Capitalismo in declino: l’automazione in un’economia stagnante
Questo articolo è tradotto dall’originale inglese pubblicato su ROAR Magazine nel 2021, ed è anche disponibile in turco, tedesco e francese. È una recensione critica di due recenti libri che affrontano la questione dell’automazione in un’economia stagnante. Il libro di Aaron Benanav Automation and the Future of Work è stato pubblicato da Verso nel 2020 e da allora ha avuto un successo internazionale. Il libro di Jason Smith Smart Machines and Service Work, uscito nello stesso anno per Reaktion Books, ha stimolato dibattiti sulle questioni della popolazione in eccesso, del lavoro produttivo e dell’economia servile. Entrambi i libri criticano la prospettiva che vede il lavoro minacciato da un esercito crescente di robot e di lavoratori lasciati per strada. Per loro, la situazione è ancora peggiore. Il futuro del lavoro non è caratterizzato dalla mancanza di lavoro ma dalla precarietà costante e crescente. Benanav e Smith cercano dunque di individuare un malessere persistente più profondo che affligge l’economia mondiale: la stagnazione economica e il calo della redditività. L’intensificarsi della precarietà e dell’insicurezza del lavoro non è causata dai robot, ma da un’economia moribonda il cui declino diventa sempre più difficile da evitare . Questa recensione di Jack Copley e Alexis Moraitis cerca di collocare i fenomeni descritti da Benanav e Smith seguendo l’approccio della forma-valore, ispirato da Marx e Moishe Postone. La recensione è simpatetica rispetto a molte delle intuizioni dei libri, ma cerca di collocare i fenomeni descritti da Smith e Benanav nell’ambito di una profonda contraddizione al centro del capitalismo: quella tra valore d’uso e valore di scambio o tra ricchezza materiale e valore. Mentre il dinamismo del capitalismo in termini di valore d’uso tende a crescere continuamente grazie all’applicazione di nuove tecnologie, questo stesso processo di crescita della produttività mina il suo dinamismo in termini di valore. Il malessere dell’economia mondiale riflette lo sviluppo cronicizzato di una contraddizione insita nella logica del capitalismo fin dalla sua nascita
La quarta rivoluzione industriale è iniziata. Dall’intelligenza artificiale alle carni sintetiche, alla stampa in 3D, le novità dell’innovazione sembrano sul punto di dare il via a un mondo di straordinaria abbondanza materiale e tempo libero per l’umanità. Questa è la previsione del Forum Economico Mondiale, che accoglie con entusiasmo questa imminente trasformazione tecnologica in quanto “opportunità… che genererà un futuro inclusivo e incentrato sull’umano”.[1]
Dietro questa patina luccicante, si nasconde però un’ansia profonda che l’Industria 4.0 possa invece sfociare in un futuro distopico di disoccupazione tecnologica di massa. Celebri imprenditori come Bill Gates e Elon Musk si dicono preoccupati delle “conseguenze negative che l’intelligenza artificiale e l’automazione potrebbero avere sui lavoratori”[2], e una serie di figure pubbliche molto diverse tra loro – dall’ex capo della Banca Mondiale ai leader dei sindacati europei – mettono in guardia circa le ripercussioni in termini di occupazione causate da un’automazione senza controllo. Vari studi danno adito a questa preoccupazione. Una ricerca ampiamente citata sostiene che il 47% dei posti di lavoro negli Stati Uniti è a rischio di automatizzazione. Un’altra analisi stima che il cambiamento tecnologico contemporaneo – insieme a urbanizzazione, invecchiamento della popolazione e globalizzazione – stia avvenendo “10 volte più velocemente e in scala 300 volte maggiore”[3] rispetto alla prima rivoluzione industriale.
Un nuovo filone di studi sta provando a delineare i contorni della sfida dell’automazione e offrire una via d’uscita. Libri come Rise of the Robots di Martin Ford, Inventing the Future di Nick Srnicek and Alex Williams, e Fully Automated Luxury Communism di Aaron Bastani suggeriscono che l’Industria 4.0 renderà superflua una grossa fetta dell’attuale forza lavoro, e questo potrebbe portare non a una miseria generalizzata, bensì a una vita caratterizzata da abbondanza e tempo libero.[4] Queste tesi spesso sostengono che un reddito di base universale – in base al quale lo stato garantisce a ogni cittadino un reddito regolare – sia necessario per riconciliare l’automazione e l’economia di mercato, o addirittura che sia il passaggio inevitabile in direzione di una società futuristica e post-capitalista.
Due libri recenti presentano una critica importante sia della letteratura sopra citata, sia di un più ampio discorso sull’automazione: Automation and the Future of Work di Aaron Benanav e Smart Machines and Service Work di Jason E Smith.[5] Entrambi i testi sostengono che la nostra non è l’epoca di una spirale tecnologica fuori controllo volta a risparmiare manodopera. La crescita della produttività del lavoro (un indicatore del ritmo dell’automazione) nelle economie avanzate a partire dagli anni Settanta è stata debole se confrontata con i decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale. Invece di un dinamismo tecnologico senza precedenti, stiamo attraversando un lungo periodo di innovazione lenta.
In ogni caso, se anche l’automazione non creasse disoccupazione di massa, non significa che la situazione sia rosea. C’è già una profonda crisi del lavoro, non all’orizzonte ma in corso proprio in questo momento. In tutto il mondo, le persone faticano a trovare un lavoro sicuro e dignitoso. La causa di questo mercato del lavoro disfunzionale, sostengono sia Benanav che Smith, è la stagnazione dell’economia capitalista globale.
UN’ECONOMIA IN FRENATA
L’idea che l’economia sia stagnante ha preso piede dopo la crisi finanziaria del 2008. Le aspettative iniziali di una rapida ripresa della crescita economica non si sono mai concretizzate: gli investimenti e la crescita sono rimasti fermi, nonostante gli sforzi delle banche centrali per stimolare l’economia. L’ex consigliere di Obama, Larry Summers, ha reso popolare il termine “stagnazione secolare” per descrivere l’odierno paradosso per cui i governi inondano i mercati di liquidità ma le imprese non riescono a incanalare questo denaro in nuovi investimenti.
Per alcuni studiosi non si tratta di un problema specifico del dopo-2008: le economie dei paesi ricchi hanno sofferto di tassi di crescita dei profitti, investimenti e PIL relativamente bassi fin dagli anni Settanta. Per Benanav e Smith, questa persistente stagnazione spiega le difficoltà del mercato del lavoro. Se la crescita economica è lenta, anche la creazione di posti di lavoro è lenta. Visto che un maggior numero di persone è alla ricerca di un limitato numero di posti di lavoro disponibili, diventa più difficile per i lavoratori migliorare i salari o le loro condizioni, in quanto facilmente sostituibili. Il risultato è l’aumento della disoccupazione, dell’insicurezza del lavoro e della disuguaglianza, spesso erroneamente attribuito all’automazione.
I due libri, tuttavia, offrono spiegazioni diverse della stagnazione economica, rifacendosi a due luminari del marxismo statunitense: Robert Brenner e Fred Moseley. Benanav, come Brenner, sostiene che l’attuale stagnazione abbia le sue radici nelle trasformazioni del settore manifatturiero globale avvenute dopo la Seconda Guerra Mondiale. Dopo la guerra, le tecnologie industriali degli Stati Uniti, leader a livello mondiale, si sono diffuse in Europa e in Giappone, e poi in Paesi di recente industrializzazione come la Corea e Taiwan. Ciò ha creato una “sovrapproduzione industriale” che ha inondato i mercati di beni, creando un enorme eccesso di offerta e abbassando i prezzi e i tassi di profitto.
Con la diminuzione della redditività, le aziende manifatturiere avevano meno incentivi a investire. Al contrario, il denaro è stato trasferito nei mercati finanziari, mentre i lavoratori sono stati assorbiti dal settore terziario. Tuttavia, il settore dei servizi non è stato in grado di sostituire l’industria manifatturiera come motore di crescita perché i servizi sono difficili da automatizzare: non è possibile aumentare la produttività di un massaggiatore senza compromettere la qualità del massaggio. Il risultato è un’economia globale sbilanciata, in cui il settore manifatturiero ha esaurito il suo dinamismo, mentre le persone sono sempre più impiegate nel settore dei servizi con lavori spesso precari e sottopagati a causa della loro scarsa produttività.
Smith, al contrario, segue il pensiero di Moseley nello spiegare la stagnazione attraverso la teoria della “caduta tendenziale del saggio di profitto” di Marx. Le imprese aumentano la loro competitività introducendo tecnologie che consentono di risparmiare sul costo del lavoro. Ciò significa che la classe capitalista tende a spendere sempre di più in macchinari e materie prime, invece che nel lavoro. Tuttavia, secondo Marx solo la spesa del lavoro nella produzione genera plusvalore. Quindi, poiché viene impiegata meno manodopera nella produzione rispetto ai costi complessivi, il risultato è una diminuzione della redditività per l’intera economia, che scoraggia nuovi investimenti.
Allo stesso tempo, Smith sostiene che un’altra importante causa della stagnazione è la crescente percentuale di persone impiegate in lavori che non producono valore. Questi lavori non producono merci, ma ne facilitano la produzione (come chi supervisiona il lavoro di fabbrica) o aiutano a farle circolare (per esempio, chi lavora alla cassa di un supermercato). Nel tempo, il capitalismo crea un numero relativamente maggiore di lavori improduttivi, perché sono più difficili da automatizzare. Allo stesso tempo, i salari dei lavoratori improduttivi costituiscono una detrazione dal valore totale prodotto nell’economia, deprimendo la redditività e consolidando la stagnazione.
Pur offrendo spiegazioni diverse della stagnazione, sia Benanav che Smith dipingono un quadro cupo di ciò che ne consegue. In condizioni di crescita debole, Smith sottolinea che sono emersi due archetipi di aziende: la ‘piattaforma’ e la ‘zombie’. Le ‘piattaforme’ includono i giganti tecnologici come Google, che raccolgono enormi rendite da posizioni di monopolio. Le ‘zombie’ si riferiscono al resto: aziende che lottano per rimanere redditizie in mercati ipercompetitivi, rimanendo attive a stento, contraendo continuamente debiti. I guadagni che le aziende riescono eventualmente a generare non vengono investiti in nuova capacità industriale, sostiene Benanav, ma vengono piuttosto utilizzati per riacquistare le proprie azioni, aumentando il valore in borsa dell’azienda. Questo contesto aziendale sclerotico e biforcuto ha conseguenze terribili per il mondo del lavoro.
Concentrandosi sugli Stati Uniti, Smith illustra l’ascesa di una “classe di servitori” mal pagata che include il personale della ristorazione e dei servizi di cura alla persona. Date le prospettive di lavoro così magre, molte persone hanno semplicemente smesso di cercare lavoro. Benanav considera il problema a livello globale. La forza lavoro disponibile nel mondo è aumentata proprio quando l’economia si è dimostrata meno capace di creare posti di lavoro decenti nel settore manifatturiero. Di conseguenza, molte persone nel Sud del mondo devono cercare di sopravvivere nell’economia informale dei servizi: vendendo pastelli sui mezzi pubblici, lavando parabrezza ai semafori rossi e, potremmo aggiungere, vendendo droga, sesso o organi sul mercato nero.
Mentre Smith si occupa principalmente di diagnosticare questa catastrofe, Benanav va oltre. Valutando le misure intraprese per contrastare la stagnazione, Benanav conclude che le politiche di ispirazione keynesiana non funzionano. Il cosiddetto periodo neoliberale ha di fatto tentato più volte lo stimolo economico keynesiano che però non ha risolto la questione della sovrapproduzione industriale. Inoltre, sostiene Benavav, le proposte di reddito di base universale (UBI, Universal Basic Income) di sinistra sostenute dai teorici dell’automazione fraintendono il terreno strategico. In un capitalismo stagnante, la lotta per l’UBI diventerà rapidamente una battaglia a somma zero che si gioca su risorse economiche in diminuzione. I capitalisti sono in una posizione di vantaggio su questa gara, poiché la loro decisione di interrompere gli investimenti può far deragliare l’economia.
Benanav conclude che l’unica strada percorribile è quella di privare i capitalisti del loro vero potere: la capacità di controllare gli investimenti. Delinea una visione esaltante di una società post-capitalista in cui le persone coordinano il loro lavoro collettivo in modo democraticamente pianificato, facendo uso di tecnologie che risparmiano lavoro quando queste sono giudicate socialmente utili. Una società di questo tipo sarebbe governata dal principio che a nessuno dovrebbe mancare ciò che è necessario per una vita dignitosa.
Al contrario dei teorici dell’automazione, Benanav sostiene che l’abbondanza non si otterrà semplicemente raggiungendo un certo orizzonte tecnologico. Al contrario, “l’abbondanza è una relazione sociale” che si può cogliere solo attraverso una riorganizzazione della società. Un mondo migliore è possibile ora, a prescindere dalla realizzazione delle promesse dell’Industria 4.0.
CAPIRE LA STAGNAZIONE
I commentatori mainstream e le istituzioni globali stanno affrontando, a modo loro, il rallentamento del capitalismo. Allo stesso tempo, tendono a inquadrarlo come un inconveniente tecnico da trattare con politiche innovative, piuttosto che come qualcosa che richiede una riprogettazione radicale della nostra società. Summers paragona l’economia contemporanea a un’auto con l’alternatore rotto e da riparare, ma insiste sul fatto che “la stagnazione economica in sé non rivela un difetto profondo o intrinseco del capitalismo”.[6] Queste diagnosi mainstream sono in contrasto con la missione di Benanav e Smith di cogliere il malessere strutturale e più profondo dell’economia mondiale.
Sebbene i loro libri rappresentino interventi necessari in questo senso, contengono anche importanti ambiguità. Noi sosteniamo che le loro osservazioni potrebbero essere meglio interpretate attraverso un quadro concettuale che collega più esplicitamente i problemi da loro descritti alle contraddizioni più generali dell’economia capitalista.
Nell’analisi di Benanav, le ragioni per cui il capitalismo tende inevitabilmente alla stagnazione e alla bassa domanda di lavoro rimangono poco teorizzate. Si potrebbe dire che si può rilanciare la crescita con l’espansione verso nuovi mercati di consumo non saturi. All’indomani della Seconda Guerra Mondiale, questo ruolo è stato assunto dai beni di produzione di massa, come automobili ed elettrodomestici, che hanno portato a quasi tre decenni di crescita economica e piena occupazione. Benanav, tuttavia, insiste sul fatto che i nuovi mercati e le nuove tecnologie non sono in grado di risolvere l’attuale rallentamento globale, in quanto si troverebbero rapidamente di fronte a una situazione di sovrapproduzione. Tuttavia, non è chiaro perché la sovrapproduzione rappresenti una trappola così ineluttabile.
I limiti teorici della tesi della sovrapproduzione di Benanav riflettono quelli del suo ideatore, Brenner. Essenzialmente, la tesi di Brenner attribuisce la stagnazione all’eccesso di concorrenza: troppi produttori si contendono quote di mercato limitate.[7] Quanto più affollati sono i mercati, tanto più ostinate diventano le singole imprese, che si rifiutano di abbandonare gli investimenti e di cedere il posto a concorrenti più produttivi. Piuttosto che chiudere, cercano disperatamente di realizzare qualsiasi profitto con le fabbriche e i macchinari già esistenti. Ciò si traduce nella spirale di diminuzione della redditività di cui si è parlato in precedenza. Secondo questa tesi, la stagnazione globale deriva dalla caratteristica mancanza di coordinamento della concorrenza di mercato.
Tuttavia, se la stagnazione deriva da una concorrenza sfrenata, allora per evitarla sarà sufficiente trovare la volontà politica di implementare forme di regolamentazione più efficienti. Un approccio favorevole al mercato potrebbe suggerire l’implementazione di un quadro normativo più rigoroso che faciliti la liquidazione delle imprese non competitive – prevenendo la sovrapproduzione in modo “ordoliberale”. Una strategia più dirigista potrebbe sperare in uno Stato illuminato o in una burocrazia sovranazionale che affermi il controllo politico sulla produzione e pianifichi gli investimenti in modo più razionale. In alternativa, proposte keynesiane affronterebbero la stagnazione con ambiziosi stimoli governativi, al fine di sostenere livelli di domanda adeguati a assorbire l’eccesso di merci prodotte dalla sovrapproduzione industriale.
Il rifiuto di Benanav della via keynesiana non convince fino in fondo, in quanto suggerisce che la crescita del debito pubblico dopo gli anni Settanta sia prova della sua incapacità di stimolare la crescita. Molti keynesiani obietterebbero che la spesa dei governi alimentata dal debito non è stata usata per aumentare il potere di consumo della gente comune, ovvero per stimolare direttamente la domanda. Al contrario, soprattutto a partire dal 2008, gli Stati hanno effettuato massicce iniezioni di denaro nei loro sistemi finanziari nella speranza mal riposta di aiutare in questo modo prestiti e investimenti privati.
La spesa pubblica per le infrastrutture e la ridistribuzione della ricchezza, auspicate da molti keynesiani per rilanciare la crescita economica, non sono state implementate in modo continuativo. In definitiva, non è chiaro perché la sovrapproduzione industriale debba per forza essere impermeabile ai tentativi degli Stati di regolare la concorrenza, pianificare gli investimenti o stimolare direttamente la domanda. Perché costruire una società post-scarsità è più realistico che riparare l’alternatore rotto del capitalismo?
La tesi di Smith, in certi punti, è contorta e difficile da districare. Il calo della redditività, l’aumento del lavoro improduttivo, l’abbondanza di manodopera a basso costo e le difficoltà tecniche nell’automatizzare il settore dei servizi appaiono come fonti scollegate dell’attuale malessere economico, che non sono facilmente riconducibili a un’argomentazione generale. Tuttavia, il concetto di lavoro improduttivo ha un ruolo chiave nella sua analisi.
Secondo Smith, la distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo è ancora più importante di quella tra produzione manifatturiera e servizi. Dopo tutto, chi lavora nei fast food ha più cose in comune con chi opera le catene di montaggio che con chi gestisce le banche. Gli economisti ortodossi sono destinati a un calcolo distorto dell’effettivo stato di salute dell’economia perché non dispongono di strumenti che tengano conto della crescita di questo tipo di lavoro che non produce valore (nel senso marxiano), non può essere facilmente automatizzato e, in quanto tale, costituisce un costo crescente per il sistema.
La tesi della crisi contemporanea fondata sull’aumento cronicizzato del lavoro improduttivo trova però due grossi ostacoli. In primo luogo, l’aumento delle attività improduttive potrebbe essere interpretato come un semplice intoppo da superare con la tecnologia. Ad esempio, Smith suggerisce che gran parte delle recenti tecnologie che permettono di risparmiare sul lavoro, come i dispositivi di tracciamento e monitoraggio, sono state implementate per automatizzare le funzioni di controllo improduttive. Ci si chiede quindi se un’ondata di innovazione guidata dall’Intelligenza Artificiale possa aiutare a raggiungere una distribuzione più equilibrata tra lavoro improduttivo e produttivo, automatizzando attività come la contabilità, il magazzino o addirittura la consulenza legale.
In secondo luogo, forse la distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo non è affatto necessaria per spiegare il fenomeno centrale che Smith analizza. Negli ultimi due capitoli di Smart Machines, Smith descrive l’ascesa dell’economia di servizi ausiliari in base alla quale, indipendentemente dal lavoro improduttivo, la crescita della produttività all’interno del settore manifatturiero causa inevitabilmente un’espansione sproporzionata dei settori a bassa produttività e a bassa retribuzione. Man mano che i macchinari sostituiscono il lavoro umano nell’industria, i lavoratori devono competere per ottenere posti di lavoro in altri settori, abbassando involontariamente i salari. Di conseguenza, i settori ad alta intensità di lavoro come i servizi tendono ad assorbire una quota sempre maggiore di occupazione, ma questi settori hanno pochi incentivi ad aumentare la produttività perché il costo del lavoro è già basso. Data la natura del settore manifatturiero di espellere lavoro, anche una riduzione del lavoro improduttivo non sarebbe in grado di frenare la migrazione di massa della manodopera verso lavori del settore dei servizi caratterizzati da bassa produttività e sfruttamento.
TROPPA PRODUTTIVITÀ
Il capitalismo è caratterizzato da una tensione fondamentale, che non si coglie pienamente guardando soltanto alla concorrenza sfrenata del mercato o alla nozione di lavoro improduttivo. Questa tensione, scoperta da Marx, è quella tra ricchezza e valore. I beni e i servizi utili che soddisfano direttamente i nostri bisogni costituiscono la vera ricchezza della nostra società. Ma nel mercato capitalista sono anche prodotti vendibili che rappresentano un certo valore espresso in prezzi. Secondo Marx, il valore dei diversi beni è dato dal tempo medio di lavoro necessario per produrli.
Le pressioni competitive della società capitalista spingono le imprese a produrre più beni e servizi utilizzando sempre meno lavoro. Le imprese tecnologicamente avanzate, con una produttività del lavoro superiore alla media, possono ridurre i costi, fissare prezzi competitivi, conquistare quote di mercato e ottenere grossi guadagni. Ciò spinge le altre imprese a raggiungere gli standard di produttività stabiliti dai leader del settore.
Le imprese si ritrovano così in una corsa senza fine: devono inseguire costantemente l’ultima frontiera della produttività, altrimenti rischiano la rovina. Questo processo competitivo riporta in evidenza la contraddizione tra ricchezza e valore. Il grado di ricchezza della società cresce, poiché ora è possibile produrre più beni e servizi in meno tempo, ma l’entità del valore creato ristagna perché diminuisce il tempo medio di lavoro richiesto per produrre ciascun bene.
La relazione contraddittoria tra ricchezza e valore offre un quadro generale per capire perché l’economia capitalista tende alla stagnazione proprio a causa della spinta ad aumentare la produttività. Man mano che la corsa alla produttività del capitalismo avanza, la stessa quantità di lavoro umano può produrre un volume maggiore di beni – in altre parole, la stessa entità di valore viene distribuita su un numero maggiore di beni. Per realizzare gli stessi profitti di prima, le imprese devono vendere più beni. Questa dinamica spinge le imprese a produrre più di quanto il mercato possa assorbire, fa scendere i prezzi e la redditività, disincentiva gli investimenti e, in definitiva, genera condizioni di stagnazione.
Il conseguente rallentamento degli investimenti può bloccare l’ulteriore crescita della produttività, un fenomeno che Benanav e Smith rilevano. Per proteggersi da questa flessione, le singole imprese cercano di tagliare i costi, di barricarsi in posizioni monopolistiche o (se possono permetterselo) di rubare la clientela ai concorrenti aumentando ulteriormente la produttività. La spinta alla produttività del capitalismo si traduce in una crescita economica a singhiozzo, in cui le imprese rimangono a galla solo a spese l’una dell’altra.
La tesi di Benanav, secondo cui la causa della bassa domanda di lavoro sarebbe la stagnazione piuttosto che l’automazione, crea un’inutile dicotomia tra questi due processi, trascurandone il legame intrinseco. In effetti, la recessione a cui assistiamo oggi, rispecchia l’elevata crescita della produttività di ieri. Nel capitalismo, la stagnazione non è l’esatto opposto del progresso tecnologico, ma il suo risultato necessario. È il prezzo che la società deve pagare per l’incapacità del capitale di placare la sua sete di profitto. Nel capitalismo, l’aumento della produttività non alleggerisce la fatica del lavoro né libera le persone da ciò che vogliono e cercano. Contribuisce piuttosto a un’economia in declino che rende la vita più difficile a chi vive di lavoro salariato.
Periodicamente, i boom economici guidati da nuovi mercati, da massicci investimenti statali o da un’impennata della domanda possono attenuare temporaneamente la tendenza alla stagnazione e alla sottoccupazione. Tuttavia, più aumenta la produttività, più aumenta il divario tra ricchezza e valore e più ingenti sono le misure da intraprendere per scongiurare il declino. Oggi, gli sforzi politici necessari per portare la crescita ai livelli che permetterebbero di impiegare pienamente tutti coloro che attualmente sono sottoccupati nel settore dei servizi, iper-sfruttati nel settore informale o che sono scomparsi del tutto dalle statistiche sull’occupazione, metterebbero a dura prova la capacità di intervento dello Stato.
Benanav e Smith hanno scritto guide fondamentali per comprendere questa impasse, tracciando con attenzione come il nostro sistema economico non sia in grado di garantire ulteriori progressi sociali e, nel caso di Benanav, delineando una visione credibile di un futuro non capitalista. Tuttavia, le radici dell’infelice traiettoria dell’economia mondiale vanno ricercate nella logica interna di un sistema il cui potenziale produttivo cresce in proporzione alla diminuzione della sua vitalità economica, un sistema in cui la ricchezza si espande solo rendendo la vita sempre più precaria.
Alexis Moraitis insegna Economia Politica Internazionale all’Università di Lancaster, Regno Unito. Si occupa di politica francese, del ruolo dello stato nell’economia capitalista e di teoria del valore di Marx.
Jack Copley insegna Economia Politica Internazionale all’Università di Durham, nel Regno Unito. Si occupa di finanziarizzazione, teoria dello stato e dinamiche di sviluppo capitalista.
Le traduttrici sono, in ordine alfabetico, Manuela Galetto – Relazioni industriali comparate – e Gioia Panzarella – studiosa di traduzione e migrazione; entrambe lavorano all’Università di Warwick, Regno Unito.
- Testo originale in inglese pubblicato su ROAR Magazine qui tradotto da Manuela Galetto e Gioia Panzarella. Link all’originale: https://roarmag.org/essays/automation-benavav-smith-review/
NOTE
[1] https://www.weforum.org/focus/fourth-industrial-revolution
[2] Roose K (2019) The Hidden Automation Agenda of the Davos Elite, New York Times https://www.nytimes.com/2019/01/25/technology/automation-davos-world-economic-forum.html?
[3] Dobbs R, Manyika J, Woetzel J (2015) The four global forces breaking all the trends, McKinsey & Company https://www.mckinsey.com/~/media/mckinsey/business%20functions/strategy%20and%20corporate%20finance/our%20insights/the%20four%20global%20forces%20breaking%20all%20the%20trends/the_four_global_forces_breaking_all_the_trends.pdf
[4] Traduzioni italiane: Ford M, Il futuro senza lavoro Accelerazione tecnologica e macchine intelligenti. Come prepararsi alla rivoluzione economica in arrivo, Il Saggiatore; Srnicek N Williams A.’Inventare il futuro’ Traduzione di Fabio Gironi, Nero (collana Not), Roma, 2018; Aaron Bastani non è stato tradotto in italiano. [N.d.t.]
[5] “Automazione” (2022) pubblicato da Luiss University Press; Smith non è stato tradotto in italiano. [N.d.t.]
[6] Summers L (2016) The Age of Secular Stagnation http://larrysummers.com/2016/02/17/the-age-of-secular-stagnation/
[7] https://www.versobooks.com/books/2485-the-economics-of-global-turbulence
di Alexis Moraitis e Jack Copley
27/4/2023 https://effimera.org
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