GIOCARE COL FUOCO
Alcune brevi note sul rapporto NATO-Russia, sul come l’approccio statunitense si riveli pericolosamente inadeguato e sul perché l’irrilevanza politico-militare dell’Europa si traduca in un potenziale suicidio. Piaccia o non piaccia l’attuale configurazione politica e strategica del cosiddetto Occidente, è impossibile non rilevare come la sua supponenza sia in realtà la maggiore minaccia alla sua stessa esistenza.
La propaganda è una normale condizione nei paesi coinvolti in un conflitto, anche quando si tratta di democrazie liberali che amano pensarsi e rappresentarsi come il paradiso della libertà di pensiero e di parola. In un certo senso, si può anzi dire che la presenza della propaganda, e la sua pervasività, possono essere assunti ad indicatori del coinvolgimento bellico.
Anche da ciò, risulta evidente quindi come i paesi della NATO siano parte attiva del conflitto in Ucraina.
Ma ovviamente la propaganda non ha solo lo scopo di mobilitare la popolazione, affinché sostenga – anche solo politicamente – lo sforzo bellico; scopo, o quantomeno conseguenza della propaganda è anche quello di rimuovere gli argomenti scomodi, le verità scomode.
Nel contesto della guerra in atto in Ucraina, ciò risulta evidente sotto molteplici punti di vista, ma ce n’è uno in particolare che effettivamente riveste (rivestirebbe) una grande importanza, e che, al contrario, scivola via.
Una delle ragioni ufficiali per cui i paesi della NATO sostengono così massicciamente l’Ucraina è la teoria secondo cui la Russia rapprenterebbe una minaccia per l’intero occidente. Ne consegue, a logica, che la principale preoccupazione dei paesi NATO – e segnatamente di quelli europei, che nell’ipotesi di uno scontro sarebbero la prima linea di combattimento – dovrebbe essere assicurarsi prioritariamente di mantenere ed accrescere le proprie capacità difensive. Esattamente l’opposto di quanto sta in effetti accadendo, visto che lo sforzo per sostenere l’Ucraina ha portato le capacità militari dei paesi europei, già assai scarse, al di sotto dei limiti minimi di capacità bellica.
La questione merita di essere osservata almeno sotto due diversi punti di vista.
Va innanzitutto fatta una premessa: sotto il profilo geostrategico, è abbastanza evidente come, all’interno della NATO, non solo vi sia una diversa gerarchia (non è assolutamente un’alleanza paritaria), ed una diversa distribuzione della potenza, ma che vi sia anche un’ineludibile differenza per quanto riguarda il ruolo. Se si assume che la minaccia viene da est (e, dopo la caduta dell’URSS, la NATO è tornata ad affermarlo ufficialmente negli anni scorsi), ne consegue che l’Europa è il terreno su cui si svolgerebbe lo scontro, e che gli USA – esattamente come durante la prima e la seconda guerra mondiale – subentreranno successivamente. Anche se esistono basi e truppe americane (soprattutto in Germania ed Italia), queste sono comunque piccola cosa rispetto alla dimensione di scala che assumerebbe un conflitto di tale portata. E per quanto da allora le cose siano molto cambiate, sotto il profilo della capacità di movimentazione di uomini e mezzi, è evidente che organizzare e trasferire una grande forza di combattimento, dagli Stati Uniti all’Europa, è una gigantesca operazione logistica, che richiederebbe settimane se non mesi. Anche, ovviamente, a prescindere dalla capacità russa di colpire le unità navali che effettuano il trasporto (1).
Ciò significa che, per le prime quattro/sei settimane, il peso dei combattimenti ricadrebbe principalmente sugli eserciti europei, oltre che su un numero limitato di truppe statunitensi.
Stiamo ovviamente parlando di un’ipotesi di conflitto convenzionale, non nucleare.
La prima questione, quindi, è l’ipotetica capacità di combattimento di questi eserciti. Nessuno dei quali ha praticamente alcuna esperienza di guerra simmetrica ad alta intensità. Anche a prescindere dall’impatto su un territorio altamente antropizzato, fitto di infrastrutture sensibili ed assolutamente non predisposte per un conflitto, c’è come prima cosa un rapporto quantitativo rispetto ad uomini e mezzi, disponibili per le due parti.
L’Europa (oggi praticamente tutta nella NATO) conta circa 750 milioni di abitanti, la Russia circa 144. La capacità immediatamente operativa dei vari eserciti NATO europei potrebbe contare su circa un milione e duecentomila uomini, la Russia su circa un milione e quattrocentomila. Gli eserciti europei dispongono di circa 5000 carri armati (di tutte le classi), la Russia di quasi 15.000. Di uguale supremazia la Russia dispone nel settore delle artiglierie.
In poco più di un anno, il sostegno all’Ucraina ha peraltro diminuito non solo la quantità di mezzi disponibili, ma ha prosciugato la disponibilità di munizionamento – che è ovviamente il materiale con il più elevato tasso di consumo.
Ne consegue che il sostegno all’Ucraina – che non è un paese membro della NATO, né dell’UE – sta spaventosamente abbassando la capacità europea di fronteggiare quella che l’Europa stessa definisce come “la minaccia”. Giusto per dare qualche cifra ulteriore, durante questi 14 mesi di guerra le forze armate russe hanno distrutto quasi 9.000 carri armati e corazzati da combattimento, praticamente il doppio della disponibilità totale degli europei.
E sappiamo bene che la capacità produttiva dell’industria bellica europea (che peraltro in caso di conflitto diverrebbe bersaglio degli attacchi nemici) è lontanissima da livelli adeguati, sia in termini di mezzi prodotti che in termini di velocità di produzione.
In buona sostanza, la partecipazione dei membri europei della NATO al conflitto ucraino, per un verso ha elevato il pericolo di un’eventuale minaccia militare russa (Mosca è oggi militarmente più forte, ed è preoccupata per le minacce alla propria sicurezza che ritiene arrivino dall’Alleanza Atlantica), per un altro ha ridotto le proprie capacità di fronteggiare tale ipotetica minaccia. A prescindere da qualsiasi considerazione politica, da un punto di vista puramente militare è un vero e proprio colpo di genio.
Un secondo interessante punto di vista è una riflessione sulle cause strutturali che hanno determinato questa situazione.
Prendiamo, ad esempio, l’esercito britannico, sicuramente uno dei migliori tra i paesi europei della NATO. Il bilancio della difesa 2022 del Regno Unito è stato di 55 miliardi di dollari; quello della Federazione Russa, che era già coinvolta in due guerre (Siria ed Ucraina), di 61 miliardi. Nonostante una differenza non significativa nella spesa militare, la capacità operativa del British Army è degradata al punto che, nelle parole di un generale USA di alto rango, oggi è “a malapena di secondo livello” – laddove al primo sarebbero soltanto USA, Russia e Cina.
Non si tratta quindi di una mera questione di numeri di spesa. Il BA, tra l’altro, può contare su meno di 200.000 uomini in servizio, appena un quinto di quelli in servizio in Russia in periodo ordinario.
C’è quindi in gioco un altro fattore, che deriva dal diverso approccio strategico e concettuale dei paesi NATO, che dopo la caduta dell’URSS ha subito notevoli variazioni, ma che oggi, alla prova dei fatti, si rivelano assolutamente intempestive persino rispetto alle proprie valutazioni. Da almeno dieci anni, infatti, la NATO è tornata ad indicare la Russia come prima minaccia, ma non è stata in grado di adeguare le proprie capacità belliche alla sfida da essa stessa identificata.
Se durante la guerra fredda l’ipotesi fondativa delle strategie NATO era quella dello scontro di massa sul terreno europeo, con la caduta dell’Unione Sovietica l’orientamento strategico è mutato profondamente. La natura stessa dell’Alleanza si è modificata radicalmente: se dal 1945 agli anni ‘90 la sua funzione politica è stata quella di tenere al guinzaglio i paesi europei, mantenendo però una natura essenzialmente difensiva, la nuova proiezione imperiale USA – oltre che all’allargamento dell’alleanza stessa – ha puntato a trasformarla in strumento operativo offensivo, costringendo gli alleati a condividere le guerre asimmetriche da allora portate avanti (Serbia, Afghanistan, Iraq, Siria, Libia).
La parola chiave in questo caso è proprio asimmetriche. In mancanza di un nemico di primo livello (contro cui infatti non si è mai azzardata a confrontarsi direttamente), ma in presenza di un nemico fittizio da agitare, le forze armate NATO sono state via via coinvolte in una serie di guerre a bassa intensità, preferibilmente ad altissima concentrazione di fuoco iniziale per renderle veloci, contro avversari infinitamente più deboli.
Il concetto strategico shock and awe si è tradotto in un’organizzazione delle forze armate NATO finalizzata alla supremazia tecnologica, quindi a strutturare le forze armate intorno ad armamenti caratterizzati da un’elevata capacità offensiva/difensiva, quindi ad altissimo costo, sia di produzione che di manutenzione, prodotti in una quantità relativamente ridotta.
Va notato qui, riprendendo quanto si diceva prima rispetto alle differenze gerarchiche interne all’Alleanza, che non solo le grandi linee politico-strategiche della NATO vengono decise a Washington in base agli interessi statunitensi, ma anche l’elaborazione delle strategie militari (e conseguentemente industriali) è esclusivo appannaggio del Pentagono: gli alleati europei si adeguano.
Già nel 1961, nel suo famoso discorso di fine mandato, il presidente americano Dwight Eisenhower (un ex-generale…) avvertiva dei pericoli insiti agli accordi segreti fra potere politico, industria bellica e militari, in quello che lui stesso definì complesso militare-industriale. Il potere di tale complesso – e per quanto riguarda l’industria stiamo parlando di qualcosa interamente privato – si è centuplicato negli anni susseguenti la WWII, che hanno visto gli Stati Uniti impegnati quasi ininterrottamente in guerre. Ed è abbastanza evidente come l’interesse dell’industria bellica USA sia quello di sviluppare (e vendere) sistemi d’arma ad altissimo valore aggiunto.
C’è quindi un insieme di concause, praticamente tutte riconducibili al paese egemone dell’alleanza, che hanno determinato l’attuale situazione: aver portato in primissimo piano una presunta minaccia, aver contribuito a renderla effettivamente tale e, al contempo, aver abbattuto drasticamente le proprie capacità di fronteggiarla.
Ovviamente, parte di questa insensatezza risiede nel fatto che gli strateghi politici e militari statunitensi pensano alla Russia soprattutto come ad un feticcio, un simulacro, da agitare ad usum vassalli – come è stato precedentemente fatto col terrorismo islamico, dagli USA prima creato in funzione anti-sovietica, poi utilizzato appunto come spaventapasseri globale, ed infine messo da parte quando gli interessi si sono allineati diversamente.
A ben vedere, infatti, anche se Washington insiste sul pericolo della minaccia russa, nei fatti sembra non tenere in alcun conto la Russia. Non ha saputo valutarne né le capacità militari, nell’affrontare la proxy war scatenata in Ucraina, né quelle di fronteggiare la guerra ibrida messa in campo sul piano politico-economico.
Ed anche sotto un profilo più strettamente strategico, e relativamente alla guerra in corso, la non-strategia USA – che oscilla continuamente tra l’illusione di sconfiggere Mosca e quella di semplicemente logorarla – continua a non tenere in alcun conto l’avversario; non le sue capacità, non le sue intenzioni, non le sue preoccupazioni, non i suoi obiettivi.
Come se ciò accade dipendesse esclusivamente dalla volontà della Casa Bianca, le cui decisioni diverrebbero automaticamente realtà solo perché la volontà imperiale si impone sempre.
Ma questo – l’ingaggiare una lotta contro un potente avversario senza mai tener conto della sua essenza – è un altro discorso.
Enrico Tomaselli
28/4/2023 https://giubberosse.news/
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!