Donne e scienza. La matematica nelle fibre delle donne

http://www.blog-lavoroesalute.org/lavoro-e-salute-aprile-2023/

http://www.lavoroesalute.org

Ringrazio le organizzatrici per l’opportunità di esprimere il mio pensiero su Donne e matematica in questa comunicazione. Ho fatto una scelta: non parlerò di dati e numeri né di progetti specifici atti a rompere il soffitto di cristallo, né di quelle splendide donne che tra mille ostacoli nutriti di pregiudizi (chiamiamoli così per ora) hanno scelto una vita matematica spinte dalla propria passione capace. Convocando donne che sono state e sono maestre, cercherò di dire quattro o cinque cose incentrate su altrettante parole con l’obiettivo di esplorare in breve come la matematica possa essere compagna di viaggio nel nostro essere, nel nostro diritto ad essere, nel nostro percorso attraverso il mondo.

1. Partirò da due affermazioni ben note. Disse il matematico Hermann Weyl (1885-1955): “Vi sono state solo due donne matematiche nella storia Sof’ja Kovalevskaja ed Emmy Noether: la prima non era una matematica, la seconda non era una donna”. Viene stroncata così, attraverso il modo in cui l’universo e l’universale maschile hanno costruito la definizione di donna, la possibilità di esistenza stessa della donna matematica. Gino Loria (1862-1954), matematico, scrisse: “Si direbbe che la donna, negli studi più ardui, non cessi mai di essere una scolara, che la larva possa bensì raggiungere lo stadio di crisalide, ma le siano vietati i liberi voli della farfalla”. Quindi un’esecutrice, una ripetitrice, mai una compositrice, mai capace di libero pensiero, quindi nemmeno di filosofia, da cui le donne sono state parimenti escluse.

Cose vecchie? Di acqua ne è passata ma un elenco nutrito di affermazioni del genere, che coinvolgono ora il nostro pensiero ora il nostro corpo, continua ad attraversare la cultura, la politica, il mondo delle istituzioni, che dovrebbe invece tutelare, promuovere: irripetibile ciò che disse un già presidente del consiglio su Angela Merkel o su Rosi Bindi, irripetibile ciò che pochi giorni fa ha detto un sottosegretario alla cultura. Esempi. Immaginiamoli per un attimo al maschile. Cominciamo a dare nomi alle cose. Tutto questo un nome ce l’ha, un nome esatto, matematicamente esatto, privo di ambiguità, riconoscibile, che non è semplice maschilismo ma stile, odore che sempre prova a qualificarci, dandoci un posto deciso da altri nel mondo. Si chiama patriarcato, una struttura, uno scheletro, una crosta, una incrostazione quasi inscalfibile, un ordine gerarchico che ha al centro un’altra parola, e la dirò qui ancora, dominio. Obbliga i nostri corpi, i nostri pensieri, le nostre scelte e, sempre, dobbiamo riprenderceli. C’è una bella immagine, copertina del libro Femminismo fuori sesto: una donna cammina ma non su un cammino tracciato da un destino che la cultura le ha dato giocando sulla sua natura; ha in mano un nastro ed è lei a srotolarlo e a camminare sulla curva che lei stessa costruisce. Il suo cammino. Quest’ordine può e deve essere cambiato, con una lunga trasfusione, una lunga gestazione: le donne sono abituate ai tempi lunghi, sono i tempi dell’attenzione, della cura. Simone Weil (la citerò altre volte, filosofa, mistica, operaia, che ha fatto dello sperimentare col corpo la sorgente del proprio pensiero e che, in questo, ha fatto della matematica la sua compagna di cammino) in La scienza e noi, dice un paio di numeri, non grandi ma immensi rispetto all’azzeramento: “E’ necessario un anno di fatica e di cure per far spuntare un’altra messe nel campo […], per far sorgere un uomo nuovo ci vogliono venti anni. Questa necessità, che ci incatena strettamente, si riflette nella costrizione sociale mediante il potere che essa procura a coloro che sanno bruciare i campi e uccidere gli uomini, cose rapide, nei confronti di coloro che sanno far maturare il grano ed allevare i bambini, cose lente.” Si fa largo la riflessione su uno stridore, uno scarto, sulla sproporzione tra chi domina e chi viene dominato, tra chi uccide e chi dà la vita, sulla asimmetria tra due modi, due stili, due fini. Sono parole matematiche. La matematica ci interroga sui limiti e sull’illimitatezza, sul delirio di onnipotenza, lo squilibrio, la disarmonia, in questo periodo in cui i limiti, da qualche voce, sono invocati: “Il limite ignoto”, intitolava l’articolo di un quotidiano pochi giorni fa. Il dominio è iperbolico, parla di quell’eccesso che accompagna ogni privilegio, parla di eclisse o ellisse della consapevolezza dei limiti e dell’attenzione, quell’attenzione che ci fa ben capire che un meno non è un più e che questo errore stravolge tutto ciò che ne segue. E che al segno meno di alcuni, alcune, corrisponde il segno più di altri. Non è semplice metafora, lo è anche, ma è soprattutto contenuto da far agire, atmosfera da sostituire attraverso l’esercizio di queste parole, il fermarcisi sopra: sono immagini che vanno nutrite.

2. Ho detto trasfusione, gestazione, e assieme ad esse vivono rivoluzione, ribellione. Sono, queste, parole della matematica, che è in grado di rompere tradizioni, di inventare sistemi, di immaginare liberamente mondi. Con autorevolezza la matematica rompe ogni principio di autorità, nella sua capacità di utilizzare i propri paradossi come trampolini di lancio per nuove visioni. Le geometrie non euclidee sono geometrie ribelli, le metamorfosi del numero attraverso il passaggio al non razionale e poi al non reale indicano la ribellione del numero, così la storia della quadratura del cerchio con l’insistenza del volerlo quadrare, irregimentare in un mondo prestabilito. Sono i luoghi delle vie senza uscita che, se assunte, aprono a nuovi spazi, nuove parole. La matematica è quel libero pensiero capace in questa ribellione di pensare l’impossibile, di concepirlo, di negarlo come di dimostrarlo. Dice ad Alice la Regina Rossa, in uno di quei libri del reverendo Dodgson (L. Carroll) che, nel dire la necessità delle regole, dicono anche l’uguale necessità e la possibilità del loro ribaltamento (Il mondo delle meraviglie, del sottosuolo, il mondo oltre lo specchio sono mondi altri): “Mi sembra che tu non abbia molta pratica. Alla tua età io mi esercitavo mezz’ora al giorno. Certe volte arrivavo a credere sei cose impossibili prima di colazione”. La matematica che questi “non” fanno emergere rivela un proprio attributo fondamentale, la capacità di negazione. Imre Toth, matematico morto nel 2010, che ha sfiorato da ebreo i campi di sterminio, ha fatto della negazione il centro della sua ricerca filosofico/matematica. Molto ha scritto sul NO, collegando questo carattere della matematica ai Giusti che hanno saputo opporsi, a volte in estrema solitudine, dicendo di no all’orrore. E poi c’è l’esercizio al pensiero pulito, al pensiero che non è servo. È l’esercizio che si oppone alla manipolazione, all’imbroglio, che spinge sia al loro smascheramento sia al non esserne complici. Chiariamolo, la matematica serve, ma non è serva.

La matematica è capace d’essere astratta come estremamente concreta, di spaziare dalla filosofia alla mistica, di darci parole e immagini per la nostra esistenza. Anche se ne trova applicazioni, non vive nel piano utilitaristico come nel mondo mercantile in cui persino la scuola vorrebbe portarci. Non è merce, come noi non siamo merce.

3. Abbiamo parlato di simmetria e asimmetria, limiti, attenzione. A queste parole è legata quella che forse è la parola più importante della matematica: relazione. La ratio nasce come rapporto, così come il pensiero pitagorico fonda sui numeri e sui loro rapporti la costituzione e la conoscibilità del mondo. La matematica appare come un arazzo, una rete di relazioni, fili, intrecci dinamici. E tra le antiche ma vive relazioni c’è la proporzionalità: proporzione è essere “secondo porzione”, parla di giustizia, di equità, assomiglia a simmetria (ne ha condiviso il significato), che traduce “con misura”, trattarsi allo stesso modo, potersi guardare specularmente senza temersi. Ecco quindi proporzione e sproporzione, simmetria e asimmetria, ed ecco il limite e l’illimitatezza e, di nuovo, attenzione e dominio. Dobbiamo avere parole per dirli, riconoscerli, e capacità di guardarli, questi doppi. Potere e dominio, qui S. Weil è nettissima: “E’ possibile amare ed essere giusti solo se si conosce l’imperio della forza e si è capaci di non rispettarlo”. Riconoscere la sproporzione ed allontanarsene, conoscere e disubbidire, avere la facoltà di dominare e sapersi tirare indietro. Della proporzionalità, Weil ama la media proporzionale (soprattutto in senso mistico), simbolo del tramite, del ponte, della negoziazione. Avessimo più ponti non avremmo confini, sapremmo risolvere le guerre (che nemmeno avremmo dichiarato) con la media cioè la mediazione, o con tutte le vie d’uscita che la matematica stessa ci offre attraverso i suoi attuali modelli di pace, attraverso le logiche binarie capaci di superare i manicheismi che ci avvolgono. Relazione è una parola che ci appartiene, e noi che siamo impasto di corpo e pensiero la conosciamo bene, è quella che si esplica nella cura, nell’attenzione, nel primo abbraccio che, per tutte e tutti, e senza nulla concedere alla mistica o alla retorica della maternità, è quello che sa di materno. Abbiamo un gran bisogno di altre atmosfere, altri paesaggi.

4. Di queste atmosfere parla Virginia Woolf, un’altra delle nostre madri, ne Le tre ghinee, scritto in un tempo vicino a quello in cui scrive Simone Weil, un tempo drammatico, in cui stava per scoppiare la seconda guerra mondiale ed il fascismo e il nazismo avanzavano potenti per dominare il mondo, schiacciando ogni libertà e diffondendo orrori. Le viene chiesto cosa sia possibile fare per prevenire la guerra, scongiurarla, le si chiede un’adesione a un manifesto, un’offerta. Darà diversamente i suoi soldi, le tre ghinee del titolo: per potenziare un’università femminile, perché le donne possano esercitare una professione, per un’associazione chiamata La società delle estranee.
La ragione? Il meccanismo alla base della guerra, della violenza, è lo stesso che opprime la donna, ed è quello con cui abbiamo iniziato, l’ordine patriarcale, allora come ora: un pensiero rivoluzionario. “Cosa si dovrà insegnare nel college […] povero? Certo non l’arte di dominare sugli altri, non l’arte di governare, di uccidere, di accumulare terra e capitale. Queste arti richiedono spese generali troppo elevate: stipendi, uniformi, cerimonie […] Invece si dovranno insegnare solo le arti che si possono insegnare con poca spesa […] la medicina, la matematica, la musica, la pittura, la letteratura. E l’arte dei rapporti umani […] E gli insegnanti saranno scelti tra coloro che sono bravi a vivere oltre che a pensare.” E più avanti, dove parla del potere dell’odore, “o lo vogliamo chiamare atmosfera”, mette in guardia sull’odore che si respira quando le donne sono chiamate signorine (e non dottoresse per esempio o professoresse, usanza che vige tuttora) ed hanno gli stipendi più bassi, lì troviamo qualcosa che “potrebbe infettare entrambi i sessi […], troviamo in embrione l’insetto che riconosciamo sotto altri nomi in altri paesi. Là sta racchiuso allo stato embrionale l’essere che, quando è italiano o tedesco, chiamiamo Dittatore”.

La matematica ci offre su un piatto d’argento parole, modi, concetti che, vissuti, sono pratiche capaci di costruire altri odori, altre atmosfere appunto, diverse da quella che, da sempre, ci ha condannate all’esilio (è Nadia Fusini, studiosa italiana di Virginia Woolf, a ripeterci che questa è stata senza possibilità di negazione la nostra condizione per secoli). Ecco quindi una matematica scuola di disubbidienza e, assieme, scuola di legami.

5. Si potrebbe proseguire parlando del capovolgimento degli sguardi, che corrisponde all’esercizio matematico all’inversione, di cui sempre Carroll è maestro (il Cavaliere Bianco a testa in giù che Alice incontra dice chiaramente quanto meglio si vedano le cose in quella posizione). E poi quella parola chiave della nostra comune umanità, che vive centralmente nella matematica come nella Costituzione italiana del 1948 nata dalla Resistenza: uguaglianza. Uguali sono le cose che hanno le stesse proprietà, ma quali? Posso dire che l’ellisse citata all’inizio sia uguale ad una pur così diversa circonferenza? Ma certo, perché una proiezione le collega e in quell’ambito hanno le stesse proprietà. “Le stesse”: è questa la nuova parola. Avere la stessa forma o la stessa area, e non solo essere sovrapponibili, questo rende uguali. Come avere gli stessi diritti, la stessa comune umanità. L’art. 3 della Costituzione enuncia con forza l’uguaglianza dando un compito alla Repubblica (e quindi alla Scuola), quello della “rimozione delle disuguaglianze”. E, come ama dire Alessandra Algostino, Costituzionalista impegnata a farci conoscere i compiti costituzionali, fra questi vi è, immenso, il compito di far vivere le nostre “libere uguali diversità”.

Siamo state a lungo escluse dal pensiero e dalla possibilità di esprimerci ma la matematica è una delle compagne di viaggio (ho cominciato e concludo con questa parola) con le quali ce ne appropriamo. Altre compagne, e non per parafrasare Isaac Newton o prima ancora Bernardo, ma per individuare un gesto capace di accomunarci, sono le madri e le sorelle sulle cui spalle gigantesche ci siamo accoccolate per vedere più lontano e con le quali scendiamo nelle profondità e negli abissi dell’esistenza: sono donne di scienza, filosofe, poete, sono le donne che lottano per cercare vita.

Dianella Pez

già docente di Matematica e Fisica Liceo Einstein” di Cervignano del Friuli

Comunicazione presentata il 29 marzo 2023 a Marinelli 100 – Incontro con riflessioni sul tema “Donne e scienza”, Aula Magna Liceo Scientifico “Marinelli”, UDINE.

http://www.blog-lavoroesalute.org/lavoro-e-salute-aprile-2023/

http://www.lavoroesalute.org

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *