La pace non si arrende, in autunno mobilitazione globale
La Conferenza di Vienna del 10 e 11 giugno scorsi è stato il primo appuntamento internazionale promosso da un ampio coordinamento di associazioni, movimenti, reti pacifiste e nonviolente. Provenienti da quaranta paesi, nella capitale austriaca si sono ritrovati i rappresentanti di queste realtà, per ribadire la richiesta di fermare le armi per porre fine alla guerra in Ucraina. Di fronte alle migliaia e migliaia di morti, alle indicibili sofferenze delle popolazioni, alle devastazioni del territorio, è stato unanime l’appello alla comunità internazionale di investire tutte le energie possibili nel negoziato, unica strada possibile per raggiungere la pace. Un passaggio fondamentale, concluso con una dichiarazione finale con cui viene chiesto il cessate il fuoco immediato e l’avvio di negoziati basati su principi di sicurezza comune, del rispetto dei diritti umani e dell’autodeterminazione dei popoli e delle comunità. La dichiarazione è stata inviata ai leader politici di tutto il mondo, ed a Vienna è stata anche fissata una settimana di mobilitazione comune a livello planetario dal 30 settembre all’8 ottobre prossimi. A questo importante risultato hanno contribuito fattivamente le realtà italiane della coalizione “Europe for Peace”, tra gli organizzatori del vertice. Ne parliamo con Fabio Alberti, fondatore di Un ponte per, che era a Vienna come componente dell’esecutivo della Rete italiana Pace Disarmo.
Fabio Alberti, può farci un consuntivo di questa due giorni austriaca?
A Vienna la Conferenza è andata molto bene, prima di tutto per la partecipazione, visto che c’erano quattrocento delegati provenienti da quaranta paesi. Una partecipazione abbastanza consistente dal Sud del mondo, un fatto che di solito non accade in questi appuntamenti, dove a ritrovarsi sono quasi sempre i soli europei. E va segnalata la presenza di attivisti arrivati dalla Russia, dalla Bielorussia e dall’Ucraina. Una buona risposta insomma, perché c’era bisogno di allargare il più possibile la discussione. Una discussione che ha evidenziato anche approcci differenti sul grado di corresponsabilità occidentale nel conflitto. Andiamo da chi dice che è tutta colpa della Nato, e chi invece dice che è colpa di Putin ma non solo. Comunque è stato condiviso da tutti il fatto che le politiche occidentali dopo il 1989 sono state responsabili, se non della guerra, dello sviluppo di una situazione internazionale in cui la guerra si inquadra.
La presenza di delegazioni arrivate dai paesi del Sud del mondo è riuscita ad allargare e approfondire la discussione?
La loro è stata una posizione significativa, per questo è stato importante che ci fossero. Ad esempio, dalla delegata indiana al vicepresidente della Colombia ci hanno detto: “Guardate che la maggior parte dei paesi, pari al 75% della popolazione mondiale, nonostante condannino l’aggressione russa non stanno applicando le sanzioni, e stanno chiedendo a gran voce il negoziato. Siete solo voi europei a puntare sulla vittoria militare”. La spiegazione che viene data è che, nel complesso, il Sud del mondo non si fida dell’Occidente, e pensa che la guerra possa portare ad una nuova situazione di predominio, o meglio al consolidamento del predominio occidentale nord atlantico sul resto del mondo. Tutti i paesi del Sud hanno questa preoccupazione, la sintesi della delegata indiana lo spiega al meglio: “Noi proponiamo cooperazione, voi proponete competizione”.
Sembra di capire che siano due visioni inconciliabili, non trova?
Sono due strategie, due futuri possibili: da una parte una prospettiva di cooperazione e quindi di multipolarismo, dall’altra una prospettiva di dominio occidentale. Il vicepresidente colombiano, sulla stessa linea della delegata indiana, ha spiegato che è necessario farla finita con queste politiche divisorie operate dall’Occidente. Con unEuropa che non ha fatto niente dopo il 1989, non ha proposto un sistema di difesa collettiva alla Russia, e ha sostanzialmente smantellato gli accordi di Helsinki. Non sembri un paradosso, ma proprio gli attivisti statunitensi sono stati quelli che più degli altri hanno detto che è tutta colpa della Nato. A ben guardare non è così strano, perché il loro movimento della pace è composto da persone che hanno cominciato l’attivismo durante la guerra del Vietnam, e sono passati attraverso la Serbia, l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia. Verso i loro governanti hanno un occhio particolarmente critico. Naturalmente la condanna dell’invasione è stata unanime, nessuno ha detto Putin ha fatto bene, questo va sempre ripetuto.
Come è stato giudicato dagli attivisti per la pace degli altri paesi il movimento italiano?
Premesso che noi abbiamo una grande tradizione, perché nessuno ha dimenticato che nel 2003 la manifestazione più grande contro la guerra in Iraq fu a Roma, mi dai la possibilità di dire che la partecipazione italiana a Vienna è stata, oltre che numerosa visto che andava dalla Comunità di Sant’Egidio fino alla Cgil, all’Arci, alle Acli e a tante realtà nonviolente, anche molto notata. Questo perché tutta Europa guarda due cose. Per prima la capacità di mobilitazione che abbiamo avuto, e le due manifestazioni italiane sono state le più grandi, sia quella del 5 novembre che quella di marzo. Poi la capacità italiana di costruire un fronte molto largo, e questo sì è riflesso sul comunicato finale, che non si sofferma molto su analisi, giudizi e condizione storica, limitandosi a condannare la guerra. Invece si concentra sulle due principali richieste emerse: il cessate il fuoco, aprendo subito un negoziato, e la necessità di mobilitarsi su due direttrici, quella dell’appoggio alle iniziative di mediazione che stanno emergendo, non solo la Cina ma anche l’Indonesia e l’attività del brasiliano Lula, e il lancio della grande manifestazione mondiale che ci sarà tra fine settembre e inizio ottobre. Insomma il modello italiano, che è stato quello di non dividersi sulle analisi ma unirsi sugli obiettivi, è diventato un modello di riferimento.
Come è stato visto a Vienna il dibattito sull’invio o meno di armamenti all’Ucraina?
Sull’invio di armi una larga parte dei delegati è contraria, perché ribadisce la volontà dei paesi finanziatori di cercare una vittoria impossibile, e quindi prolungare la guerra in alternativa al cessare il fuoco. Del resto il motivo per cui questa guerra va avanti è quello di indebolire così tanto la Russia da non renderla più un problema nel momento in cui si dovesse affrontare la Cina. Se la guerra dura per quattro, cinque anni, a loro va bene. Fanno finta di non vederne i terribili effetti collaterali, non solo nelle zone del conflitto. Al riguardo, due delegate africane che sono intervenute hanno ricordato che la crisi alimentare in Africa provocata dalla guerra è stata tremenda, e ha significato l’impoverimento di tantissime persone.
Non sono solo loro a pagare, anche qui in Europa l’economia di guerra sta provocando veri e propri disastri sociali belle fasce più deboli delle popolazioni.
Noi europei perdiamo soprattutto l’occasione di una collocazione autonoma del nostro modello sociale a livello globale. Perché delle due l’una, se si afferma il concetto della supremazia occidentale non c’è niente da fare, il sistema economico politico sociale europeo si deve adeguare a quello statunitense. Se invece si affermasse una strategia multipolare l’Europa avrebbe molta voce in capitolo, e potrebbe anche produrre politiche diverse. L’Europa avrebbe molti interessi a giocare un ruolo diverso da quello che ha scelto di avere. Un’occasione persa dopo l’89, perché un’eventuale saldatura economico sociale tra l’Europa e la Russia, una Russia che probabilmente non sarebbe precipitata in un’autocrazia, avrebbe fatto di questo blocco economico una potenza di primo piano, che quindi poteva svolgere un ruolo a livello globale. La Germania con Angela Merkel ci ha provato…
Da Vienna è arrivata l’agenda delle mobilitazioni di inizio autunno.
Il prossimo appuntamento in Italia sarà a fine settembre, con una grande manifestazione per il cessate il fuoco. ‘Un ponte per’ ha scelto di partecipare a tutte le mobilitazioni della pace, anche nelle differenze di sensibilità. Come ha detto un ex generale degli Stati Uniti, una signora di settant’anni fra l’altro quacchera, il cessate il fuoco non vuol dire dare ragione alla Russia né consolidare i territori che ha occupato. Significa solo aprire lo spazio per una trattativa che può durare anni, però nel frattempo la gente non muore più.
Qui in Italia c’è stato un governo “tecnico” e poi ora uno di destra, entrambi convinti assertori della guerra “fino alla vittoria finale”.
Dalla crisi economica in poi, quella provocata dal disastro finanziario del 2008-09, è come non si fosse fatto più molto caso a quello che succede fuori dall’Italia. Nella prima ma anche nella seconda guerra del Golfo i supermercati venivano presi d’assalto, c’erano gli scaffali vuoti. Quando invece è scoppiata la guerra in Ucraina non è successo nulla. La gente si è abituata all’idea della guerra, pensa che è lontana e qui non arriva. Del resto questi ultimi trent’anni di guerre post 1989, dalla Serbia all’Afghanistan, dall’Iraq alla Libia, hanno abituato molti a pensare che la guerra sia una cosa normale. Se poi aggiungi l’impressionante martellamento dei media, hai un quadro piuttosto veritiero della situazione. Anche se un pezzo anche corposo della società italiana resta contrario alla guerra, al riarmo e all’invio di armamenti.
Frida Nacinovich
26/6/2023 http://www.rifondazione.it
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