Siamo tutte equilibriste

In equilibrio sul presente, le donne in Italia sono ancora assediate dai compromessi della conciliazione. Cosa ci racconta il nuovo report di Save the children sulla maternità e sulle vite che stiamo vivendo, ma anche su come potremmo cambiarle

Le donne non se la passano bene nel nostro paese e, nonostante molto sia cambiato negli ultimi decenni, diversi fenomeni mostrano una pervicacia anacronistica. Il nuovo rapporto di Save the children Equilibriste, la maternità in Italia, curato da Alessandra Minello e Maddalena Cannito – indaga strettoie e strade senza uscita con cui si trovano alle prese, restituendo un panorama ricco di dati. Fotografia di condizioni note, legate alla scarsa partecipazione e alle difficili condizioni lavorative delle donne, ma anche a come si trasformano le scelte e i costumi per non soccombere a una vita troppo lontana da desideri e aspettative.

Ogni tassello è un attentato al mantenimento dell’equilibrio, così in Italia la bassa fecondità e il rinvio della maternità sono cresciute attorno a diverse cause. L’età media al parto è arrivata a 32,4 anni – di due anni più alta rispetto al 1995. Inoltre, seppur all’interno di una tendenza diffusa, il nostro paese registra insieme alla Spagna una percentuale di parti dopo i 40 anni fra le più alte in Europa, intorno al 10%. Un dato che sta insieme al fatto che si entra in una dimensione di coppia sempre più tardi, e si fa fatica a inserirsi nel mercato delle abitazioni, particolarmente sfavorevole per le persone più giovani – come ci ricordano anche in questi giorni le studentesse e gli studenti accampati davanti ai maggiori atenei per il caro affitti.

Le donne poi sono penalizzate nel mondo del lavoro rispetto agli uomini, ancor di più se alle prese con la maternità. “Nel 2022 è evidente la disparità nell’occupazione per genere e a seconda della presenza o meno di almeno un figlio (minore) nel nucleo familiare. Per gli uomini di età compresa tra i 25 e i 54 anni il tasso di occupazione totale è dell’82,7% e varia dal 76,1% dei senza figli, crescendo a 90,4% per chi ha un figlio minore, e al 90,8% per chi ne ha due” spiega il rapporto. “Per le donne la dinamica è inversa: il tasso di occupazione totale è più basso, 62%, con il picco massimo (67%) tra le donne senza figli, e il picco minimo 56,1% tra quelle con due figli minori”. Nel mezzo ci sono le donne con un figlio minore.

La fotografia è chiara: gli uomini partecipano maggiormente al marcato lavoro, con percentuali crescenti se il nucleo familiare si allarga, nella accezione tradizionale per cui è il padre di famiglia a procacciare il reddito; viceversa, le donne sono meno occupate e lo sono sempre meno se optano per la maternità. Il divario nella partecipazione al mercato del lavoro fra uomini e donne assume caratteristiche nette lungo le differenze geografiche e lungo il livello di istruzione. Nel Mezzogiorno, infatti, l’occupazione femminile è ferma al 35,3%; mentre in Italia nel 2021 le donne con al più la licenza media era occupata per il 30,5%, contro il 70% delle laureate, per gli uomini le percentuali erano rispettivamente del 64% e del 71%.

Le diseguaglianze nel tasso di occupazione, si riflettono anche nelle condizioni lavorative. Nella prima metà del 2022 solo il 35% dei contratti a tempo indeterminato hanno riguardato le donne, mentre per le nuove assunzioni del 2022 il part-time riguarda il 49% delle donne, contro il 26,2% degli uomini. A questo si somma la segregazione rispetto ad ambiti considerati maschili, o viceversa l’orientamento verso settori che garantiscano la conciliazione.

Oltre ai bassi stipendi, la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro contribuisce a tenere le donne in scacco: il 74% del lavoro di cura ricade ancora su di loro con 5 ore e 5 minuti di lavoro non retribuito su base giornaliera – oltre 3 ore al giorno in più degli uomini per cui il computo è di 1 ora e 48 minuti.

Fare figli espone alla povertà, a fronte di politiche inadeguate rivolte alle famiglie, servizi educativi per l’infanzia insufficienti e maldistribuiti sul territorio. Infatti, nelle famiglie con un maggior numero di componenti l’incidenza della povertà assoluta è più alta. Le carenze sistemiche e il sovraccarico di cura che ricade sulle spalle delle donne spostano spesso sui nonni il perso della compensazione, al punto che nelle graduatorie scolastiche la vicinanza al domicilio dei nonni compare come un requisito per le ammissioni, o viceversa porta il 74,6% delle donne che si sono licenziate nel 2021 a indicare come motivazione l’assenza di parenti di supporto. Un tema che apre a possibili considerazioni sul benessere delle anziane e degli anziani, spesso supplenti estensivi nella cura familiare – e sulla piena emancipazione sociale e culturale fra generazioni.

In questo scenario molte coppie – a forza di posporre la scelta della genitorialità – si trovano costrette a valutare o percorrere le tecniche di procreazione medicalmente assistita con alterne vicende. Oppure, a rinunciare ai propri desideri in un’ottica di sopravvivenza economica, lavorativa e sociale. Non a caso, il nostro è un paese in cui la fecondità desiderata è molto distante dalla fecondità realizzata. Ci sono figli e figlie desiderati che non nascono perché il prezzo da pagare per le donne, come abbiamo visto, è troppo alto.

Eppure qualcosa si muove. È confutata dai fatti la credenza, detenuta dal genere maschile, per cui le donne hanno come principale aspirazione quella di mettere su famiglia e realizzarsi come madri. L’Italia, al contrario, conferma il trend europeo per cui là dove le donne lavorano, nascono più bambini e bambine – dimostrando come le donne non siano affatto votate al compromesso fra il pane e le rose.

Inoltre, un focus sulle neomadri mostra come la nascita di un figlio e la maternità non rappresentino affatto fasi prive di scosse. Sono gli stereotipi che codificano queste esperienze come unicamente gioiose e senza graffi. Esistono anche le sensazioni negative: la nascita di un figlio o di una figlia è caratterizzata da solitudine per il 38% delle donne intervistate, stanchezza per l’80%, insicurezza per il 53%, paura per 51% e senso di inadeguatezza per il 44%. Inoltre, il 36% delle intervistate – che hanno vissuto il parto – ha dichiarato di aver sentito il bisogno di farsi aiutare da un professionista della salute mentale, ma il 48% non si è rivolta a nessuno, mentre il 35% si è rivolta a uno psicologo, solo 1 donna su 5 ha varcato la soglia di un consultorio pubblico. I tabù che cominciano a cadere, lasciando posto a narrazioni più complesse e veritiere, ma si evidenziano anche le lacune complessive di un sistema.

Dal canto loro, i padri del nuovo millennio non rispondono più al modello anni Cinquanta. Stanno cambiando con tutta calma, ma con costanza. Sono maggiormente protagonisti della cura e a volte anche delle rinunce; segnano un cambiamento culturale importante disegnando una nuova presenza affettiva. Inoltre, affrontano mansioni un tempo inimmaginabili e partecipano in maniera più convinta anche ai congedi di paternità ridisegnati di recente. Nel 2013 ad esempio la quota di padri che aveva usufruito del congedo di paternità era al 19,23%, mentre nel 2021 è salita al 57,6%.

L’exit strategy per fortuna c’è, anche se distante.

Prima di tutto si rende necessario un cambio di passo radicale per tutelare le lavoratrici – con particolare attenzione per la maternità – riducendo l’incidenza della precarietà, costruendo una rete di servizi pubblici e di welfare che possano essere un’alternativa reale e funzionante. Mettere in atto delle politiche serie per eliminare le disparità salariali che sono una delle prime molle – insieme a forme contrattuali instabili – che inducono le donne alla fuoriuscita dal mondo del lavoro. Infatti, spesso esiste un disallineamento importante fra costi e guadagni: il costo dell’asilo nido e di una babysitter rischia di essere superiore allo stipendio delle donne, per di più a fronte di un compagno che è quasi sempre più solido sia sul piano stipendiale che contrattuale. Basti pensare che lo svantaggio delle donne in termini di retribuzione media è di oltre 7.000 euro annui per i contatti full-time, con le retribuzioni medie inferiori del 20% rispetto a quelle degli uomini. Lo svantaggio per i part-time è di oltre 3.000 euro, il 16% in meno rispetto alle retribuzioni maschili.

Inoltre, è urgente lavorare sul congedo di paternità, affinché sia esteso a tutte le categorie di lavoratori in forma obbligatoria, non cedibile e retribuito al 100%. Questo significa non solo incentivare una maggiore condivisione del lavoro di cura nella primissima infanzia, ma anche mettere in moto un cambiamento culturale e sociale intorno ai ruoli genitoriali, riducendo la concezione sacrificale e santificata della madre, e dando ai padri il giusto e legittimo peso nella vita dei figli. Sulla lunga distanza significa anche redistribuire il lavoro di cura in maniera equa.

E poi costruire una rete di sostegno a disposizione delle neomadri per contrastare quel senso si abbandono e solitudine, che non può essere affidato alla famiglia allargata, per chi ne ha una, e al partner. Una rete pubblica che sia a disposizione di tutte attraverso un programma di assistenza domiciliare come avviene già in diversi paesi europei, il rafforzamento dei consultori familiari pubblici gratuiti e un sistema capillare di pediatri.

Serve insomma una spinta rinnovatrice e radicale sul piano delle politiche educative per bambini e bambine che veda il mantenimento dell’impegno preso con il Piano nazionale di ripresa e reslilienza (Pnrr) per l’allargamento dei servizi pubblici rivolti alla fascia 0-2 anni del 33% entro il 2027 per poi arrivare al 45% entro il 2030 come previsto dagli obiettivi di Barcellona.

Una spinta di rinnovamento da realizzare anche grazie alla co-progettazione dei servizi con il protagonismo della comunità educante, come già è avvenuto di recente nella città di Roma.

Ma se davvero vogliamo cambiare le vite, a tutto questo deve accompagnarsi una riflessione su cosa intendiamo per famiglia, considerando che la famiglia tradizionale – composta da madre, padre e prole – risponde ormai a una sparuta minoranza. Si impone uno sguardo progettuale che abbracci tutte le famiglie e tutte le forme di genitorialità in essere.

Perché “famiglia” è dove regna un legame e possibilmente l’amore, non certo le regole del patriarcato.

Maddalena Vianello

18/5/2023 https://www.ingenere.it/

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