Una fabbrica di dolore e fatica: «Non è cambiato nulla rispetto al passato»
Alla vigilia dello sciopero femminista, tre operaie di grandi industrie del Mendrisotto raccontano la loro condizione di lavoratrici: abusi di potere, ineguaglianze, umiliazioni
Nelle fabbriche alle donne era vietato parlare, cantare, mangiare e lasciare il proprio posto. Che brutti tempi, allora! Già, ma oggi? Alla vigilia dello sciopero femminista del prossimo 14 giugno lo abbiamo chiesto a tre operaie, impiegate in industrie del Mendrisiotto: oggi è ancora ieri.
«Le storie delle fabbriche sono nascoste, ma siamo lo specchio della società: tutte le ineguaglianze, gli abusi di potere, i soprusi dei capi su chi sta sul gradino più basso, la violenza verbale che si fa umiliazione, la differenza di classe e di genere, qui hanno cittadinanza in maniera amplificata».
Entriamo in fabbrica con il racconto di queste tre donne per scoprire un mondo, dove il lavoro pare essere quello di resistere.
E chi se lo immagina che cosa significa lavorare in fabbrica per una donna? Del resto sono luoghi inaccessibili per il pubblico. Le commesse le osserviamo, mentre passano la merce sul rullo; con le venditrici parliamo quando chiediamo se hanno quella gonna nella nostra misura; ma le operaie?
Le operaie vengono fagocitate al mattino presto o la sera tardi dentro a capannoni anonimi, in zone industriali, e noi in auto notiamo solo le insegne. A Mendrisio, ad esempio, la Swatch o la RiRi, che produce cerniere lampo: due industrie, made in Switzerland, che esportano in tutto il mondo e sono simbolo di qualità. Una regione che schiaccia l’occhio anche a nomi dell’alta moda con la presenza di numerose industrie del settore.
Realtà importanti di cui si conoscono i successi aziendali, ma solo raramente, qualche volta, come nel caso dei coraggiosi operai della RiRi che nell’aprile del 2022 hanno incrociato le braccia contro turni massacranti, emergono le criticità subite dai lavoratori.
Noi, che l’interno delle industrie lo abbiamo visto solo nelle foto pubblicate su libri e riviste, o in qualche immagine passata al telegiornale, abbiamo chiesto a tre operaie frontaliere di farci entrare con loro nel mondo della fabbrica. Ne usciamo turbate, ma davvero si può continuare a pensare di creare ricchezza lucrando sulla vita degli altri?
Sara lavora da 20 anni nella stessa fabbrica a Mendrisio e ogni volta che varca l’ingresso dice di avere la sensazione di entrare in una prigione. Addirittura! Ma perché? «È un casermone, che ti schiaccia solo a guardarlo, ma soprattutto quando sei dentro, sai di avere perso un po’ di diritti, di tutele, di essere da quel momento esposta al pericolo di un abuso di potere nei tuoi confronti. Per un’operaia non solo è faticoso lavorare in fabbrica, ma è anche molto doloroso: devi essere forte mentalmente per resistere e difenderti, perché ti schiacciano, ti umiliano, ti denigrano».
Maria ha 19 anni quando, nel 2013, viene assunta in una camiceria del Mendrisiotto: «Sapevo a che cosa andavo incontro, mia madre è un’operaia e mi aveva avvisata: in fabbrica le lavoratrici non accettano le nuove arrivate, perché temono che siano più veloci di loro ed ero stata pure “istruita” su un’organizzazione del lavoro accelerata, surreale allo scopo di garantire la massima produzione, “costi quel che costi”, pure le vite deglle operaie. Nonostante fossi stata preparata, non ero pronta, perché non si può mai essere pronti a essere trattati senza rispetto, con aggressività, con chi cerca di svilirti, di farti perdere la fiducia in te stessa. Ho passato anni di puro inferno. Questo è il “sistema fabbrica” di gestione del personale. Una delle strategie per mantenere il controllo sulle lavoratrici è quello di umiliarle, denigrarle: venivo richiamata in continuazione con motivazioni pretestuose, senza fondamento, solo per mortificarmi davanti alle altre con una violenza verbale e psicologica (“non sai fare nulla, il tuo lavoro fa schifo”), che mi buttava a terra e mi generava un’ansia difficile da controllare».
Un disagio che la giovane donna descrive con precisione: «Stava diventando un tarlo, che nella mia mente cresceva sempre di più. Il tarlo occupava ogni istante, ogni pensiero: lavoravo e pensavo a come stavo male in quel luogo, andavo a casa e continuavo a vivere lo stress e il malessere della fabbrica, che erano riusciti a invadere ogni spazio della mia vita: ero cupa, tesa, triste, non riuscivo a dormire, a distrarmi, nella mia testa non c’era più posto per altro. Come ne ho preso consapevolezza? La svolta c’è stata un giorno quando mio figlio mi ha chiesto: “Mamma, perché sei sempre arrabbiata con me?”. È stato un tuffo al cuore».
Maria si rende conto che il suo disagio sta diventando un problema per gli affetti più vicini: «Stavo togliendo al mio bambino il diritto alla presenza di una madre serena e attenta nei confronti delle sue richieste. Ero, invece, una mamma stanca e nervosa. Ero a un bivio: difendermi. Mi sono detta: “Inferno per inferno, tanto vale difendersi, il peggio che mi può succedere è essere licenziata”. E così se prima incassavo a testa bassa le critiche gratuite e cattive, ho iniziato a esprimere la mia opinione educatamente, ma ferma, senza paura negli occhi. Il fatto di mostrare rispetto per me stessa, oltre a farmi sentire meglio, ha migliorato la situazione e non sono più stata vittima di certi attacchi».
Pure Sara ha dovuto confrontarsi con “il tarlo che divora”: «La fabbrica è una costruzione anche simbolica, che chiude la lavoratrice all’interno di un sistema che è lo specchio dei mali della società: puoi impazzire quando capisci in che razza di mondo vivi e che tu servi solo per essere sfruttata all’interno di un meccanismo che avvantaggia unicamente il padrone».
Per l’operaia la storia delle fabbriche è la storia delle ineguaglianze, degli abusi di potere, dei soprusi dei capi su chi sta su un gradino più basso; è la violenza verbale che si fa umiliazione, è l’ingiusta differenza di classe e di genere. E poi è lo «spazio dove percepisci molto fortemente l’egoismo e l’indifferenza. In fabbrica spesso hai di fronte colleghi in difficoltà, vessati da responsabili persecutori, ma la maggior parte del personale tace, fa finta di non vedere. Io sono arrabbiata con la fabbrica che ha portato le persone a non dimostrare solidarietà nei confronti degli altri. La fabbrica ti toglie la sensibilità e l’umanità, perché ti considera alla stregua di un numero e di conseguenza ci si comporta in maniera asettica».
Si fatica a crescere in fabbrica come collettivi di lavoratrici, perché si è collaudato un sistema che permette di mantenere la distanza fra operaie e padrone con «un sistema gerarchico, dove nelle posizioni intermedie sono messe persone che prima erano come te e ora si sono dimenticate di che cosa significhi. I rapporti umani sono la parte più difficile, perché in una fabbrica l’essere umano non è considerato, ma l’unico principio per cui si opera è la produttività».
Maria, anche per te il problema della produttività è molto presente? «Nella produzione ogni capo ha un tempo e non è mai quello giusto per realizzarlo, ma sempre meno del necessario. Devi fare tutto in fretta e furia per stare nei tempi e si lavora con stress. Io per attaccare una manica alla camicia ho poco più di tre minuti: ogni modello e ogni lavorazione ha un codice e il computer ti calcola quanto impieghi a farlo. In una giornata normale consegno 70 capi in 300 minuti, quando dovrei farlo in 480. La valutazione è solo su numeri e minuti che, dati per difetto, provocano un grande e costante stress per riuscire a tenere il ritmo. Se non lo tieni, naturalmente, finisci immediatamente in ufficio a renderne conto, mentre infieriscono per ogni capo che non sei riuscita a portare a termine, facendoti capire che non sei tanto “utile”: “sai quante ce ne sono fuori a fare la coda per il tuo posto”?».
La camicia e la giacca perfette che escono dalle vostre mani da sfoggiare poi nelle grandi sfilate, ma perché non vi unite per rivendicare altre condizioni di lavoro? «La produzione così come richiesta è irreale, ma c’è chi si butta come una forsennata per dimostrare che invece si può fare e gongola per quei soldini extra assegnati a chi vince il “Premio produzione”. C’è poca consapevolezza, anche tanta ignoranza, che rendono difficile trasformarsi in un team unito e coeso. In realtà, siamo già una squadra, perché io faccio una lavorazione, la mia collega un’altra e assieme creiamo il capo d’abbigliamento finale. Invece, si ragiona a livello individuale: se c’è un difetto, si rimbalza la responsabilità l’una con l’altra. Se si ragionasse a squadra, quell’indumento diventerebbe il prodotto di un team, che non è stato messo nella condizione adeguata per portare a termine la consegna secondo i parametri richiesti. Quindi, il problema non è della singola operaia, ma della cattiva organizzazione del lavoro. La direzione sa dei problemi, ma fa finta di non esserne al corrente e per separare i lavoratori, che uniti fanno paura, arrivano a creare situazioni di competizione fra le lavoratrici, come appunto i premi di produzione».
È una questione di coscienza di classe? «Ce n’è poca fra le colleghe. L’ho capito, e non me la prendo più così tanto per la loro mancanza di solidarietà anche se fa sempre male. Ho cambiato atteggiamento e mi prendo il tempo nelle pause per spiegare alle colleghe l’importanza di allearci, che se una va a reclamare da sola subisce sicuramente delle ripercussioni, mentre se lo si fa unite, si possono ottenere dei miglioramenti. Piano, piano, c’è chi capisce, ma è un lavoro lungo, dove prevale sempre la paura personale di perdere qualcosa. Manca anche una coscienza sindacale, se c’è un problema si aspettano il risultato subito, ma non è così, è un percorso che il sindacato può fare solo se ha accanto le lavoratrici, allora sì, che si possono avanzare richieste, richiedere incontri con la direzione, sapendo di non essere da sole di fronte al padrone».
Raffaella Brignoni
9/6/2023 https://www.areaonline.ch/
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