La destra di governo e l’egemonia culturale
Il governo di Giorgia Meloni, in coalizione con Lega e Forza Italia, ha cominciato subito a disegnare il perimetro del suo universo con una serie di proposte e un linguaggio particolari. Sin dall’inizio il nuovo governo si è barcamenato fra l’estremismo urlato della campagna elettorale (con la ripresa del repertorio classico e fortemente identitario della destra, «religione, patria, famiglia») e la scelta di alleanze con i partiti sovranisti europei, ma, una volta arrivato al potere, ha mostrato una posizione atlantista e un proclamato europeismo. Una miscela, insomma, di sovranismo e di adesione al modello della Ue non priva di contraddizioni, alla ricerca di equilibrio e stabilità.
Certo, lo scarto fra l’ascesa al potere e l’esercizio di esso non è nuovo alla pratica del governo. Vilfredo Pareto già alla fine dell’Ottocento analizzando la struttura e i comportamenti delle élite politiche succedutesi nella storia, distingue il momento in cui una élite compete per il potere e punta all’affermazione della propria identità (l’istinto identitario) da quello in cui, ottenuto il potere, fa posto all’istinto delle combinazioni, e cioè si apre ad acquisire valori diversi e alleanze aperte e disponibili al nuovo per esercitare e consolidare nella prassi il proprio potere.
Per fare ciò con successo occorre mettere da parte il residuo identitario che è simboleggiato dal leone, fino a far prevalere quel principio dinamico e pragmatico, “l’istinto della volpe”, entrambi questi presi da Machiavelli.
L’attuale destra al potere sembra non trovare l’equilibrio fra queste due componenti per le scelte finora fatte: ha inasprito la politica sui migranti (e non solo nella tragedia di Cutro) con precisi provvedimenti restrittivi; parla del pericolo di una “sostituzione etnica” e ancor più di una “difesa della etnia italiana” – che palesemente non esiste, essendo la nostra storia, come anche in altri paesi europei, il distillato di una mescolanza di popoli, quindi una società, potremmo dire, di meticciato; relega le donne al ruolo di procreatrici di figli, non chiedendosi quali ostacoli inducono a fare meno figli nella nostra realtà con alti tassi di disoccupazione e di lavoro precario; tuona contro orientamenti non eterosessuali, diverse religioni e così via.
In politica estera invece mostra di cavalcare un cavallo bianco: si schiera a favore dell’Ucraina e cerca di stare al passo con i più importanti “dossier” che contano nel mondo globalizzato; usa una postura tecno–populista, salvo poi a tornare al riflesso sovranista che la connota.
Questa destra di governo cerca inoltre di costruirsi una propria egemonia culturale che la possa legittimare sia rispetto all’opposizione (gli altri attori politici), sia agli occhi dei governati, per un consenso stabile, diffuso e duraturo, ora che è al potere.
È insomma, per dirlo con Gaetano Mosca, in cerca di una sua “formula politica” essenziale alla conservazione del potere.
Importante quindi riprendere il concetto gramsciano di egemonia culturale e vedere come esso sia stato ribaltato e piegato a una logica molto diversa che il maggior partito di questo governo cerca di diffondere.
Il concetto di egemonia culturale di Gramsci (e il ruolo degli intellettuali per la sua costruzione) elaborato in carcere nei primi decenni del Novecento mentre il fascismo era già al potere, è un elemento cardine per opporre un’egemonia operaia delle classi subalterne all’egemonia borghese della classe al potere in una società in cui le diseguaglianze sociali e geografiche segnavano il paese.
Gramsci, genialmente e non a caso, utilizza una categoria nuova, quella di egemonia culturale, rispetto all’ortodossia rigidamente marxiana di “dittatura del proletariato”. L’egemonia si contrappone al dominio della forza bruta, ritenendo fondamentale una cultura che fosse voce e pensiero delle classi oppresse e strumento centrale strumento di riscossa.
Gramsci sottolineava, in contrasto con altri leader del movimento operaio, che non vi è una sola democrazia, distinguendo fra «due democrazie: quella borghese e quella operaia, che si escludono a vicenda»; si batteva per costruire le condizioni di una democrazia operaia. Non erano bastate le lotte del biennio rosso a Torino e la pratica dei Consigli operai: ora occorreva costruire una diga robusta che disegnasse il perimetro di interessi e valori delle classi subalterne, che ne incarnasse pensieri ed agire.
La destra ha utilizzato nel tempo questo concetto a proprio tornaconto innalzando una cultura dell’individualismo sfrenato e del cittadino come consumatore appagato, condita da una retorica esorbitante. Una sottocultura, insomma, rozzamente assemblata, ma ammiccante, che venne promossa in Italia già negli anni ’80 e ’90 del Novecento, gli anni del reaganismo montante negli Usa e della restaurazione arcigna della Tatcher in Inghilterra, da ambienti di destra in cerca di visibilità culturale. Penso in particolare ad alcuni programmi televisivi della rete Italia 1 di Berlusconi – come Drive in o Striscia la notizia – e al ruolo di intellettuali e giornalisti come Antonio Ricci o Alfonso Signorini, che si incaricarono di esprimere lo “spirito del tempo” con una rappresentazione della realtà falsamente innovatrice e disinibita. Nella sostanza, una modernizzazione conservatrice, o peggio reazionaria.
Oggi l’operazione è più decisa e massiccia: il discorso politico di Meloni è chiaro a riguardo, essendo l’estrema destra per la prima vera volta al governo e avendo risorse e posizioni per occupare spazi ampi nel dibattito pubblico e mettere i propri uomini in posizioni strategiche (dalla Rai, alle varie Fondazioni, ai Musei importanti), realizzando sovente uno spoils system forzato e fuori misura.
Quali le conseguenze di tutto ciò in un’arena in cui la sinistra non riesce a proporre da anni una sua egemonia culturale, che significa legare una lexis, una visione delle cose, a una praxis, un agire concreto? Perché non riesce a costruire un blocco sociale democratico visibile, disposto a scommettersi con proprie proposte, idee, soluzioni?
Quali vie per uscire da questa impasse? L’egemonia culturale nell’intento di Gramsci era la “conditio sine qua non” per preparare una società autenticamente democratica in cui le classi subalterne e più disagiate potessero autorappresentarsi e proporre “un ordine sociale nuovo“, con piena cittadinanza. Oggi esistono ancora, seppur in uno scenario diverso, condizioni di forti disparità sociali nel nostro paese. Sopravvivono in una realtà mutata ma ugualmente lacerata da contraddizioni, forti diseguaglianze, bisogni da soddisfare, diritti messi in pericolo e diritti calpestati. Una folla di diritti bussano alle nostre porte e non possiamo restare silenziosi ed inerti.
Sara Gentile
31/5/2023 https://fondazionefeltrinelli.it
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