaio 2021 da parte del Comitato ONU per i Diritti Umani (OHCHR) che ha condannato l’Italia per la violazione degli artt. 2 (3) e 6 del Patto delle NU per i Diritti Civili e Politici, che proteggono il diritto alla vita di ogni persona. Nel settembre 2022, il Procuratore della Corte Penale Internazionale ha dichiarato in un comunicato che, secondo la valutazione preliminare del suo ufficio, gli abusi contro i migranti in Libia “possono costituire crimini contro l’umanità e crimini di guerra”.
Ancora più arbitraria appare la conclusione dei periti secondo cui vi sarebbe stato “il tempo sufficiente per un intervento da parte della stessa unità libica” non considerando che nel momento in cui si accertano situazioni di distress, in base alle norme internazionali e segnatamente in base all’articolo 98 della Convenzione Unclos, e in base al Regolamento Europeo 656/2014, il comandante della nave deve raggiungere l’imbarcazione in pericolo nel tempo più breve possibile, senza attendere lo spiegamento, l’intervento o l’avvicinamento di altri mezzi militari appartenenti a guardie costiere di altri paesi. Diverse sentenze dei giudici italiani hanno accertato la legittimità degli interventi di soccorso operati da navi appartenenti alle organizzazioni non governative pure in presenza di unità libiche in area. Così, ad esempio, nel caso del Procedimento penale nei confronti di Arturo Centore, GIP Agrigento, decreto di archiviazione 06.10.2021, relativamente al caso di soccorso operato da una nave umanitaria in zona SAR libica nel 2019, pochi mesi prima dei fatti oggetto del processo di Palermo, nella richiesta di archviazione presentata dalla Procura si rilevava che “non risulta che le Autorità libiche, per le attività di ricerca e soccorso nella propria area SAR, abbiano mai assegnato un place of safety (POS) sut territorio libico ad organizzazioni non governativa” ONG.”. Ed ancora, secondo la Procura di Agrigento, “Il pericolo attuale di danno grave alla persona che determina lo stato di necessità, secondo
quanto indicato nelle Raccomandazioni emanate dal Consiglio europeo nel giugno 2019,
sussiste sin dal momento della partenza dalle coste nordafricane delle imbarcazioni, che devono essere considerate sin da subito in distress in considerazione deI fatto che sono sovraccariche e inadeguate a percorrere la traversaIa. prive di strumentazione e di oersonale competente (p,.23)“.
Ricorre poi una evidente contraddizione tra le diverse tesi difensive a discarico dell’imputato Salvini, sostenute per dimostrare la irregolarità delle modalità operative dei soccorsi della Open Arms, come se questa potesse valere a giustificare il prolungato divieto di sbarco imposto dal Viminale quando la nave si trovava da giorni davanti al porto di Lampedusa. Secondo il Tar Lazio invece il divieto d’ingresso risutava in violazione delle norme internazionali e, di conseguenza, della Costituzione italiana. Il Tribunale amministrativo rilevava che “la stessa amministrazione intimata (ovvero il Ministero dell’Interno) riconosce, nelle premesse del provvedimento impugnato, che il natante soccorso da Open Arms in area SAR libica – quanto meno per l’ingente numero di persone a bordo – era in “distress”, cioè in situazione di evidente difficoltà” e “per cui appare, altresì, contraddittoria la conseguente valutazione effettuata nel medesimo provvedimento, dell’esistenza, nella specie, della peculiare ipotesi di “passaggio non inoffensivo”.
I periti della difesa di Salvini, inoltre, ignorando la portata di questa decisione, qualificano come attività Sar, di ricerca e salvataggio, quelle operate dal pattugliatore della Guardia Costiera libica Fezzan in prossimità della Open Arms In circostanze assolutamente analoghe a quelle delle quali veniva operato l’intervento di salvataggio da parte della nave umanitaria, che invece, secondo la stessa relazione, non avrebbe avuto alcuna caratteristica di urgenza, e dunque natura di evento Sar. Gli stessi periti della difesa ignorano inoltre la circostanza decisiva che, dopo due intercettazioni la motovedetta libica Fezzan era visibilmente stracarica, avendo pieno di naufraghi tutto il ponte di prua, come risulta anche dai rilievi fotografici, e ben difficilmente avrebbe potuto imbarcare anche i naufraghi soccorsi da Open Arms.
7. Dalla cronologia riportata dai periti non emergono elementi di responsabilità o di violazioni di regole operative da parte della Open Arms. Si rileva invece l’omissione di qualsiasi attività di monitoraggio o di assistenza da parte di unità navali italiane, incluso il fantomatico sottomarino, presenti in zona, come pure l’assenza di coordinamento da parte delle autorità libiche, maltesi e italiane, pure informate tempestivamente dell’evento di soccorso. Inoltre emerge che la motovedetta Libica Fezzan raggiunge il luogo del soccorso alle 18:25 del primo agosto 2019, quando le operazioni di salvataggio erano terminate alle 17:31, quindi quasi un’ora dopo il termine delle stesse operazioni, iniziate quello stesso giorno alle 16:01. Quindi, se si fosse dovuto attendere l’arrivo della motovedetta libica Fezzan, le operazioni di trasbordo avrebbero avuto avvio non meno di due ore più tardi di quando invece si erano verificate, con grave pericolo per la vita delle persone a bordo della imbarcazione, Per non parlare del rischio che avrebbero corso le persone una volta ricondotte in Libia, e qui giova richiamare la sentenza della Corte di Cassazione sul caso Vos Thalassa. Il 16 dicembre 2021 la Corte di Cassazione aveva annullato la sentenza della Corte di Appello di Palermo, che ribaltava il primo giudizio del Tribunale di Trapani, stabilendo che “è scriminata la condotta di resistenza a pubblico ufficiale da parte del migrante che, soccorso in alto mare, facendo valere il diritto al non respingimento verso un luogo non sicuro, si opponga alla riconsegna allo Stato libico”.
Due sentenze del Tribunale e della Corte di Appello di Napoli hanno condannato il comandante di un rimorchiatore italiano che aveva riportato delle persone soccorse in acque internazionali in un porto libico (caso Asso 28). In quest’ultimo caso il Tribunale di Napoli ha condannato il comandante del rimorchiatore italiano che, dopo avere soccorso naufraghi nelle acque internazionali della pretesa zona SAR “libica”, li aveva ricondotti in un porto della Tripolitania. Una sentenza della Corte di Appello di Napoli del 18 gennaio di quest’anno ha confermato questa decisione, affermando che qualunque comandante è obbligato al rispetto del diritto internazionale, ed in particolare la necessità che i naufraghi siano condotti in un porto sicuro, quale non è garantito in alcuna parte della Libia. Conclusione opposta rispetto a quella adottata da Salvini nel 2019, a ridosso del caso Open Arms, e riproposta adesso dai consulenti della sua difesa nell’udienza del processo di Palermo, svoltasi il 24 marzo scorso.
8. Appare arbitrario, sulla base dei dati ricostruiti dai periti della difesa di Salvini, mettere in dubbio la ricostruzione offerta nel libro di bordo Open Arms nel quale si riportava che l’imbarcazione si inclinava pericolosamente sul bordo di dritta, perché questo poteva essere conseguenza di un movimento delle persone a bordo e la supposta assenza di vie d’acqua, che non risulterebbe agli accertamenti peritali, non è un argomento per sostenere che l’imbarcazione non potesse risultare, sia pure temporaneanente, pericolosamente sbandata, o che non imbarcasse acqua a seguito del movimento delle persone a bordo o per altre vie d’acqua, pure presenti nella maggior parte dei casi in questi battelli assai fatiscenti, generalmente privi di doppio fondo e di pompe di svuotamento. Risulta quindi irrilevante accertare se l’imbarcazione avesse una falla in prossimità della prua, o meno.
Rispetto a quanto rilevato visivamente e confermato dai rilievi fotografici e dalla docunentazione visiva prodotta dal collegio di periti della difesa di Salvini risulta assolutamente ininfluente la eventuale mancata corrispondenza tra le posizioni accertate dall’organizzazione Alarm Phone e quanto rilevato nel libro di bordo di Open Arms, risultando evidente, come riconosciuto anche dai periti, che in quella giornata, nelle stesse ore e nella stessa zona, erano in corso più eventi di ricerca e salvataggio. E in ogni caso tale elemento puramente indiziario non dà adito all’accertamento di alcuna malafede, o peggio collusione con terzi, nel comportamento del comandante e dell’equipaggio della nave umanitaria, anche con riferimento alle comunicazioni radio intercorse in spagnolo tra i componenti della ONG, in particolare per coordinare le attività di salvataggio dei due gommoni messi in acqua, per garantire immediata sicurezza al barcone che si stava soccorrendo, secondo le prassi generalmente seguite in questi casi dalle Organizzazioni non governative.
La Convenzione SOLAS, in particolare, obbliga il “comandante di una nave che si trovi nella
posizione di essere in grado di prestare assistenza, avendo ricevuto informazione da qualsiasi fonte circa la presenza di persone in pericolo in mare, a procedere con tutto rapidità alla loro assistenza, se possibile informando gli interessati o il servizio di ricerca e soccorso del fatto che la nave sta effettuando tale operazione… ” (Capitolo V, Regola 33). In assenza di coordinamento degli Stati costieri, il comandante della nave soccorritrice non può essere obbligato a mantenere un assetto di stand by di fronte ad una imbarcazione che appare in modo inequivoco in una situazione di distress,
9. L’argomento che il Consiglio Europeo del 28 e 29 giugno del 2018 avrebbe deciso che le ONG avrebbero dovuto attendere l’intervento delle motovedette libiche nella zona SAR comunicata dal governo di Tripoli all’IMO il 27 giugno del 2018, non si ritrova nelle decisioni dello stesso Consiglio negli anni successivi, e non è di per sé conducente a modificare la portata vincolante delle Convenzioni internazionali e dei Regolamenti europei, di valenza normativa superiore rispetto a quella degli atti non legislativi del Consiglio europeo.
Si osserva anzi come tutti i successivi atti delle istituzioni europee prendano atto che la Libia non è, anche fino ad oggi, in grado di garantire porti sicuri di sbarco, e sono state inviate indagini sulla collaborazione di Frontex con le autorità libiche, in quelli che si configurano come veri e propri respingimenti collettivi illegali su delega alle autorità tripoline, rispetto a persone intercettate in acque internazionali e riportate in territorio libico.
Le Convenzioni internazionali ed i Regolamenti europei impongono comunque ai comandanti delle navi (ed alle Centrali di coordinamento- MRCC) di intervenire con la massima tempestività possibile non appena abbiano acquisito notizie che facciano presumere la possibile ricorrenza di un caso di distress. Anche all’interno della zona SAR libica, l’intervento di salvataggio spetta alla nave più vicina, soprattutto in assenza dell’assunzione della responsabilità di coordinamento da parte di una autorità statale, se la Centrale di coordinamento libica (JRCC), in atto neppure costituita a livello nazionale, non assume il coordinamento e non riesce a garantire lo sbarco in un porto sicuro. Per l’accertamento di una situazione di distress (pericolo grave ed attuale) non occorre certo attendere che le persone finiscano in acqua, come non si può ritenere che la semplice consegna dei giubbetti salvagente ai naufraghi che si trovano sul barcone soccorso, faccia venire meno gli elementi indicatori di distress minuziosamente descritti, con carattere vincolante, nel Regolamento europeo n.656 del 2014. Una volta iniziate, le attività di soccorso vanno risolte e concluse bel tempo più breve possibile e un caso di distress non si può declassare ad una situazione di mera “assistenza”, in attesa che i soccorsi vengano completati da altre unità navali non ancora presenti sulla scena nella quale si verifica un caso di pericolo immediato (distress) per le persone ancora a bordo del mezzo da soccorrere. Non si possono attendere per ore i soccorsi portati da altri assetti navali di paesi terzi, se sono operati da autorità che non possono garantire un porto sicuro di sbarco. Come afferma la Corte europea dei diritti dell’Uomo nella condanna dell’Italia nel caso Hirsi, “D’altra parte, la Corte osserva che l’Italia non può liberarsi della sua responsabilità invocando gli obblighi derivanti dagli accordi bilaterali con la Libia. Infatti, anche ammesso che tali accordi prevedessero espressamente il respingimento in Libia dei migranti intercettati in alto mare, gli Stati membri rimangono responsabili anche quando, successivamente all’entrata in vigore della Convenzione e dei suoi Protocolli nei loro confronti, essi abbiano assunto impegni derivanti da trattati (PrincipeHans-Adam II di Liechtenstein c. Germania [GC], n. 42527/98, §47, CEDU 2001‑VIII; e Al-Saadoon e Mufdhi c. Regno Unito, n.61498/08, § 128, 2 marzo 2010)”. In conclusione per la Corte EDU, “Al riguardo, la Corte osserva che nessuna delle disposizioni di diritto internazionale citate dal Governo giustificava il rinvio dei ricorrenti verso la Libia, nella misura in cui tanto le norme in materia di soccorso alle persone in mare quanto quelle relative al contrasto alla tratta di esseri umani impongono agli Stati il rispetto degli obblighi derivanti dal diritto internazionale in materia di rifugiati, tra i quali il «principio di non respingimento» Per i giudici di Strasburgo dunque “la Corte considera che gli allontanamenti di stranieri eseguiti nell’ambito di intercettazioni in alto mare da parte delle autorità di uno Stato e nell’esercizio dei pubblici poteri, e che producono l’effetto di impedire ai migranti di raggiungere le frontiere dello Stato, o addirittura di respingerli verso un altro Stato, costituiscono un esercizio della loro giurisdizione ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione, che impegna la responsabilità dello Stato in questione sul piano dell’articolo 4 del Protocollo n. 4.”.
Nel 2019, dopo che Salvini aveva invitato i vertici delle forze dell’ordine, della Marina e della guardia costiera “a garantire alle autorità libiche il legittimo esercizio delle proprie responsabilità nella gestione delle procedure di ricerca e soccorso”, la Commissione europea rispondeva che “Per quello che riguarda gli sbarchi si applica il diritto internazionale e la Commissione ha sempre detto che al momento in Libia non ci sono le condizioni di sicurezza”. Come si legge nella richiesta di archiviazione del caso CENTORE, avanzata dalla Procura di Agrigento, proprio con riferimento al 2019, “L’UNCHR rispondeva in data 03.10.2019 §ota prot. NV/29l2019) allegando un rapporto nel quale, dopo aver ripercorso i conflitti in corso in Libia nell’anno 2019, esaminava la situazione di richiedenti asilo, rifugiati e migranti in quei territori, evidenziando come alcune migliaia di loro si trovano in condizione di detenzione arbitraria e sottoposti a violazioni dei loro diritti umani. Veniva rappresentato, inoltre, che in data 21.07.2019, in una lettera al Ministro dell’Intemo
Libico, l’Unione Europea, I’Unione Africana, UNSMIL, UNHCR, OIM, OHCHR, i maggiori
Paesi donatori coinvolti nella situazione della migrazione in Libia (Stati Uniti, Canada, Francia, Italia, Regno Unito, Olanda, Svezia, Spagna, Germania e Svizzera) e il Forum INGO
chiedevano la fine della detenzione arbitraria di rifugiati e migranti in Libia e la chiusura dei
centri di detenzione. L’UNCHR concludeva affermando che, alla luce delle descritte circostanze, dell’instabile situazione di sicurezza, degli abusi nei confronti di richiedenti asilo, migranti e rifugiati,dell’assenza di protezione da tali abusi e dell’assenza di soluzioni durevoli, la Libia si ritiene non soddisfi i reouisiti per poter essere considerata come un luogo sicuro ai fini dello sbarco all’esito di soccorso in mare. Nella medesima nota, l’UNCHR aggiungeva che:. “ai comandanti, che si trovano ad assistere persone in siluazioni di emergenza in mare, non può essere chiesto, ordinato, e gli stessi non possono sentirsi costretti, a sbarcare in Lihia le persone soccorse, per paura di incorrere in sanzioni o ritardi nell’assegnazione di un porto sicuro.” (V. pag. 4 Rapporto UNHCR “Situazione in Libia (settembre 2019)” del 20, 09, 2019 allegato alla Nota prot. NV /29/2019 del 03. 10. 2019).
10. Il Decreto di archviazione del caso Rackete, adottato dal Tribunale di Agrigento il 20 dicembre 2021, dopo la pronuncia della Corte di Cassazione n.6626 del 16 febbraio 2020, ribadisce, seppure in ordine alla individuazione del POS ( place of safety), che ” – facendo proprie le statuizioni di cui alla sentenza della Corte di Cassazione sul diniego di convalida dell’arresto – che tali non potevano considerarsi né il porto di Tripoli, in quanto, come evidenziato anche dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite, “migliaia di richiedenti asilo, rifugiati e migranti presenti in Libia versano in condizioni di detenzione arbitraria e sono sottoposti a torture ed a trattamenti disumani e degradante in violazione dei loro diritti umani”; né la nave soccorritrice, se non temporaneamente e fintantoché i diritti fondamentali possano essere garantiti a bordo, condizioni non sussistenti nel caso di specie “considerata la presenza a bordo, per diversi giorni, di persone particolarmente vulnerabili tra le quali donne anche in stato di gravidanza, sei minori di cui due neonati, migranti con ustioni da carburante, soggetti con sospetta tubercolosi”. Non si vede come le conclusioni puramente indiziarie dei periti della difesa di Salvini ascoltati nell’udienza del 24 marzo scorso a Palermo possano proporre argomentazioni e valutazioni delle prassi operative dei soccorsi nella zona SAR di pretesa competenza “libica”, e sulla stessa possibilità di garantire in Libia place of safety, per lo sbarco dei naufraghi, diverse da quelle ritenute dalla consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione e delle corti di merito, che evidentemente tracurano di considerare, come hanno dichiarato di non tenere conto del Regolamento europeo n.656 del 2014 in ordine agli indici imposti per l’eccertamento di una situazione di distress..La bolla mediatica fatta esplodere dalla difesa dell’ex ministro dell’interno sulla presunta connivenza della Ong con scafisti o trafficanti non meglio identificati lascerà presto il posto ad un rigoroso accertamento delle responsabilità di quanti in quella occasione, il primo agosto del 2019, avrebbero dovuto assumere un ruolo di coordinamento in vista dello sbarco dei naufraghi in un porto sicuro, come imposto dalle Convenzioni internazionali e dai Regolamenti europei. E magari il processo Salvini a Palermo si potrà finalmente occupare dei fatti oggetto dei reati contestati all’imputato, nel periodo in cui la Open Arms restava bloccata davanti al porto di Lampedusa (14-19 agosto 2019).
Fulvio Vassallo Paleologo
25/3/2023 https://www.a-dif.org/
In Hopage (Foto di Antonio Sempere)
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!