Disagi e aggressioni nei PS e in Psichiatria

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Da tempo c’è sui giornali una sorta di bollettino di guerra che riporta a ritmo serrato le aggressioni ai danni del personale sanitario, soprattutto per quanto concerne i Pronto Soccorso e i luoghi della salute mentale, al centro di un’attenzione sempre più deviante dopo la morte della psichiatra Barbara Capovani, fuori dall’ospedale di Pisa, facendo ritornare in auge la barbarie dei manicomi.
Negli ultimi anni di fatti così tragici non ce n’è stato solo uno, ma nemmeno tanti, ma ritorna più forte che in passato lo stigma legato alla malattia mentale. Questo modo di vedere la salute mentale sta dilagando, si imputa quello che è successo a Pisa alla Legge 180 di Franco Basaglia. E’ un colpo assestato alla riforma psichiatrica italiana.

In riferimento alla morte della psichiatra lo chiarisce lo psichiatra Vito D’Anza, direttore del dipartimento di salute mentale dell’ospedale di Pescia (Pistoia)

“ I comportamenti violenti da parte delle persone con disturbi mentali si possono ridurre attraverso una reale applicazione della riforma della salute mentale legata alla Legge 180, tramite un approccio che non neghi l’utilizzo dei farmaci, ma si componga di tanti altri elementi, come il dialogo, l’ascolto e la creazione di un rapporto di fiducia tra curante e curato. Per far questo, però, servono le risorse, che al momento scarseggiano.
Ho visto dal giorno dopo costituirsi delle chat riservate a psichiatri e a specializzandi in psichiatria in cui il leitmotiv è, velatamente o meno, la riapertura dei manicomi, con centinaia di iscritti. Questa vicenda è drammatica, perché in un mondo ideale episodi del genere non dovrebbero succedere; nel mondo reale, tuttavia, succedono e probabilmente succederanno di nuovo in futuro. Anche quando erano in auge i manicomi e gli Ospedali psichiatrici giudiziari – Opg, fatti del genere accadevano: solitamente le persone in queste strutture finivano dopo aver commesso reati, non prima. Ora, però, c’è una fame di ritorno ai manicomi; oggi potremmo affermare che la riforma è completamente bloccata – per non dire che è fallita – agli occhi di tante persone. L’opinione pubblica va in tutt’altra direzione rispetto alla 180.
Le persone devono essere ascoltate, innanzitutto, accolte, bisogna instaurare un rapporto di fiducia tra chi sta male e chi è deputato alla cura di questa sofferenza. Invece, più si va avanti con gli anni più tutto questo viene ridotto: si mettono insieme i sintomi, si fa una diagnosi, si dà un farmaco e se in questo modo la sofferenza non diminuisce è colpa del paziente. In una situazione di questo genere gli episodi come quello accaduto a Pisa sono destinati a crescere e la risposta non è riaprire i manicomi, strutture in cui il soggetto non esiste più.”

( Intervista su vita.it del 24 aprile 2023 – Violenza in psichiatria, riaprire i manicomi non è la soluzione ) Certo, l’Osservatorio per la piena applicazione della legge 113 del 2020 sulla sicurezza degli operatori certifica che a fronte del numero crescente di episodi di violenza segnalati a danno di operatori sanitari, 60 nel 2021 e 85 nel 2022, sorvola la realtè vissuta dagli operatori che scontano sulla loro pelle le conseguenze dei tagli operati ai servizi di cui è innanzitutto vittima.

Le aggressioni scaturiscono spesso dalla mancanza di dialogo e relativa impotenza del paziente, dei familiari.

Da anni si pensa che la soluzione praticabile sia quella di militarizzare gli ospedali, di assicurare la costante presenza di vigilantes a tutela della sicurezza degli operatori.
Dissentiamo da questa militarizzazione, la riteniamo improduttiva perchè non si tratta solo di imparare tecniche di autodifesa (anche psicologiche) per disinnescare comportamenti aggressivi e scongiurare il peggio, il ragionamento da cui partire è ben altro: per restituire dignità al servizio sanitario e ai suoi operatori, il servizio deve funzionare. Se agli occhi dei cittadini la sanità pubblica, grazie anche ai social, diventa sinonimo di inefficienza, significa che negli ultimi anni poco si è fatto per trasmettere una idea positiva del servizio erogato, anzi chi gestisce a livello provinciale o regionale i servizi socio sanitari è attento piu’ alle dinamiche dei tagli e del contenimento di spesa che alla erogazione di un servizio degno di questo nome.

Se i tempi di attesa per un visita o al Pronto soccorso non vengono abbattuti, se non la smettiamo di poggiare intere cliniche sull’opera gratuita degli specializzandi, se non rinnoviamo la forza lavoro , se non aumentano gli organici, se non si investe in strutture piu’ moderne (invece di destinare fondi alla sanità privata), le conseguenze sono solo negative.

L’aggressività verso l’operatore sociosanitario fotografa il malessere dei cittadini verso la sanità pubblica che non funziona perchè anni di austerità, e talvolta di malagestione, hanno fatto si’ che il servizio pubblico perdesse credibilità ed efficienza e con essa ne pagassero le conseguenze anche lavoratori e lavoratrici costretti ad operare in continua emergenza.

Aggredire il dipendente pubblico non è solo il risultato delle fake news ma di politiche nefaste che hanno sottratto dignità, fondi e personale a servizi indispensabili. La rabbia dei cittadini andrebbe indirizzata verso gli autori di certe politiche o trasformata in movimenti sociali contro le politiche di austerità. Nel frattempo sarebbe sufficiente trasmettere una immagine reale dei problemi che affliggono la sanità rimettendo al centro dei servizi la forza lavoro, una operazione che necessita non solo di messaggi mediatici ma di assunzioni, stabilizzazioni, investimenti pubblici.

Già la pandemia ha reso assai più arrabbiate le persone, o se non proprio più aggressive. Negli articoli e nei vari dibattiti radiotelevisivi, solo raramente si accenna a quelle che possono essere le cause scatenanti tale aggressività. Ma pochi analizzano il fenomeno nelle carenze, ormai endemiche, del sistema sanitario. Solo sporadicamente si fa accenno alle ore di attesa nelle astanterie e al superlavoro del personale che perennemente sotto organico deve comunque visitare e verbalizzare ogni singolo individuo che si presenti al PS, sia per motivi seri che estremamente futili ma comunque da ascoltare causa l’assenza ormai totale di un filtro territoriale.

È interessante notare come il problema vada di pari passo con l’aziendalizzazione estremista del sistema sanitario, e come in nome della presunta efficienza e della effettiva riduzione dei costi, finisce per ridurre, solo i posti letto e blocco del turn over per il personale, con conseguenti maggiori carichi di lavoro sempre più pesanti che si ripercuotono ovviamente di più nell’attività dei Pronto Soccorso, per definizione più stressante e comunque attiva 24 ore su 24.

La scomparsa dell’assistenza territoriale, dalla quale ci si aspetta un filtro dell’emergenza con la possibilità di gestire a domicilio o in strutture ambulatoriali le piccole emergenze, riducendo così gli accessi ai Pronto Soccorso ospedalieri, soprattutto quelli non appropriati che sono ancora il 30% del totale.

Pochi sottolineano l’insorgenza di nuovi bisogni assistenziali o non soddisfatti in ambiti appropriati di presa in carico del territorio, dal progressivo invecchiamento della popolazione, dall’aumento del numero di pazienti complessi, dall’avvento di nuove tecnologie di diagnosi e cura. Tra i fattori interni quello che incide maggiormente sul progressivo aumento dei tempi di permanenza in PS è la necessità di attivare consulenze specialistiche ed accertamenti diagnostici strumentali, in particolare quelli di livello più avanzato (es. TAC). Tali elementi intervengono sempre con maggiore frequenza, sia per l’aumento dell’età media dei pazienti e delle comorbilità, sia per le evidenti necessità del sistema di dover garantire ricoveri appropriati e dimissioni sicure.

Per concludere questo breve quadro dentro il quale nasce il disagio dei cittadini e la poca sicurezza psicofisica degli operatori.

Se concordiamo che la rabbia nasce dalla poca risposta ai cittadini allora ci sembra un vero e proprio stato di confusione se non si riconosce che dovremmo avere tutti, infermieri, medici e OSS, la lungimiranza di leggere la rabbia verbale degli utenti sempre più impoveriti di diritti elementari come l’esigenza di una efficace risposta, nei tempi e nel merito, ai bisogni di ascolto, anche quelli emotivi.

Il numero maggiore delle proteste aggressive si verifica nelle strutture dove la risposta ai bisogni di cura è inadeguata e ancora peggio impedita dalla chiusura di ospedali o dal loro accorpamento, da strutture lasciate deperire fino alla fatiscentza, con poco personale e infinite liste di attesa.

Non dobbiamo cadere nella trappola della guerra tra gli ultimi, tali siamo anche noi operatori sanitari, ricordandoci che questa guerra rientra nei piani di chi da decenni debilita il S.S.N. lasciandoli lavorare in prima linea senza gratificazioni professionali, stipendiali e anche di collaborazione dirigenziale. Gli atti deprecabili hanno mandanti verso i quali dovremmo indirizzare la rabbia. Prima che la pistola Taser venga utilizzata nei pronto soccorso per ammansire i cittadini arrabbiati.

Redazione Lavoro e Salute

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