LISTE D’ATTESA? Vedi l’Emilia e Romagna

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Durante la pandemia da COVID-19 il Sistema Sanitario emiliano romagnolo ha dovuto sospendere le attività programmate per fare fronte alla emergenza.Ora occorrerebbe recuperare rapidamente le prestazioni rimaste in sospeso, e nel contempo dare risposta in tempi adeguati anche alle nuove richieste.Se prima della pandemia 28 tentativi di prenotazione su 100 finivano nel privato, ora possiamo immaginare che la coda si sia allungata. Di quanto si è allungata ce lo dice AGENAS, l’Agenzia Nazionale Per i Servizi Sanitari Regionali. Rispetto al 2019, negli anni 2020 e 2021 sono saltate (dato nazionale) 12,8 milioni di prime visite e 17,1 milioni di visite di controllo per un totale di quasi 30 milioni di prestazioni.Ci sono almeno due motivi che impongono di recuperare velocemente:- la maggior parte degli italiani non può permettersi le visite a pagamento;- il ritardo di una diagnosi comporta il ritardo di una cura, il rischio di aggravamento, fino alla morte, con un costo sociale altissimo.Nel 2022 la richiesta di visite ed esami è aumentata rispetto al 2019: + 25% visite; + 31% diagnostica per immagini; + 17% diagnostica strumentale:Ma quanto del sospeso è stato recuperato nel 2022?Il 14% delle prime visite; il 16% delle visite di controllo.L’Emilia Romagna è in linea con la media nazionale: 12%.Con la Legge di bilancio 2021 sono stati messi a disposizione 500 milioni di euro per pagare più prestazioni e per pagare di più il personale disposto a fare turni extra, ma il problema resta, principalmente per due motivi:- la mancanza di capacità di pianificazione dei direttori generali, che peraltro non è un requisito essenziale per la loro nomina, mentre invece è essenziale per organizzare i servizi in modo da prolungare gli orari di visite ed esami;- la concorrenza delle strutture private alle quali conviene, dal punto di vista economico, operare in regime di pagamento diretto da parte dei pazienti, piuttosto che in regime accreditato con il SSR. Ne consegue che diminuisce l’offerta di prestazioni accreditate.L’effetto è quello di un peggioramento disastroso delle liste di attesa.Un effetto che sfugge alla vista a causa del sistema di monitoraggio liste di attesa delle regioni, ma non sfugge di certo a chi si sente sempre rispondere “provi tra un mese, perché adesso le agende sono chiuse”. A questo proposito occorre denunciare che, ogni qualvolta una richiesta di prenotazione viene rifiutata a causa del blocco delle liste di attesa, si determina una preclusione rispetto al diritto del cittadino a ricevere la prestazione richiesta nei tempi indicati, e soprattutto una violazione dell’assetto normativo in materia, art. 1 comma 282 Legge 266/2005 finanziaria 2006. E’ un fenomeno molto diffuso e assolutamente non monitorato. I cittadini devono essere informati della possibilità di segnalare il fatto tramite comunicazione ufficiale alla direzione generale della AUSL e all’assessorato alla sanità della regione.

Per capire come si prendono in giro i cittadini ricordiamo che la prestazione deve essere erogata:

  • entro 72 ore se urgente U
  • entro 10 giorni se breve B
  • entro 30 giorni se visita differibile D
  • entro 60 giorni se esame differibile D
  • entro 120 giorni se programmabile P
    e che è il medico di medicina generale a codificare la richiesta.

Sono previsti meccanismi di correzione qualora i tempi non vengano rispettati. Ad esempio: l’utilizzo della libera professione intramoenia pagando solo il ticket, lo stop alla libera professione, l’allungamento degli orari serali e festivi degli ambulatori. Tutti sistemi che non sono mai stati adottati, perché il monitoraggio non ha mai evidenziato questa
necessità. Eppure i tempi previsti dai codici non vengono quasi mai rispettati.

Le regioni hanno l’obbligo di monitorare i tempi di attesa per le prime visite su 14 prestazioni e 65 esami diagnostici. Questo meccanismo non funziona. Alcune regioni dichiarano i tempi di attesa medi, senza distinguere urgenti da brevi da differite da programmate. Alcune regioni prendono a riferimento solo una settimana al mese, quella nella quale di solito si aprono le agende. Altre inseriscono solo i dati delle AUSL più efficienti. Altre rilevano meno visite di quelle richieste. Non sempre è possibile sapere se i tempi indicati sono in previsione o a posteriori, ossia i tempi di attesa effettivi.

L’Emilia Romagna non specifica le modalità di rilevazione, rileva su base mensile, esprime i dati in percentuale senza distinguere le classi di priorità. Lo stesso avviene per i ricoveri.

Di fatto, con i dati così raccolti, sembra che vada tutto bene, ma i cittadini sanno che non è così, e si arrabbiano.
Se andiamo a vedere ciò che emerge nelle analisi sui tempi di attesa effettuate da osservatori indipendenti, come il XXII rapporto di Cittadinanza, o gli epidemiologi del Gruppo Monitoraggio per gli impatti diretti del COVID 19, o il centro di ricerca in economia
e management in sanità, scopriamo che i dati forniti dalle regioni sono per lo più falsati, perché non è stato imposto un criterio unico per l’inserimento dei dati, e ogni regione può scegliere quello che più le conviene per dimostrare il proprio rispetto dei tempi di attesa. In questo modo, oltre a non avere mai un quadro reale dell’andamento dei tempi di attesa, diventa impossibile capire dove intervenire. Tanto va sempre tutto bene.

Ma torniamo alle liste di attesa che aumentano invece che diminuire. Abbiamo in gioco questi elementi:

  • prestazioni da recuperare;
  • nuove richieste di prestazioni;
  • carenza cronica di medici negli ospedali pubblici (e questo è un aspetto che merita di essere approfondito a parte);
  • strutture accreditate che riducono l’attività in regime di accreditamento e aumentano quelle a pagamento, perché la richiesta è alta, e si guadagna di più.

La conseguenza è che chi può paga. Nel 2021 i cittadini hanno speso 2,15 miliardi di euro in più rispetto al
2019 per prestazioni sanitarie private. E non perché sia aumentato il ricorso inappropriato al consumismo sanitario. Stiamo parlando di prestazioni prescritte da
medici che i cittadini non riescono ad ottenere in tempi adeguati presso il SSN. In termini percentuali parliamo di +6%. In termini assoluti, da 34,85 miliardi di euro nel 2019 a 37 miliardi di euro nel 2021.

I tempi di attesa incongrui rispetto alla gravità e complessità del quesito diagnostico rappresentano quindi un elemento di iniquità in un sistema a vocazione universalistica, in quanto determinano un divario tra coloro che possono accedere al mercato della sanità privata e coloro che, per ragioni economico/sociali non possono ricorrere alla spesa cosiddetta out of pocket. Questi non hanno altra alternativa che attendere, o addirittura rinunciare alla diagnosi e alla cura, con compromissione del proprio stato di salute.
La funzione di tutela della salute spetta allo Stato e alle Regioni: entrambi sono vincolati alla politica del tetto di spesa, alla spending rewiew, fissata dall’art. 15 comma 14 del DL 95/2012, al consuntivo 2011.

Una normativa che considera la salute dei cittadini come un costo, invece di considerarla un investimento in termini di benessere psicofisico della comunità intera.
Occorre riportare al centro la salute dei cittadini, l’interesse della colletiività a ricevere cure efficaci, appropriate, sicure e tempestive, senza distinzioni economiche, sociali, di luogo di residenza.
Obbiettivi che solo un SSN pubblico dotato delle risorse necessarie può assicurare.

Elena Govoni

Tecnico della Prevenzione

Segretaria PRC Modena

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