Per un’ontologia della menzogna

Anticipiamo questo pamphlet di Raul Mordenti che è in via di pubblicazione cartacea.

23/8/2023 https://transform-italia.it/

È risuonata spesso in questi mesi di guerra l’affermazione di Eschilo “In guerra la verità è la prima vittima”; eppure questa frase è del tutto insufficiente per descrivere ciò in cui siamo immersi.

Questo verbo non è casuale, perché il profeta della lotta contro l’atomica Günther Anders ha spiegato che i pesci in quanto sono immersi nel mare non sentono e non possono sentire il peso del mare che è su di loro. Anzi, di più, essi sono conformati come sono proprio perché vivono all’interno del mare, e non potrebbero vivere fuori da esso. Noi siamo tutti immersi in un mare di “informazioni” (che in realtà informazioni non sono affatto: su questa parola occorrerà tornare a riflettere), diciamo che siamo immersi in un’abissale media-sfera, che è integralmente posseduta e gestita dal capitalismo, con grande impiego di mezzi e (non nascondiamocelo) anche di intelligenze. Si potrebbe obiettare che è sempre stato così, cioè che il potere ha sempre controllato l’informazione: il potere di informazione è da sempre un potere del potere.

Ma la situazione attuale è del tutto incomparabile con il passato. Se in passato, e ancora nella prima metà del XX secolo, il potere di informazione consisteva nei giornali (che pochi leggevano) e tutt’al più nelle prediche dei parroci, ora l’informazione del potere, divenuta sistema, ha una mole e una capacità pervasiva ineguagliabili.

Ogni giorno e ogni ora siamo tutti esposti e sottoposti alla radio, alle televisioni, al web, e all’intero sistema mediatico. La proprietà oligopolistica o monopolistica di questo sistema si esprime (diciamo: “in orizzontale”) nelle concentrazioni delle testate giornalistiche (un solo proprietario possiede e controlla molti fondamentali giornali, sia quotidiani che periodici) ma, fatto ben più rilevante, tale proprietà oligopolistica o monopolistica riguarda (diciamo: “in verticale”) media diversi (un solo proprietario possiede e controlla giornali, radio, televisioni, agenzie pubblicitarie, case di produzione cinematografiche, e così via).

Del tutto incomparabile con il passato è soprattutto la pervasività e l’efficacia dell’informazione: si è calcolato che l’80% degli italiani si informa di politica praticamente solo attraverso i TG, che da 8 a 10 ore al giorno delle nostre vite (specie quelle degli anziani) sono invase dall’informazione che ci raggiunge senza scampo nelle nostre case (dove il televisore acceso durante i pasti ha sostituito la centralità del tavolo da pranzo o del focolare), e perfino nelle nostre automobili e nelle metro, nei luoghi di lavoro e nei ristoranti, nelle stazioni e negli aeroporti, nei supermercati e dal barbiere e, insomma, in tutti i luoghi del consumo in cui si svolge la nostra vita. Ancora più massiccia è l’esposizione dei/delle giovani al web tramite i cellulari che li accompagnano senza limiti coi social (anch’essi posseduti e truccati dal potere assai più di quanto si percepisca e creda) occupando i loro sguardi e le loro menti e anzi trasformandoli, a loro insaputa, in produttori gratuiti di ricchezza altrui, poiché partecipano (senza neanche accorgersene) al ciclo di valorizzazione del capitale.

Sull’informazione capillarmente e continuamente veicolata dai social network, i veri media dominanti della nostra era, occorre soffermarci. Essi mantengono ancora – incredibilmente – un’aura di libertà e di autogestione dal basso, ma il contrario è vero: nessuna struttura è stata mai più centralizzata, più unilaterale, più controllabile e controllata, più monopolistica, appartenendo per intero a un unico padrone, statunitense, che non è sottoposto a nessuna regola e a nessun controllo.

Come afferma Ignacio Ramonet (nell’intervista rilasciata a Pascual Serrano il 10 agosto 2023): “il conflitto in Ucraina era una guerra locale , nel senso che il teatro delle operazioni si trovava effettivamente in un preciso territorio geografico, per il resto è stata una guerra globale, in particolare a causa delle sue conseguenze digitali, di comunicazione e mediatiche.
Su questi fronti Washington, come nell’era del maccartismo e della ‘caccia alle streghe’, ha arruolato i nuovi attori della geopolitica internazionale, cioè le mega-imprese dell’universo digitale: le GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft). Queste iper-imprese […] si sono ritirate dalla Russia e si sono volontariamente arruolate nelle guerra contro Mosca.
Questa è una novità. Fino a questo conflitto conoscevamo l’atteggiamento partigiano e militante dei grandi media che, in caso di guerra, si allineavano con uno dei belligeranti e abbandonavano ogni senso critico per impegnarsi unilateralmente e difendere gli argomenti di una sola delle potenze avversarie.

La novità è che, per la prima volta, i social media stanno facendo la stessa cosa. Il che conferma che i veri media dominanti oggi, quelli che effettivamente impongono la storia, sono i social network”.

Il controllo e l’uso dei social media consentito da GAFAM è però solo un aspetto di una nuova fase della guerra, la “guerra cognitiva”, che presenta aspetti e prospettive ancora più inquietanti perché assume come obiettivo il nostro cervello, le nostre stesse menti. Spiega ancora Ramonet nell’intervista citata: “Va aggiunto che i laboratori strategici delle grandi potenze, nel quadro della riflessione sulle nuove ‘guerre ibride’, stanno anche cercando di conquistare militarmente le nostre menti.Uno studio del 2020 su una nuova forma di ‘guerra della conoscenza’, intitolato Cognitive warfare (Guerra cognitiva), del contrammiraglio francese François du Cluzel, finanziato dall’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) afferma: ‘Mentre le azioni condotte nei cinque domìni militari (terra, mare, aria, spazio e cyber) vengono eseguite per avere un effetto sugli esseri umani, l’obiettivo della ‘guerra cognitiva’ è quello di trasformare ogni persona in un’arma’.
Gli esseri umani sono ora il dominio conteso. L’obiettivo è quello di hackerare l’individuo sfruttando le vulnerabilità del cervello umano, utilizzando le risorse più sofisticate dell’ingegneria sociale in un misto di guerra psicologica e di guerra dell’infomazione.
Quella guerra cognitiva non è solo un’azione contro ciò che pensiamo, ma anche un’azione contro il modo in cui pensiamo, il modo in cui elaboriamo le informazioni e come le trasformiamo in conoscenza. In altre parole, guerra cognitiva significa militarizzazione delle scienze del cervello. Perché questo è un attacco al nostro processore individuale, alla nostra intelligenza. Con un unico obiettivo: penetrare nella mente dell’avversario e far sì che ci obbedisca. ‘Il cervello – sottolinea il rapporto – sarà il campo di battaglia di questo ventunesimo secolo”.

E – fatto fondamentale, che dunque va ripetuto – tutto ciò fa sistema, cioè le informazioni del potere si corrispondono fra loro, si citano e si rafforzano a vicenda.
Le notizie, o le fake news, che provengono dalla rete e dai social sono riprese e amplificate da stampa e tv, e viceversa, sempre senza nessuna possibilità di verifica o di vera smentita (peraltro è ormai una regola nota che una notizia falsa, se smentita, è data due volte e circola con il doppio dell’efficacia).
Nel piccolo del nostro Paese, la manifestazione più vistosa di questo oligopolio è l’esistenza di una “compagnia di giro”, cioè di un numero ristretto e sempre uguale di opinion makers che compaiono nei talk shows televisivi, parlando di tutto esperti di nulla: ci sono direttori di giornali semiclandestini, che nessuno ha comprato mai in un’edicola o visto in giro, che partecipano al quotidiano chiacchericcio nelle tv e che, per questa via indiretta “di rimbalzo”, fanno opinione. Anche il superficiale contraddittorio o addirittura lo scontro sguaiato fra costoro fa parte dell’univocità dell’informazione: sono scontri previsti ed esibiti, che seguono un preciso rituale e servono anche ad aumentare l’audience, ma che non riguardano mai la sostanza dell’informazione, concentrandosi su dissensi marginali o addirittura personali.
Ma nessuno parla mai di ciò di cui non si può parlare, cioè delle cose importanti.
Così il campo di Auschiwtz è stata liberato dagli americani, i sovietici non hanno mai partecipato alla guerra contro Hitler (e sono dunque esclusi dalla celebrazioni di quella vittoria), a Hiroshima non è stato commesso alcun crimine contro l’umanità (meno che mai a Nagasaki), il trattato del Nord Atlantico (NATO) si può estendere, nonostante la geografia, al Giappone e alla Nuova Zelanda, un corruttore pregiudicato viene celebrato in morte come padre della Patria nel duomo di Milano, con la partecipazione del Presidente della Repubblica e di Jerry Scotti, e Ruby diventa la nipote di Mubarak (la verità di questa asserzione è stata votata dal Parlamento italiano).

Per dirla più brutalmente: siamo immersi in un mare di menzogna.

Le modalità della censura (l’occultamento e la con-formazione)

Non mette conto elencare i singoli episodi di menzogna, sarebbe come elencare le gocce d’acqua del mare, e meno che mai avrebbe senso lamentarcene (e anche perché nessuno ascolterebbe questi nostri patetici lamenti). Dire che “l’informazione sostiene la guerra” è affermazione inesatta quanto ingenua: l’informazione è parte della guerra, è un’arma impiegata per combatterla, così dire che l’informazione sostiene la guerra sarebbe come dire che una mitragliatrice sostiene la guerra: l’una e l’altra, l’informazione come la mitragliatrice, sono guerra.
Ci limiteremo a dire che è già materia di studio nelle scuole di giornalismo una prima pagina della “Stampa”, tutta occupata da una foto orrenda di cadaveri con il titolo “La carneficina”, che veniva proposta come opera dei russi (e non degli ucraini come fu nella realtà). E ormai sono più che altro da raccogliere sine ira et studio le performances di un noto, ma non autorevole, giornalista che venne definito da Glenn Greenwald (del Guardian e Premio Pulitzer) “the opposite of journalism” (“l’opposto del giornalismo“); ma quel “giornalista”, per la sua straordinaria carriera, può ben essere assunto a emblema e paradigma di tutta intera la stampa italiana (infatti costui fu già del Manifesto, della Stampa, vice-direttore del Corriere della Sera, direttore del TG1 Rai, direttore del Sole24ore, firma dell’Espresso, dell’Huffington Post e di Repubblica, nonché direttore della scuola di giornalismo della LUISS, infine è approdato alla cittadinanza USA).

Stando a casa nostra: secondo la classifica sulla libertà di stampa nel mondo, del “World Press Freedom Index”, graduatoria annuale che valuta lo stato del giornalismo e il suo grado di libertà in 180 Paesi del mondo, già nel 2009 l’Italia al 73° posto e veniva definita “paese solo parzialmente libero”, era scesa al 141° posto nel 2019 e nel 2020, mentre nel 2021 l’Italia era al 158° posto. Nel 2022, con la guerra, è scesa ancora: al 177° posto.
Non le gocce del mare della menzogna debbono interessarci ma quel mare in quanto tale e, se riusciamo a capirlo, il suo funzionamento.
Di tale funzionamento la censura è di certo una componente essenziale. Tuttavia la parola “censura” è assai debole per descrivere questa situazione, a meno di capire che la censura ha molte modalità, a cui corrispondono diversi livelli di efficacia.
Censura consiste certamente nell’occultare una informazione (chiamiamola “censura per occultamento”), come i panneggi dipinti a coprire le pudenda dei quadri o degli affreschi, o come quando i censori della Controriforma toglievano parole o pagine scottanti dal Decameron. Ma mille volte più efficaci sono le modalità della censura che definirei “censura per deformazione” o “per creazione”, come quando i censori della Controriforma (per restare ancora al Decameron) trasformavano nelle loro edizioni “purgate” Masetto da Lamporecchio in un ebreo, le monache lussuriose di un convento in donne mussulmane di un harem o frate Cipolla in un predicatore protestante, e così via (chi fosse interessato a questo peregrino tema, sappia che il Decameron della Controriforma, quello che è stato letto per due-tre secoli in Italia, adottava questa seconda forma di censura, non la prima: cfr. Mordenti 1982).

Esiste inoltre, ed è fondamentale, l’auto-censura, cioè la prudenza che in regime di censura conduce gli uomini e le donne direttamente a non dire ciò che appare loro proibito e dunque pericoloso. Così che la censura, una volta insediata, opera formidabilmente ben al di là dei suoi stretti confini.

Il massimo della censura si verifica evidentemente nella informazione di guerra (o con qualsiasi parole vogliamo sostituire l’espressione ossimorica e priva di senso “informazione di guerra”) e più precisamente nella costruzione di una narrazione, perché la narrazione è ciò che mette in ordine le cose e dà loro senso. Userei dunque, piuttosto che “informazione”, il concetto di “conformazione“, che allude alla capacità di con-formarci, di renderci conformisti. o – per meglio dire – conformati.
Naturalmente il massimo risultato della conformazione consiste nella capacità di rendere la propria deformata narrazione senso comune delle masse.
Ne abbiamo avuto in Italia un esempio clamoroso nella costruzione della narrazione anti-antifascista (“anche i partigiani però…”, “e allora le foibe?”, “la guerra l’hanno vinta gli anglo-americani”, “fascismo e comunismo sono uguali”, e così via delirando), una narrazione contro-fattuale a cui le destre hanno lavorato tenacemente per anni e che (non sufficientemente contrastata dagli antifascisti) è diventata diffuso senso comune fra le masse, oggi largamente con-formate ad essa. Analogo discorso si potrebbe fare per altre narrazioni-conformazioni che ci dominano, da quella relativa ai migranti (“cinque milioni”, venuti a sostituire la nostra nobile e purissima etnia) a quella relativa ai percettori di RdC “fannulloni sul divano” o altre similari.
Non ci inganni l’aspetto grottesco e ridicolo di queste conformazioni: esse grondano sangue.

La censura per occultamento

Certo, la censura di primo tipo, o “per occultamento” è terribile e infame, ma funziona benissimo. Non a caso essa è utilizzata largamente a proposito della guerra, giacché tutti sanno bene, a cominciare da chi promuove e governa la guerra, che qualsiasi popolo, e sempre, è contrario alla guerra. Essa dunque va occultata e se possibile non va neppure nominata (“operazione speciale”, come è obbligatorio definire in Russia la guerra in corso).
Basti dire che un autorevolissimo uomo politico italiano ha parlato della guerra in Ucraina come della “prima guerra in Europa dopo il 1945”, dimenticando (cioè occultando) le guerre nella ex Jugoslavia e i 78 giorni di bombardamenti partiti dall’Italia su Belgrado nel 1999, costati 2.550 morti civili, fra cui 89 bambini, 12.500 feriti, distruzioni e danni enormi, poi proseguiti con le leucemie legate all’uso delle bombe all’uranio impoverito; eppure costui era al tempo di quella guerra vice-Presidente del Consiglio e poi Ministro della Difesa.
Oppure, per venire all’oggi, basti pensare alle guerre attualmente in corso su cui ha richiamato l’attenzione padre Alex Zanotelli, con un appello ai giornalisti, tanto accorato quanto vano: ci sono oggi guerre (massicciamente taciute dai mass-media) in Sudan, Darfur, Somalia, Eritrea, Centrafrica, Sahel, Ciad, Mali, Libia, Congo, Etiopia, Kenya, che si aggiungono a Palestina, Siria, Kurdistan, Iraq, Afganistan, Cecenia, Niger, etc., e l’elenco è incompleto Per non dire dell’embargo (una guerra a bassa intensità, concepita per creare il massimo dolore alle popolazioni) in atto contro Cuba e il Venezuela, a cui partecipano anche l’Italia e la CE. Ci sono 166 guerre attualmente in corso nel mondo: 166.
Eppure tutte queste guerre i gruppi dirigenti italiani dovrebbero conoscerle bene, non foss’altro perché solo lo scorso anno l’Italia ha esportato armi per 14 miliardi di euro, e perché appartengono personalmente ai vertici dell’industria di armi dei politici del calibro di Violante, Minniti, Profumo, Crosetto.
È sufficiente a proposito dell’”occultamento” constatare come anche il papa ne sia vittima, e la sua voce impegnata per la pace sia praticamente scomparsa dai teleschermi, che si riempivano devotamente ogni giorno dei suoi predecessori; la stessa CEI ha usato l’espressione “spirale del silenzio” per commentare il pressoché totale silenzio dei media riservato a un milione e mezzo (!) di giovani radunato a Lisbona, ma quel silenzio si spiega bene con l’appello rivolto lì il 6 agosto da papa Francsco: “Non temete di lottare per la pace, per un mondo senza guerre!”.
Tacere, nascondere, non nominare è solo una forma dell’occultamento, particolarmente illustre e particolarmente italiana: «Sopire, troncare, padre molto reverendo; troncare, sopire» (Manzoni).

Appartiene all’occultamento di un fatto anche la capacità di rendere quel fatto del tutto incomprensibile. Ad esempio nel caso della guerra occultandone del tutto le cause politiche, storiche, economiche. Il corrispondente da Mosca della Rai è stato rimosso dal suo incarico per la colpa di aver accennato in una sua corrispondenza al fatto che la guerra in Ucraina era cominciata in effetti nel 2014, con un colpo di stato seguìto dalla ucrainizzazione forzata e sanguinosa delle regioni e delle popolazioni russofone (che aveva già fatto 14.000 morti). A tal punto la necessità prioritaria della conformazione deve prevalere e prevale su qualsiasi informazione.
Così il potere mediatico persegue l’omologazione ideologica e politica, facendo sì che “i cittadini”, come scrisse Condorcet, “non apprendano mai nulla che non sia adatto a confermarli nelle opinioni che i loro governanti vogliono suscitare in loro”.
Naturalmente rende incomprensibile un fatto anche la soppressione di qualsiasi vero dibattito su di esso, in particolare di qualsiasi contraddittorio.
L’infamante accusa di essere nemici o al soldo del nemico è sufficiente a tacitare, o rendere inascontabile, qualsiasi voce di critica alla guerra. L’autorevole esponente del “Mulino” Matteucci definì “nemici interni” i pacifisti al tempo della guerra in Iraq. Così, al tempo della Prima Guerra mondiale, fu quest’accusa a uccidere chi si opponeva alla guerra (si noti: ad opera di entrambe le due parti in conflitto), il francese Jean Jaurès fu accusato di essere al soldo dei tedeschi o la tedesca Rosa Luxemburg fu accusata di essere al soldo dei francesi. Che si potesse (e dovesse) essere semplicemente contrari alla guerra, senza per questo essere schierati con il nemico: era questa l’informazione che doveva essere occultata. Faccio notare che anche ai giorni nostri il fatto che si possa essere contro la guerra in quanto tale, senza per questo fare il tifo per uno dei due contendenti, è la posizione più censurata, rimossa e proibita che ci sia; e questo è tanto vero che questa posizione risulta difficile da capire anche per tanti/e che dicono di essere schierati contro la guerra, ma che non riescono a rinunciare a un grottesco “campismo” (peraltro il campismo sopravvive assurdamente alla fine del “campo”).
Naturalmente la storia ha dato ragione agli eroici avversari della guerra come Jaurès o Luxemburg, e oggi chiunque si vergognerebbe a sostenere quelle accuse di disfattismo e tradimento, ma i contemporanei furono “conformati” a crederle vere, con le conseguenze che sappiamo: oltre 17 milioni morti in quella Prima guerra mondiale e l’innesco della Seconda.
Non accade qualcosa di simile anche oggi, sotto in nostri occhi, con la complicità del nostro generalizzato silenzio e della nostra passività?

Per venire all’oggi e all’Italia, abbiamo assistito a un fenomeno senza precedenti negli anni della Repubblica, cioè a “liste di proscrizione” preventiva per giornalisti o intellettuali definiti “putiniani” e, insomma, al soldo del nemico. I proscritti venivano ipso facto esclusi dai media e, comunque, le loro voci rese inascoltabili e inefficaci. A chiarire l’assoluta centralità dell’aspetto mediatico della guerra, si noti che il tribunale il quale, senza processo, pronunciava la sentenza di proscrizione erano gli stessi giornali main stream del capitale, e che la pena consisteva nell’essere esclusi dal circuito della comunicazione, interamente dedicato alla totalitaria conformazione. E poco importa che alcune di queste voci provenissero da autorevolissimi militari italiani o riprendessero alla lettera posizioni analoghe sostenute dai vertici dell’ONU, da alti militari USA e da esponenti della NATO.
In effetti noi, la cosiddetta opinione pubblica, della guerra in corso (a cui pure l’Italia partecipa a pieno titolo come co-belligerante) non sappiamo nulla, se non gli spot della propaganda che ci conformano: non sappiamo le cause delle guerra (e dunque le possibilità della pace); non sappiamo se la capitale Kiev sia stata sottoposta allo stesso trattamento di Belgrado o di Bagdad e – se così fosse – non ne sappiamo i motivi; non sappiamo le vere posizioni dei contendenti sul terreno; non sappiamo quali armi siano impiegate e con quali conseguenze; soprattutto non sappiamo il vero numero dei morti e dei feriti (un dato che fino alla guerra nel Vietnam veniva aggiornato quotidianamente).
Quando i fatti sono talmente clamorosi da non poter essere celati subentra una modalità estrema di censura, che è il rovesciamento. Così (per fare solo un esempio fra i tanti possibili) la distruzione del gasdotto che portava alla Germania il gas russo è stata dai nostri organi di conformazione attribuita senz’altro… agli stessi russi, senza peraltro che la Germania (la prima danneggiata della distruzione del gasdotto) abbia trovato nulla da ridire. Analogo rovesciamento è stato operato a proposito degli atti terroristici (come l’uccisione con una bomba della figlia dell’ideologo putiniano Dugin) e del lancio di droni esplosivi sulle città russe: i russi (almeno così ci hanno unanimemente conformato) questi crimini se li sono fatti da soli, essendo oltre che perfidi aggressori anche masochisti.
Superfluo ricordare che non sappiamo praticamente nulla del dissenso verso la guerra presente in Ucraina (anche per lo scioglimento dei partiti e l’incarcerazione degli oppositori e dei pacifisti), e a mala pena sappiamo che in Russia un intellettuale importante come Kagarlitsky, colpevole di criticare la guerra, è stato condannato per “terrorismo”.
C’è inoltre qui un circolo vizioso che segnalo. Chi dovrebbe denunciare questo stato di cose vergognoso sarebbe la stampa, ma se la stampa è interamente asservita e conformata chi può denunciare l’asservimento e la conformazione della stampa?
Il giornalista Julian Assange, è atteso da 175 anni di carcere negli USA e viene fatto morire in Gran Bretagna di una terribile morte lenta per aver fatto il suo mestiere di giornalista, cioè pubblicare notizie vere, e questo avviene nella più totale indifferenza dei suoi colleghi e dei mass media. Forse la sua colpa più grave è aver dichiarato: “Se le guerre possono essere avviate dalle bugie, le stesse possono essere fermate dalla verità”.
Così, per paradosso, la guerra è al tempo stesso occultata e, in quanto resa del tutto incomprensibile, naturalizzata, cioè presentata come un inspiegabile e inevitabile fatto di natura, quasi fosse un terremoto. E ai terremoti non ha senso opporsi.

La censura per creazione (e narrazione)

Tuttavia la vergogna della “censura per occultamento”, nelle sue varie forme, non deve farci trascurare il ruolo centrale che nel caso della guerra ha svolto e svolge la censura “di secondo tipo”, quella che usa la creazione e la narrazione ai fini della conformazione.
Ora accade che la conformazione a favore della guerra per svolgere il suo compito si trovi di fronte a problemi effettivamente assai complessi e impervii.
Nessuna delle due parti in guerra può ricorrere per giustificarla agli argomenti del diritto internazionale (peraltro da sempre debolissimi agli occhi delle masse). Nessun diritto internazionale legittima una invasione come quella russa e – dall’altro lato – sono troppi e troppo ingombranti gli scheletri (purtroppo non metaforici) nell’armadio dell’Occidente per poter ricorrere a motivazioni di diritto: come si può condannare l’intervento armato russo in difesa del diritto di secessione della Crimea e del Donbass dopo aver fatto una guerra per garantire il diritto di secessione del Kosovo? E come affermare l’inviolabilità dei confini e il diritto dei popoli all’autonomia mentre si sostiene l’occupazione illegale e la politica di apartheid di Israele in Palestina e la feroce repressione della nazione kurda ad opera della Turchia, la seconda potenza militare della NATO? Si può negare il diritto della Russia a non vedere installati missili NATO a 30 secondi da Mosca quando per rispettare il diritto degli USA a non vedere installati missili sovietici a Cuba si è rischiata la guerra nucleare nel 1962?
La coerenza e la reciprocità, che devono caratterizzare – per loro natura – gli argomenti di tipo etico, sono invece senz’altro soppresse dalla conformazione di guerra.
Neppure si può ricorrere in questo caso all’argomento consueto del “supremo interesse nazionale” a cui sacrificare la pace, perché dal punto di vista geo-politico è fin troppo evidente che questa guerra rappresenta (almeno per l’Italia e l’Europa) l’esatto contrario dell’interesse nazionale.
La guerra in corso infatti comporta: (a) una spesa assai ingente e sempre crescente per gli armamenti (il 2% del PIL, come richiesto già da Trump e ora ottenuto da Biden), e questo in società come la nostra che già vivono la crisi drammatica del welfare e un aumento spaventoso della miseria; (b) le armi che l’Europa paga sono prodotte perlopiù negli USA, e pagate agli USA, contribuendo così a risolvere la crisi economica di sovraproduzione degli USA (il warfare di cui parla Chomsky), e forse per questo autorevoli dirigenti statunitensi hanno dichiarato che la guerra deve essere “più lunga e sanguinosa che sia possibile”. Questo non solo al fine di impantanare per anni la Russia in “un nuovo Afganistan”, ma anche perché sono queste guerre “lunghe” quelle che le industrie d’armi preferiscono, “guerre sulla cui sicura pluriennale durata si possa contare”, come il Vietnam, che fu “occasione di produrre e di consumare il triplo delle bombe impiegate durante tutta la seconda guerra mondiale” (Anders); (c) la rinuncia all’import/export con la Russia, da sempre vantaggioso per le nazioni europee, e in particolare la rinuncia alle economiche fonti energetiche russe, da sostituire con quelle americane più costose e di peggiore qualità; (d) deriva da questo anche un incremento dei costi di produzione per le industrie europee che le penalizza a fronte delle concorrenti statunitensi: la crisi economica europea e la partecipazione subalterna dell’Europa alla guerra sono una cosa sola; (e) la rinuncia a qualsivoglia margine di autonomia (o dignità) nazionale, dato che tutto è stato sussunto sotto il comando della NATO, cioè degli USA, a cui il recente vertice di Vilnius ha affidato perfino le decisioni relative all’eventuale scatenamento della guerra atomica, che si svolgerebbe comunque in Europa, avendo per bersagli prioritari le basi NATO (di cui l’Italia, con ben 120 strutture, detiene il non invidiabile record).
Comunque, questo il punto assolutamente decisivo su cui dovremo tornare, la guerra atomica (cioè la fine del mondo ad opera dell’uomo) ora non è più esclusa in via di principio.
Anche l’argomento usato in altre guerre recenti, quello che consiste nel loro carattere “umanitario” o (con tragico rovesciamento dei fatti) di peacekeeping, cioè di mantenimento della pace, risulta in questo caso difficilmente utilizzabile. Furono presentate come “umanitarie” le due guerre in Iraq (1991 Bush sr. e 2003 Bush jr.), quella ultraventennale in Afganistan, quelle che hanno distrutto la Somalia, la Libia, la Siria, etc.. Diversi anni dopo e, soprattutto, dopo diverse centinaia di migliaia, forse milioni di morti (furono 700.000 solo in Iraq), quell’argomento “umanitario” risulta logorato e forse spuntato dall’eccessivo uso, francamente indicibile.

La narrazione a sostegno della guerra

La conformazione a sostegno della guerra, non potendo ricorrere a nessuno di questi argomenti – diciamo così – tradizionali (la guerra in nome del diritto, la guerra in difesa dell’interesse nazionale, la guerra peacekeeping umanitaria), deve dunque ricorrere alla forma più potente di censura che abbiamo definito di “secondo tipo”, cioè quella creativa e fatta di narrazione.
Allora si è fatto ricorso a quella che possiamo definire la narrazione fondamentale delle nostre società, la guerra contro il nazifascismo del 1939-1945, assunta come prototipo della guerra necessaria anzi giusta e lodevole. Faccio notare che la medesima narrazione, cioè l’assunzione a modello del medesimo evento, la guerra contro Hitler, è fatta propria da entrambi le parti in conflitto. Anche la cosiddetta reductio ad Hitlerum è stata largamente usata nel recente passato: erano, di volta in volta, “nuovi Hitler” Saddam Hussein e Milosevic, Osama Bin Laden e Gheddafi, e ora Putin, insomma tutti coloro a cui l’Occidente decideva di muovere guerra e al cui carattere diabolico dovevamo essere conformati.
Fra persone ragionevoli e per bene (non conformate) non ci sarebbe bisogno di sprecare troppe parole per dire che il paragone con Hitler è falso e del tutto insostenibile: il nazismo fu un progetto di dominio assoluto sul mondo con motivazioni razziste, un progetto che era stato apertamente dichiarato e che anzi era in corso di realizzazione. Lo stava mettendo concretamente in atto la più forte potenza del tempo, sostenuta dai formidabili apparati dell’industria e dell’esercito della Germania, il più poderoso blocco capitalista e imperialista del tempo. Nessuna di queste caratteristiche appartiene oggi all’Ucraina di Zelensky o alla Russia di Putin, e il fatto che sia stato possibile affermare che occorreva fermare la Russia in Ucraina per evitare che essa si estendesse fino al…Portogallo (sic!) dice solo quanto sia possibile per la conformazione scendere in basso e quanta poca stima essa dimostri per l’intelligenza del suo pubblico.
Senza dire che alla oltraggiosa identificazione della guerra in corso con la Resistenza antifascista si opponevano altri – chiamiamoli eufemisticamente così – “particolari” francamente non trascurabili.
Sul versante della Russia è davvero difficile definire antifascista l’”eurasiatismo”, l’ideologia di Aleksandr Dugin, il vero ispiratore di Putin. L’eurasiatismo coniuga il “tradizionalismo integrale” (gli autori della “nuova destra” sospetti di fascismo, come il francese René Guénon e l’italiano Julius Evola, che Dugin traduce e pubblica) con il pensiero di Martin Heidegger e con costitutivi elementi di esoterismo apocalittico. La sua opposizione all’Occidente, “degenerato” perché liberale e protestante, è dunque in nome di una Russia bianca e ortodossa, elevata a baluardo della “tradizione”, la rappresentante più genuina della spiritualità slavo-ariana fusa con il neo-paganesimo tradizionale. La Siberia sarebbe rimasta il “cuore immacolato” dell’Eurasia, il centro di irradiazione nel mondo degli Ariani (neanche a dirlo: caratterizzati da capelli biondi e occhi azzurri). Dunque non solo tale opposizione all’Occidente non ha nulla a che fare con il marxismo, internazionalista e multietnico, ma per molti aspetti è il suo contrario, esprimendosi in programmi come il rifiuto della democrazia e della lotta di classe, la difesa del patriarcato, la lotta alla modernità, al femminismo e alle libertà (anzitutto quelle sessuali dei movimenti LGBTQ+). Non per caso l’ideologia di Dugin ha trovato apprezzamenti e contatti diretti con la destra razzista italiana, dalla Lega di Salvini a Fratelli d’Italia di Meloni, mentre colpiscono le analogie con le posizioni della destra cattolica ferocemente avversa a papa Bergoglio (l’ultratradizionalista arcivescovo Carlo Maria Viganò, si schierò con Putin all’inizio della guerra in Ucraina).

“A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che ‘ogni straniero è nemico’. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager.” (Se questo è un uomo)

Ancora più evidenti le “difficoltà” (chiamiamole ancora con un eufemismo così) a definire antinazista l’Ucraina di Zelensky, data la forte presenza di elementi esplicitamente nazisti nel Governo e nell’esercito ucraino. Quanto alla società ucraina, già nel 2019 l’americana ed ebraica Anti-Defamation League denunciava come il 46% degli ucraini si dichiarasse apertamente antisemita (erano “solo” il 32% quattro anni prima), e come la “liberazione” della gloriosa Ucraina dai russi e dagli ebrei figurasse nei programmi, e nei comizi, dei partiti di Governo. Viene celebrato come padre e simbolo della patria ucraina il collaborazionista filonazista Bandera, responsabile di stermini e di progrom antisemiti. Ha affermato la direttrice dell’Istituto ucraino del libro Oleksandra Koval: “Più di 100 milioni di copie di libri di propaganda, compresi i classici russi, devono essere ritirati dalle biblioteche pubbliche”. Secondo costei furono poeti e scrittori russi come Pushkin e Dostoevskij a gettare le basi del mondo russo: “È una letteratura molto dannosa, può davvero influenzare le opinioni delle persone. Pertanto questi libri dovrebbero essere rimossi anche dalle biblioteche pubbliche e scolastiche”. (Cfr. https://www.peacelink.it/conflitti/a/49186.html). Chissà se quei libri pericolosissimi sono stati anche bruciati? Peraltro di analoghi vergognosi provvedimenti di guerra alla cultura sono stati fatti oggetto anche in Italia i seminari universitari sui libri di Dostoevskij o l’esecuzione di musiche di Ciajkovskij.
Tutto ciò non si deve dire, non si deve sapere, perché contrasta con la narrazione dominante di un’Ucraina democratica aggredita dalla totalitaria Russia e che dunque deve essere difesa, in nome dell’antifascismo, dalle nostre “democrazie” (Polonia e Ungheria in testa).
Le foto di militari dell’esercito ucraino con la bandiera nazista, con i ritratti di Hitler, con simboli nazi sulle divise o addirittura tatuati sul corpo non sono stati mandate in onda nelle nostre Tv né pubblicate dai nostri grandi organi di conformazione. Personalmente (forse per mia distrazione) ho visto solo nel web, non nei grandi media, i filmati di prigionieri legati, prima picchiati e poi a terra colpiti con colpi di arma da fuoco al ventre, prodromo di una terribile agonia. O le immagini – forse ancora più agghiaccianti – di prigionieri legati al palo con un specie di nastro adesivo, poi schiaffeggiati, denudati dalla vita in giù, e lasciati così, non sappiamo per quanto tempo né a quali temperature. Forse neppure i nazisti, quelli del vero Hitler, si erano comportati così coi prigionieri di guerra.
Voglio anche io pronunciare il mio conformato “Io non sono con Putin, però…”: se ricordo queste cose non è per sostenere la bontà dei russi che sarebbe garantita dalla ferocia degli ucraini, credo infatti che anche i russi in guerra abbiano commesso e commettano altrettante infamie. Ricordare queste cose serve solo a dire che la guerra in quanto tale è un orrore, e che in guerra non ci sono ragioni di parte che possano giustificarla, non ci sono “i buoni” per cui fare il tifo contro “i cattivi”, non ci sono i cow boys contro gli indiani.
D’altronde l’ideologia della “guerra giusta” è apparsa ben presente in grande parte della intellettualità europea e italiana. Un fatto su cui riflettere: questo non ha riguardato solo personaggi esplicitamente e notoriamente arruolati dalla NATO, che non mette conto neppure nominare, ma anche intellettuali rispettabili. In particolare molti sostenitori della “guerra giusta” sono da annoverare fra democratici, liberali, ex-socialisti, transfughi e reduci del Partito comunista etc. Ricordo che anche nel caso delle guerre in Iraq, quando si manifestò nel mondo un’amplissima opposizione alla guerra (si percepiva che quella guerra, la prima dopo la fine dell’URSS, era una guerra costituente, che affermava il dominio unilaterale degli USA sul mondo), proprio nell’area cosiddetta laica si era manifestato lo zoccolo più duro dell’interventismo, con alcune punte apertamente belliciste e militariste, al punto che Ernesto Balducci, nel 1991, parlò a questo proposito di «disavventure della cultura laica». Sono diretti eredi di quella cultura gli attuali “interventisti democratici” che hanno invocato senz’altro la no fly zone, cioè l’abbattimento degli aerei russi da parte della NATO, cioè in pratica la guerra atomica (sia consentito il rinvio alla polemica di chi scrive verso la rivista Micromega di Paolo Flores d’Arcais: https://fb.watch/dcwxs3IAcJ/).
Peraltro l’esistenza di un accanito “interventismo democratico” (chiamiamolo così) non rappresenta una novità per l’Italia. Anche in occasione della Prima Guerra mondiale si manifestò l’interventismo dei Salvemini e dei Bissolati, che scesero in campo per la guerra a fianco dei D’Annunzio, dei Corradini e dei Federzoni, nazionalisti pre-fascisti.
Col senno di poi della storia, risulta oggi evidente che i nazionalisti vedevano lucidamente che la guerra avrebbe realizzato il loro obiettivo, cioè la fine dell’Italia liberale (la disprezzata “Italietta” giolittiana), e che non altrettanto lungimiranti si dimostrarono gli interventisti democratici à la Salvemini: le conseguenze per la libertà italiana sono ben note (per non dire dei 651.000 militari italiani caduti e dei 589.000 morti civili, il 3,8% della popolazione italiana del tempo).
Anche l’interventismo salveminiano era motivato dall’adesione ai nobili principi, allora contro le autocrazie degli imperi centrali e a sostegno di Francia e Inghilterra, considerate democrazie. Era per Salvemini una “guerra giusta” una guerra dei e per i valori. E non era estranea all’”interventismo democratico” (di ieri e di oggi) una forte vena di laicismo anti-clericale, in opposizione alle tendenze pacifiste espresse dalla Chiesa cattolica (nel ’15-’18 da papa Benedetto XV, oggi da papa Francesco).

Richiamo l’attenzione sul fatto che nelle argomentazioni degli “interventisti democratici” e atlantici ricorre lo strano tema del carattere “asiatico” della Russia, evocando l’antica, infame ma efficace, narrazione anticomunista della Chiesa di papa Pacelli (ricordate? i cosacchi che avrebbero abbeverato i loro cavalli alle fontane di piazza S. Pietro). Una compagnia, quella di papa Pacelli, certamente imbarazzante che sarebbe respinta con sdegno dai nostri “interventisti democratici” laici e liberali. E tuttavia il rifiuto di ogni idea di pluricentrismo politico-culturale dell’umanità associata, l’ossessivo eurocentrismo (oggi, se si può dire così: “NATO-centrismo”) dominatore e “bianco”, l’assolutizzazione dei “valori dell’Occidente” assunti senz’altro come superiori, anzi unici ed esclusivi da imporre ad ogni costo, fanno di questa ideologia di guerra “democratica” il pendant simmetrico dell’”eurasiatismo” reazionario di Dugin (e dell’estrema destra cattolica di monsignor Viganò) che abbiamo poc’anzi considerato. Le somiglianze fra queste posizioni opposte sono fin troppo evidenti: esse hanno in comune la convinzione che le diversità del mondo, invece di costituire una meravigliosa ricchezza da gestire nella fratellanza e nella pace, rappresentino invece una jattura intollerabile, da risolvere con la guerra. Fuori del proprio campo, fuori dell’Occidente per i nostri interventisti liberal, esiste solo assoluto disvalore e barbarie, così che la guerra, anzi la guerra giusta, diventa come il colonialismo l’ennesimo “fardello dell’uomo bianco”.
Come si spiega questo fatto, che potrebbe sorprendere in chi si proclama, e per certi aspetti effettivamente è, erede dell’Illuminismo, degli immortali principi di Liberté, Égalité, Fraternité?
Forse ci può aiutare a capire il mistero dell’”interventismo democratico” il vecchio Marx, cioè l’uso di categorie di classe: esistono le classi ed esiste la lotta di classe. La borghesia è in guerra, si sente in guerra, e vi partecipa convintamente. La borghesia, la classe che, legata al capitalismo, ha dominato per due secoli e domina ancora il mondo, avverte oggi la sua crisi irreversibile, e – come tutte le classi al tramonto – pensa di dover giocare la carta estrema, quella della guerra (deriva da qui, sia detto en passant, la terribile pericolosità della situazione storica attuale). Direi che non è un caso se in Francia, la nazione borghese per eccellenza, la guerra sembri trovare il massimo dei consensi, che coinvolge anche settori della sinistra di opposizione e perfino della Sinistra Europea. Per non dire dei Verdi che in tutta Europa (a cominciare dalla Germania) sono schierati entusiasticamente per la guerra, sospendendo per un attimo la loro raffinata sensibilità ecologica quando si tratta delle spaventose devastazioni ambientali comportate dalla guerra. Per costoro le devastazioni, le mine, le bombe, comprese quelle “a grappolo” e quelle all’uranio impoverito, rappresentano un inquinamento buono: ne vale la pena.
Il fatto è che questa è la guerra della borghesia, e più precisamente la guerra dell’Occidente, l’Occidente capitalistico, liberista e “bianco”, che combatte la propria lotta finale stretto attorno alla sua guida armata statunitense.
E quando si è in guerra non si scherza più, il resto non conta, a cominciare dalla democrazia, dai sacri dettami della Costituzione (l’art.11: “L’Italia ripudia la guerra come mezzo di soluzione delle controversie internazionali…”) e dalla libertà di stampa. Tutto ciò è soppresso senz’altro dalle prevalenti necessità della conformazione.
Per questo, se la prima vittima della guerra è la verità, la seconda è certamente la democrazia.

La guerra come disvelamento

Se questo è vero, allora il noto aforisma eschileo da cui siamo partiti (“In guerra la verità è la prima vittima”) si rivela insufficiente e forse deve essere rovesciato, perché la guerra mostra la nuda verità delle cose per quanto orrenda essa sia; in quanto apocalisse (la parola deriva dal greco apo-kálypsis (ἀποκάλυψις), che significa levare ciò che copre, dunque, letteralmente scoperta o disvelamento, rivelazione) la guerra toglie il velo.
Questo spiega perché per molti (e anche per chi scrive) la guerra abbia comportato anche la fine di amicizie pluridecennali e perché (per fare un solo esempio meno personale) un quotidiano del capitale che per decenni ha rappresentato anche (troppo) un punto di riferimento politico-culturale della sinistra non si possa più leggere oggi senza disgusto e vergogna. È cambiato quel quotidiano, oppure è solo cambiato il nostro sguardo reso ora più acuto dall’apocalisse?
Eppure tutto era già chiaro, squadernato sotto i nostri occhi, almeno a partire dalle “guerre costituenti” contro l’Iraq del 1991. Se ne accorse, più lucidamente di tutti, Alberto Asor Rosa scrivendo Fuori dall’Occidente. Ovvero ragionamento sull’apocalissi. Come uscire dall’apparente mortifero “trionfo dell’Occidente”? È possibile farlo? Lo scenario che Asor Rosa descrive è davvero quello di una nuova Apocalissi.

“Il ‘nuovo ordine’ sarà tempestoso e terribile. È completamente sbagliato pensare che l’Unum imperium, unus rex fondi un principio di pace. L’unicità essenziale del potere su scala mondiale è destinata, al contrario, a sconvolgere tutti i già fragili equilibri del mondo. Il mondo si separerà e si contrapporrà sempre di più, sostituendo ai principî universali la difesa dell’identità di ciascuno contro quelle di tutti gli altri. […] E l’Occidente triumphans, se lo si guarda più da vicino, ha sul volto un colorito che assomiglia di molto al pallore del rigor mortis. È un caso che in questo straordinario, trionfante mondo imperiale tutte le forme di pensiero siano in decadenza? Che non ci siano più né letteratura né arti né filosofia né pensiero giuridico né riflessione religiosa, e che persino il cuore del sistema, – l’economia, – non alimenti un pensiero capace di guidare gli avvenimenti invece di limitarsi a seguirli? […] Scorreranno fiumi di sangue, non si avrà pietà per nessuno. La guerra […] sarà un elemento fondamentale e continuo, pre-supposto, del nuovo ordine.”

Come sia possibile uscire dalla prospettiva catastrofica del capitalismo trionfante, è un problema che esula, evidentemente, dai limiti i queste pagine e di chi le scrive. Basti qui dire che se la crisi è con ogni evidenza di sistema, se il sistema stesso (cioè il capitalismo globale dominato dall’Occidente) si rivela essere catastrofico per l’umanità associata, allora è da questo sistema che occorrerà fuoruscire. Si può dire che sono tutte in questa necessità le ragioni del comunismo, cioè del tentativo degli uomini e delle donne di fuoruscire dal capitalismo.
Nulla toglie all’attualità, anzi alla necessità, di una tale prospettiva il fatto che noi attualmente non sappiamo quasi nulla del come realizzarla, e che non siamo neanche in grado di identificare (e meno ancora di unire e organizzare) i mille e mille soggetti collettivi che trovano intollerabile il capitalismo e che sono chiamati a realizzare un giorno tale rivoluzionaria fuoruscita.
Comunque è questo un altro disvelamento, certo non il meno importante, che la guerra porta con sé.
E resta il fatto che cercare di capire e spiegarsi come stanno effettivamente le cose rappresenta di per sé l’inizio di qualsiasi possibile rivoluzione.

Quale è la cosa che occorre nascondere ad ogni costo?

La forza (o se, si preferisce: la violenza) di tale narrazione di guerra e della censura è proporzionale all’importanza della cosa che si deve nascondere. Quanto più una menzogna è grande, tanto più essa deve essere gridata forte. Ma che cosa deve essere occultato e mascherato, nascosto?
La cosa che si deve occultare ad ogni costo è la guerra atomica, cioè la fine della presenza degli uomini e delle donne sulla terra, né più né meno.
A me sembra che il problema oggi non è più se la guerra atomica sia probabile o solo possibile; il problema oggi è se la guerra atomica sia, oppure no, evitabile, e molti dati testimoniano purtroppo per l’ipotesi peggiore.
Esiste in questa guerra un fatto decisivo da cui deve partire ogni ragionamento: il carattere atomico dei due contendenti. (che sono, con ogni evidenza la Russia e la NATO, a cui l’Ucraina fornisce solo corpi da fare ammazzare e un presidente-attore da mandare in televisione). Questo fatto cambia davvero tutto perché si coniuga con la logica della escalation che caratterizza da sempre ogni guerra.
Nelle guerre pre-atomiche (chiamiamole così) la logica di escalation, insita nella guerra, portava ad innalzare sempre più il livello dello scontro fino a che una delle parti era, e si dichiarava, sconfitta. Ora questo non è più possibile, per nessuno, né per la Russia né per gli USA-NATO e per la loro carne da macello ucraina.
Che significa questo? Significa che se una delle due parti è sconfitta a un livello A (diciamo: il corpo a corpo o i carri armati), poi passa a un livello di guerra B (diciamo i missili a corta gittata o i bombardamenti), se risulta sconfitta a questo livello B passa necessariamente a un livello ulteriore C (diciamo i missili a lunga gittata o gli aerei e i droni che colpiscano la Russia o l’Europa), e così via. Ma alla fine, se una delle due parti risultasse sconfitta al livello più alto (e peggiore) della guerra convenzionale, ecco allora che essa passerebbe necessariamente al livello ulteriore e ultimo, quello dell’atomica, di cui non caso si parla apertamente senza che essa sia più un tabù. Le atomiche cosiddette “tattiche”, sono rivendicate anche da Zelensky nel suo programma (“Riacquisizione di armamenti nucleari tattici”, si legge in quel programma, che ha al primo punto “Adesione alla NATO“). Ma la parola “tattiche” riferita alle atomiche è un miserabile eufemismo che serve, ancora una volta, a occultare la terribile verità della cosa, dato che tali atomiche comunque hanno una potenza dieci volte superiore a quella di Hiroshima. D’altra parte sia Zelensky, sia il capo della NATO Stoltenberg (che conta ben di più), e perfino – per quel che conta – Mario Draghi, hanno garantito che lo scopo irrinunciabile della guerra, l’unico che potrebbe porvi fine, è la sconfitta della Russia, fino alla “liberazione” della Crimea, una regione da sempre russa che sembra aver votato con oltre il 90% per la riunificazione con la Russia.
Come si può non vedere questa logica ferrea e inevitabile, insita nella guerra e l’esito, altrettanto inevitabile, dell’escalation in atto? Si può davvero immaginare Putin che dice “Beh, ho perso; adesso magari mi uccido” o “Muoio di cancro” (o altre similari balle che i nostri organi di conformazione non hanno mancato di diffondere, come sempre in coro), oppure si può davvero immaginare Sleep-Joe Biden che ammette di aver fatto un massacro inutile, rinunciando al dominio USA sul mondo intero a cui esplicitamente aspira (come il recente vertice NATO ha dimostrato)? Nessuna di queste due cose può accadere.
E allora se la guerra continua la catastrofe atomica non è solo possibile ma è altamente probabile, anzi purtroppo è l’unico esito razionalmente prevedibile.

Le vere radici della menzogna: la guerra atomica c’è ma non può essere pensata

Perché mai l’umanità associata non si solleva subito, unita e allarmata, contro la situazione in cui i sopravvissuti invidierebbero i morti, per impedire questa prospettiva catastrofica che si avvicina ogni giorno di più? Anders ci ha spiegato (da maestro della pace e da profeta) la nostra difficoltà a pensare la guerra atomica: la sproporzione che oggi si verifica non è più fra ciò che pensiamo e ciò che facciamo o sappiamo fare (era lo spazio delle utopie) ma, al contrario, è fra ciò che facciamo o abbiamo fatto e ciò che riusciamo a pensare.
Proprio parlando dell’Ucraina e della distruzione integrale degli ebrei ucraini, Vasilij Grossman ha spiegato come sappiamo commuoverci o indignarci per l’uccisione di un uomo, e forse ancora di più per l’uccisione di dieci persone, e potremmo anche essere mossi a lottare contro questi crimini; ma l’uccisione di 100.000 o di un milione di persone (bambini, donne e vecchi compresi) non ci turba più di tanto, in fondo ci lascia indifferenti, perché non riusciamo a immaginarcela.          Meno che mai ci turba, perché non riusciamo a immaginarcela, la distruzione di tutti/e. Non siamo in grado di immaginare la distruzione totale dell’umanità, che pure siamo in grado di compiere nei fatti e che anzi stiamo compiendo già in questo momento.
È un difetto di fantasia che perderà l’umanità.
Distruzione totale significa infatti non solo uccidere tutti gli uomini e le donne presenti sulla faccia del globo (il presente) ma anche tutti quelli che sarebbero potuti venire (il futuro) e ancora tutti quelli che ci sono stati (il passato). Come Benjamin ci ricordava: “neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se questo vince. E questo nenmico non ha smesso di vincere” (Sul concetto di storia, p. 27).

Con la distruzione atomica anche i morti, coloro che sono stati, saranno cancellati come tutto assieme alle loro opere dalla storia e dal ricordo, e diventeranno così coloro che non sono mai esistiti.
D’altra parte, la garanzia del rifiuto della guerra atomica non può venire dai responsabili politici e militari, da chi tiene il bottone apocalittico a disposizione del suo dito. E questo per molti motivi (l’ignoranza, l’idiozia, l’odio nazionalista e razzista, il sempre possibile errore umano, il sempre possibile impazzimento di un dottor Stranamore, etc.), ma fra questi motivi ne spiccano due.
Primo motivo. Vige nel capitalismo reale una regola irrefragabile: poiché la merci dominano il mondo, una merce prodotta deve essere consumata, cioè utilizzata, affinché la divinità produzione/consumo possa proseguire la sua vita, l’unica vita che conti veramente. Questa regola, l’abbiamo visto, vale anche per le armi talmente criminali da essere dichiarate illegali (come le “bombe a grappolo”, fatte per sterminare civili innocenti e pronte a esplodere per decenni, proibite dalla Convenzione ONU di Dublino del 2008): poiché sono state prodotte, allora esse debbono essere consumate, cioè utilizzate, affinché i produttori di armi possano liberare i loro magazzini e trarre profitto da merci altrimenti, imperdonabilmente, invendute.
Secondo motivo. Siamo tutti nipotini di Eichmann che rivendicava la sua irresponsabilità. Nel sistema di produzione capitalistico, il lavoratore non può e non deve controllare ciò che produce, non lo decide a monte e ignora, a valle, quale uso possa essere fatto del prodotto del suo lavoro, che peraltro è solo un segmento di un insieme che sfugge del tutto a chi lavora. Ancora più radicale è tale esproprio del controllo quando il lavoro umano si riduce al semplice gesto di azionare un dispositivo. Dunque giudicare il carattere morale, o immorale, dei diversi segmenti in cui è frammentato il lavoro, non appartiene in alcun modo a chi tali lavori esegue, non lo riguarda. Delle conseguenze del nostro lavoro ridotto a capitale siamo totalmente irresponsabili. E tutto ciò è mille volte più vero se si tratta di lavori legati alla guerra, in cui vengono chiamati in causa il patriottismo, la disciplina, il segreto.

Chi ha sganciato la bomba atomica su Hiroshima o su Nagasaki poteva non avvertirne la responsabilità morale, come tanti partecipanti al genocidio che hanno proclamato la propria irresponsabilità (si noti: non la propria innocenza) rivendicando il loro non sapere/non potere. Naturalmente le cose dal punto di vista etico non stanno affatto così: anche un granello di sabbia può danneggiare e fermare la macchina della morte, e anche un “no, io non ci sto” può servire a metterle in crisi: la Resistenza è stato l’insieme di questi tanti, piccoli, eroici “no”. Tuttavia Robert Oppenheimer rappresenta un’eccezione, e non si deve dimenticare che per la sua obiezione morale alla guerra egli, nonostante la sua grandezza scientifica e la sua fama, fu accanitamente perseguitato in vita dalle autorità statunitensi (in prima fila J. Edgar Hoover, direttore dell’FBI e il senatore repubblicano Joseph McCarthy). Ricordo che centocinquantacinque scienziati atomici del “progetto Manhattan”, guidati da Leò Szilàrd, avevano perfino proposto di limitarsi a una dimostrazione ai giapponesi della immensa potenza della bomba, senza fare vittime. Non sappiamo quali prezzi abbiano pagato tanti oppositori della guerra atomica meno grandi e meno famosi di Oppenheimer, e neppure sappiamo i loro nomi. Sappiamo che non fu affatto un nipotino di Eichmann Claude Eatherly, il pilota americano che sganciò la bomba su Hiroshima, il quale visse il resto della sua vita sconvolto dal senso di colpa e dal pentimento, fra manicomio e carcere, tentando due volte il suicidio.

Per restare al nostro tema della informazione/conformazione di guerra, dobbiamo ricordare che fa parte integrante del crimine di Hiroshima la narrazione che su di essa è stata impiantata e diffusa, durando praticamente incontrastata fino ai nostri giorni. Non solo il numero dei morti di Hiroshima di cui si parla di solito (da 100.000 a 200.000) è meno della metà di quello effettivo, da raddoppiare ulteriormente con i morti di Nagasaki, ma soprattutto è falso che l’atomica abbia risparmiato vite umane (sic!) perché fu ciò che costrinse alla resa il Giappone. La resa del Giappone era già scontata, dopo la resa della Germania, la distruzione completa della flotta giapponese, la mancanza totale di carburanti e materiali per la guerra e l’invasione sovietica della Manciuria. E comunque dopo Hiroshima non si giustifica in alcun modo la seconda bomba su Nagasaki.
A conferma del fatto che non c’è un nesso diretto fra atomiche e resa del Giappone, c’è il fatto che dopo la seconda bomba su Nagasaki (9 agosto ’45) gli americani effettuarono ancora i più estesi e devastanti bombardamenti sul Giappone di tutta la guerra: più di 400 B-29 attaccarono il Giappone durante la giornata del 14 agosto e più di 300 nella notte seguente. In totale 1.014 velivoli furono impiegati in quei bombardamenti ben cinque giorni dopo la bomba su Nagasaki. Comunque fu solo dopo questi bombardamenti, il 15 agosto, che Hiro Hito pronunciò il suo discorso che equivaleva alla resa, duqnue l’uso dell’atomica dunque non fu risolutiva per la resa giapponese, che fu firmata solo il 2 settembre, quasi un mese dopo il 6 agosto 1945, il giorno di Hiroshima.
Gli storici che hanno potuto esaminare i documenti desecretati affermano altresì che il governo giapponese era pronto ad arrendersi circa un mese prima che fosse sganciata la bomba su Hiroshima e Nagasaki, e che il vero destinatario politico delle due bombe fosse l’Unione Sovietica, il nuovo nemico del dopoguerra, a cui Truman voleva dimostrare subito la schiacciante superiorità militare americana. Credo che avesse ragione il Segretario Generale dell’ONU U Thant a dire che la bomba non sarebbe mai stata utilizzata se si fosse trattato di uccidere in massa dei bianchi e non degli asiatici.
Ancora a proposito di narrazione degli orrori, va ricordato che analogo trattamento di occultamento fu riservato ad Auschwitz, l’altro (assieme a Hiroshima) crimine fondativo dell’Occidente (post-)contemporaneo: anche i nazisti dedicarono particolare cura prima a nascondere, anche costruendo false narrazioni e falsi filmati, l’esistenza dei campi di sterminio, e poi a cancellarne le prove. “Se anche qualcuno di voi sopravvivesse – dicevano gli aguzzini come testimonia Primo Levi –, nessuno vi crederebbe”.

Il capitalismo semiotico e la pubblicità

Si determina così una contraddizione drammatica di cui non si vede soluzione possibile: proprio nel momento in cui le sarebbe necessario sapere per sopravvivere, l’umanità viene tenuta all’oscuro dell’essenziale, cioè non sa niente, totalmente immersa nell’epoca che Ramonet chiama della “post-verità”.
Tutto ciò sembrerebbe contraddire il fatto che la nostra società si presenta invece come la “società della conoscenza”, in cui le informazioni (ma ormai lo sappiamo: si tratta spesso di conformazioni) ci circondano e ci pervadono in quantità inaudita e anzi totalitaria (il “totalitarismo morbido”). Al contrario: la situazione di generalizzato non sapere/non potere delle masse che stiamo cercando di descrivere è il portato diretto e inevitabile del capitalismo contemporaneo, che si può definire capitalismo semiotico. Questo capitalismo ha al suo centro la comunicazione, non la conoscenza.
Si intende qui “comunicazione” nel senso filosofico forte che ha dato alla parola Mario Perniola: “La comunicazione è l’opposto della conoscenza. È nemica delle idee perché le è essenziale dissolvere tutti i contenuti. (…) La comunicazione si sottrae a ogni determinazione come fosse la peste. Aspira a essere contemporaneamente una cosa, il suo contrario e tutto ciò che sta in mezzo tra i due opposti. È quindi totalitaria in una misura molto maggiore del totalitarismo politico tradizionale (…) lo scopo della comunicazione è favorire l’annullamento di ogni certezza e prendere atto di una trasformazione antropologica che ha mutato il pubblico in una specie di tabula rasa estremamente sensibile e ricettiva ma incapace di trattenere ciò che è scritto su di essa oltre il momento della ricezione e della trasmissione. Paradossalmente il pubblico della comunicazione è tutto coscienza che trasmette e riceve qui e ora, ma senza memoria e senza inconscio. Ciò consente ai potenti di poter fare e disfare secondo il tornaconto momentaneo senza essere legati ad alcunché.” (Perniola 2004, pp. 9, 108).
La comunicazione, e più precisamente quella sua modalità particolarmente aggressiva che è la pubblicità, rappresenta effettivamente il pilastro indispensabile (anche se a mio avviso argilloso: ma di questo converrà ragionare altrove) del capitalismo semiotico della nostra epoca, il capitalismo globale e finanziario (vitalmente intrecciato alla criminalità) che residua dopo i processi di de-industrializzazione e la rottura di ogni patto socialdemocratico fra capitale e lavoro.

Il trionfante capitalismo contemporaneo non può più espandersi organicamente nell’allargamento della base produttiva e, meno che mai, nell’aumento del monte-salari (giacché esso vive di salari decrescenti e forza-lavoro numericamente sempre più ridotta), allora per evitare (o rimandare) la crisi di sovra-produzione o sottoconsumo che lo porterà alla tomba è assolutamente costretto ad affidarsi al sovra-consumo coatto indotto dalla pubblicità. In altre parole: è solo l’ossessivo sovra-consumo improduttivo di massa a cui la pubblicità ci costringe ciò che continuamente rinvia la crisi catastrofica del capitalismo.
Dunque nulla di aristocratico o di vetero-umanistico nella nostra critica alla pubblicità: al contrario essa è mossa dalla constatazione che c’è la durezza assolutamente ‘strutturale’ di questo capitalismo dietro l’apparente Helzapoppin dell’immaginario pubblicitario (ed è per questo che non ci si libererà della pubblicità se non liberandosi del capitalismo).
La pubblicità è dunque la nuova Dea: essa funziona, tramite le quantificazioni dell’auditel, da criterio di valore (peraltro l’unico valore ormai vigente) dei prodotti ininterrottamente proposti dai media, realizzando un meccanismo di rovesciamento che realizza pienamente il vaticinio del primo libro del Capitale a proposito del feticismo delle merci: un giornale o un programma radio-televisivo non viene affatto prodotto per essere venduto al pubblico bensì è prodotto per vendere alle aziende pubblicitarie inserzioniste il pubblico stesso, cioè tutti noi. Il pubblico, da soggetto (per quanto passivo) del meccanismo di compra-vendita, diviene in tal modo definitivamente il suo oggetto, chi-compra (o meglio: chi-deve-comprare) diviene così ciò-che-si-compra, e che viene in effetti venduto alle imprese dagli inserzionisti pubblicitari. Infatti è appunto la vendita di una tale specialissima merce, il pubblico, che determina il valore degli spazi pubblicitari che finanziano i mass media apparentemente gratuiti e consentono i profitti dei loro possessori.
Le conseguenze di questo rovesciamento (che sembra restare, incredibilmente, inavvertito dalla politica) sono politicamente decisive: “Una volta che abbiamo consegnato i nostri sensi e i nostri sistemi nervosi alla manipolazione di coloro che cercano di trarne profitti prendendo in affitto i nostri occhi, le orecchie e i nervi, in realtà non abbiamo più diritti. Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre. (Mc Luhan, sottolineatura nostra, N.d.R.)”.
Da notare che i due esempi che Mc Luhan citava a suo tempo (all’inizio degli anni Sessanta) come esiti del tutto paradossali e quasi assurdi (fare profitti col linguaggio e privatizzare l’atmosfera) appartengono invece, come è noto, al dibattito economico-politico contemporaneo e sono oggi di strettissima attualità.
Se avessimo ancora bisogno di una conferma del carattere centrale della Dea pubblicità basterebbe riflettere che in occasione dell’agonia, della morte e del funerale di papa Wojtyla, furono soppressi i programmi televisivi di varietà, poi addirittura fu interrotta la campagna elettorale per le elezioni regionali (e proprio nell’ultimo giorno prima del voto, quello decisivo e dedicato ai comizi ‘di chiusura’), infine furono sospese tutte le attività sportive e perfino del campionato di calcio (naturalmente la serie programmi di varietà-democrazia-campionato di calcio configura un crescendo di importanza). Ebbene, a nessuno è venuto in mente di sospendere, o interrompere, anche la pubblicità dai nostri teleschermi, e anche le più commosse telecronache da piazza S. Pietro sulla vita e la figura del papa morente sono stati interrotte dagli spot pubblicitari per indurre all’acquisto delle merendine e dei deodoranti.
Insisto sul fatto: non si tratta solo di non aver sospeso la pubblicità, si tratta soprattutto di aver considerato del tutto normale ed ovvio che tale sospensione non ci fosse e non ci potesse essere, e che nessuno l’abbia né pensata né proposta. E ancora più significativo il fatto che a nessuno sia parsa cosa strana o criticabile una tale eccezione. Dove lo sport e perfino l’esercizio della democrazia sono stati considerati passibili di sospensione o soppressione, solo il flusso comunicativo della pubblicità veniva considerato per sua natura assolutamente inarrestabile e indiscutibile.
La Dea pubblicità è ovunque e sempre, ci accompagna nelle nostre vite e le pervade, riempie le nostre case e le nostre città, dai manifesti alle stesse facciate dei palazzi, dagli autobus alle magliette dei calciatori, detta i modi, le forme e i ritmi dell’assordante concerto mediatico, essa è dentro, e non solo intorno, la stessa produzione culturale contemporanea, rappresentandone al tempo stesso il contesto sociale di fruizione e il principio costruttivo, cioè l’anima (o almeno lo scheletro, se essa, come pare, non possiede anima alcuna).

La fine, e la proibizione, della critica

Ora, la pubblicità è l’esatto contrario della critica e, ancora più precisamente, rappresenta una modalità di discorso che non tollera, né può tollerare, alcuna critica.
Il celebre schema di Jakobson (cfr. Tavola 1) riassume gli elementi presenti sempre in ogni comunicazione linguistica (un Mittente, un Destinatario, un Messaggio fra loro, che presuppone un Contatto, un Contesto della comunicazione e, infine, un Codice che organizza il messaggio).
A questi elementi corrispondono altrettante ‘funzioni’, le quali dominano e segnano diverse tipologie discorsive; possiamo notare che le due funzioni ‘conativa’ (che concentra l’attenzione sul Destinatario) e ‘metalinguistica’ (quella che riguarda il Codice) possono essere fatte corrispondere rispettivamente alla pubblicità e alla critica. La prima (la funzione conativa) appartiene infatti alla pubblicità come ad ogni comunicazione pragmaticamente orientata alla persuasione del destinatario, la seconda (la funzione metalinguistica) è caratteristica invece dell’attività che riflette sul codice stesso, su come il messaggio è organizzato e funziona, e dunque è alla base della riflessione critica e di ogni critica.

I fattori della comunicazione linguistica, le funzioni del linguaggio di Jakobson, e le corrispondenti tipologie discorsive

Contatto/Canale
Fàtica
(“Pronto?”, logo dei canali sullo schermo televisivo, etc.)
MittenteMessaggioDestinatario
Emotiva
(Lirica, diario, confessioni, etc.)
Poetica
(Letterarietà, non solo poesia)
Conativa
(Retorica, pubblicità)
Codice
Metalinguistica
(Critica)
Contesto
Referenziale
(Réportage giornalistico)

Legenda: In tondo fattori della comunicazione; in neretto le corrispondenti funzioni del linguaggio; in; in corsivo (fra parentesi) una esemplificazione possibile delle tipologie discorsive dominate da ciascuna funzione.

Ebbene, queste due funzioni (quella conativa e quella metalinguistica) sono non solo opposte ma (ciò che più conta) si trovano logicamente ed operativamente in un rapporto di reciproca esclusione. Dove c’è l’una (la persuasione pubblicitaria) non c’è e non può esserci l’altra (la critica), e viceversa. D’altronde se fosse attivata la funzione critica chi potrebbe mai credere che il Mulino Bianco sia sinonimo di natura, o che delle creme possano far ringiovanire o dei profumi sedurre?
Neanche a dirlo questo nuovo assetto sconvolge completamente il circuito moderno (in particolare otto-novecentesco) di produzione e distribuzione del libro, il quale si fondava sulla catena funzionale casa editrice-recensione-libreria-biblioteca. Era questo un assetto in cui la critica (e, in particolare, la critica letteraria) era implicata come momento cruciale di regolazione e anche di validazione qualitativa, dato che un libro ‘brutto’ era, per ipotesi, respinto a monte dal critico-consulente editoriale (di cui tutte le case editrici degne di questo nome si giovavano), oppure era stroncato a valle dal critico-recensore, magari su una terza pagina (un’istituzione attualmente, non per caso, pressoché scomparsa). Tale circuito è oggi completamente distrutto e anzi reso insensato, sostituito dalla libreria-supermercato in cui si vendono pressoché soltanto i libri-immagine pubblicizzati dai programmi televisivi, i libri assurdamente tratti da film o da programmi televisivi di successo, oppure quelli scritti in prima persona dai discutibili gestori di quegli stessi eventi mediatici (absit iniuria…: dai brunivespa), con un terribile effetto-specchio moltiplicatore, che essi chiamano ‘sinergia’: si legge (o meglio: si compra) solo il libro che si è visto in televisione, e si mostra in televisione solo il libro che si deve far comprare. Lo stesso vale per la produzione artistica contemporanea, dove la valutazione del critico e dell’esperto è stata del tutto soppiantata dalle interessate esternazioni di personaggi legati ai media (e ai mercanti).
D’altra parte, come è noto, non si va in televisione perché si è importanti o famosi uomini di cultura, ma si è importanti e famosi uomini di cultura perché si va in televisione.
Tutto ciò è certo fondamentale, ma il punto davvero decisivo è che la Dea determina una nuova sensibilità di massa, un nuovo approccio del pubblico, una diversa fruizione dei prodotti culturali, nuove modalità percettive e, come si è visto, perfino una nuova antropologia.
La Dea ha inoltre risvolti cruciali nella psicologia di massa: la pubblicità si alimenta infatti dallo spaccio di ciò che gli psicologi chiamano ‘scenari facilitanti’, e questa circostanza decisiva accomuna la pubblicità alla droga e gli oggetti della pubblicità, i consumatori addetti al consumo coattivo di massa, agli assuntori di droghe.
Di queste nuove modalità di percezione, ma dunque anche di pensiero, lo zapping televisivo rappresenta il simbolo e il cuore, ed esso va inteso (esattamente come i video-giochi dei nostri ragazzi) anche e soprattutto in quanto potentissimo meccanismo auto-addestrativo delle menti e dei corpi. Lo zapping costituisce, in apparenza, un cambiamento assolutamente potente (perché istantaneo, immotivato, illimitato, gratuito) ma al tempo stesso si tratta di un cambiamento assolutamente inutile; la sua stessa reiterazione continua è, a ben vedere, segno della sua effettiva impotenza. Ne descrive l’ossessività Italo Calvino in un suo breve illuminante racconto in cui il personaggio protagonista cambia continuamente canale, sempre angosciato dall’idea che su un altro canale possa svolgersi proprio in quel momento, a sua insaputa, la trasmissione di un messaggio fondamentale che egli rischia di perdere per sempre; ma ogni volta, su qualsiasi canale egli si sintonizzi, trova le medesime insensatezze. Lo zapping è infatti in realtà una libera scelta fra l’identico (un tipo di scelta di cui mi permetto di segnalare l’impressionante somiglianza con il voto nei sistemi elettorali maggioritari uninominali).

Non si può trascurare il fatto che molti registi di qualità (da Fellini a Woody Allen) e molti grandi scrittori hanno partecipato e partecipano in prima persona alla produzione di testi pubblicitari (stranamente mi sembra che questo non sia oggetto di riflessione: una rimozione autentica). Né si tratta di richiamare l’attenzione su fenomeni-limite, significativi ma ancora marginali, come gli inserti pubblicitari all’interno dei libri o le interruzioni pubblicitarie inserite all’interno delle stesse telefonate private. E nemmeno si tratta solo di notare che già oggi i libri vendutissimi delle serie ‘rosa’ (cfr. Rak 1999) non ignorano nella loro stessa composizione scritturale le modalità caratteristiche della produzione di serie (la catena di montaggio), così come i seguitissimi serial televisivi (il genere-principe della nuova narrativa, quello specificamente televisivo, cioè non più debitore del cinema) sono scritti prevedendo già nella sceneggiatura la loro interruzione pubblicitaria, ciò che determina la loro peculiare struttura narrativa, fatta di interruzioni e di riprese, di lentissimo avanzare della vicenda e di reiterati riassunti intradiegetici affidati ai personaggi stessi. Non per caso sono stati gli sceneggiatori hollywoodiani di serial a protestare per primi per l’invasione dell’Intelligenza Artificiale nel campo della scrittura dei testi.
Per non dire dell’influenza devastante che il primato della pubblicità ha avuto ed ha per la nostra politica e per la democrazia. Noi italiani dovremmo saperne qualcosa. Uno studioso autorevolissimo, George Steiner, non certo sospettabile di essere comunista, ha scritto: “in Europa è in trionfale ascesa un fascismo del denaro, del filisteismo e dei media. Per tutto questo in Italia c’è un’espressione: il berlusconismo.”
Così, per la seconda volta in meno di un secolo, dalla periferica Italia proverrebbe all’Europa e al mondo intero una categoria politico-culturale di portata e significato universali: dagli anni Venti del Novecento il fascismo, dai nostri anni il ‘berlusconismo’ che si è esteso ben al di là dei confini nazionali (si pensi a Bolsonaro, a Trump, etc.). Naturalmente è da sottolineare, con tristezza per un italiano, che l’Italia ha fornito al mondo non solo la leggerezza della parola nuova, ma anche la pesantezza della cosa. Sarebbe il più ingenuo degli errori ridurre il berlusconismo alla persona di Silvio Berlusconi e alla sua vicenda politica; come accade per ogni seria malattia, anche il berlusconismo precedeva chi gli ha dato il nome e gli sopravviverà, avendo determinato una vera e propria corruzione antropologica del nostro Paese, che va bel al di là dei confini della destra e coinvolge pressoché integralmente anche la “sinistra”.

Non è questa la sede per discutere sul fatto che l’eroe eponimo del berlusconismo dopo essere “disceso” (come egli stesso amava dire) nel campo della politica, non abbia affatto abbandonato (ma semmai rafforzato ed incrementato) il suo essere proprietario di tre reti televisive (oltre che controllore politico della Rai), della più possente centrale di raccolta e gestione della pubblicità (Publitalia), di una casa di produzione cinematografica e di una catena pressoché monopolistica di sale, di un impero editoriale che annovera quotidiani e settimanali a larga diffusione, oltre a case editrici come la Einaudi e la Mondadori.
Il punto da notare è un altro, e cioè che la cultura è effettivamente il vero centro dell’assetto di potere di cui parliamo, giacché è cultura, ad ogni effetto, la comunicazione pubblicitaria, di cui il Nostro è stato dominus incontrastato e sulla cui base ha fondato il proprio impero, economico prima e politico poi.
Dunque, per quanto ciò possa apparire strano, o addirittura ripugnante per qualcuno di noi, nell’epoca degli ossimori, berlusconismo e cultura vanno declinati insieme.

Così Horkheimer e Adorno descrivono (in Dialettica dell’illuminismo) i nuovi prodotti artistici dell’industria culturale: “sono fatti in modo che la loro apprensione adeguata esige bensì prontezza d’intuito, doti di osservazione, competenza specifica, ma anche di evitare addirittura l’attività mentale dello spettatore, se questi non vuol perdere i fatti che gli passano rapidamente davanti. (p.137)”
Queste parole, scritte nel 1947, descrivono con tale precisione la fruizione culturale contemporanea dominata dalla pubblicità da confermare l’affermazione di Benjamin secondo cui a ogni epoca compare (magari nei suoi incubi) l’epoca seguente: “Nel sogno in cui, ad ogni epoca, appare in immagini la seguente…” (Benjamin 1982, p. 7).
La velocità (sempre crescente e tuttavia sempre insufficiente) è l’ambiente naturale del mondo delle immagini, e la riflessione lenta, così intrinseca alla contemplazione e così caratteristica della fruizione estetica tradizionale, è dunque ora del tutto soppressa, sostituita da una sorta di riflesso meccanico e simultaneo; il tal modo scompare il chiaro-scuro della complessità e della problematicità, si sopprime ogni distanza e si perseguita, come ridicola, ogni volontà e capacità di distinzione e approfondimento, ogni dubbio.
Non per caso nel nuovo e decisivo campo dei social-media i nostri giovani hanno già abbandonato Facebook (considerato ormai roba da millennials, cioè da vecchi) colpevole di prevedere ancora le parole, e si dedicano a nuovi social che escludono di fatto le parole e consistono solo di immagini. Superfluo dire che il dominio della Dea pubblicità vive anche in tutti i social e lo fa anzi in una forma più profonda e ingannevole, perché, attraverso la sistematica profilazione consentita dall’informatica, non solo fa dei fruitori i target per pubblicità mirate ad personam ma li trasforma (a loro insaputa) in gratuiti produttori di reddito.
Naturalmente anche la lingua è direttamente investita da questo processo e ne rivela anzi l’autentica natura devastante: la mia generazione è forse l’ultima che usa un tempo, il passato remoto, ormai soppresso (e sostituito con l’”eterno presente”) come, più in generale, è soppressa la stratificazione complessa dei tempi verbali e dunque la consecutio (che è stata tormento dei nostri licei ma vanto della nostra lingua). E si cancella non solo dai temi scolastici delle nuove generazioni ma (ciò che è più grave) dalle loro menti il modo congiuntivo (il modo della possibilità, dell’eventualità, ma anche della connessione casuale ipotetica e aperta, del “se…allora…”, del “benché…tuttavia…”). Vengono così disarticolati irreparabilmente i modi densi del raccontare, e non per caso il sinfonico romanzo (che assieme all’orchestra e alla fabbrica rappresenta la vera gloria della modernità borghese) sembra essere condannato a morte per primo da questa temperie culturale e sociale, sostituito soltanto dal raccontare semplicissimo e senza sviluppo, eternamente reiterato ed immobile delle telenovelas.
Prevale, incontrastabile, anche nella fruizione dei fatti culturali un meccanismo rapido di “presentificazione” (Vattimo), una totale e continuamente rinnovata disponibilità a stimoli diversi ed eterogenei, le cui omologie con le nuove forme di lavoro flessibile, telematico (e precario) sono del tutto evidenti.

Cosa è la verità nel mondo ridotto a immagini?

Siamo di fronte a una contraddizione drammatica di cui non si vede soluzione possibile: proprio nel momento in cui sarebbe necessario sapere per sopravvivere, l’umanità viene tenuta all’oscuro dell’essenziale, cioè non sa niente.
Peraltro credo si possa dire che nessuna classe mai ha saputo meno dell’attuale piccola-borghesia (o piuttosto lumpen-borghesia) che, dopo la distruzione sistematica di ogni identità classista del proletariato, rappresenta la stragrande maggioranza delle nostre società. Questa classe/non classe è del tutto esclusa dalla cultura “alta” che fu della borghesia ma ha anche perduto del tutto il complesso dei saperi, parziali ma veri, che provenivano agli operai e ai contadini dal loro lavoro e dalle tradizioni ad esso legate. Si potrebbe dire che la Dea pubblicità, la quale in quanto Dea è capace di creazione, abbia creato anche la classe perfetta per poter esercitare nel modo migliore il suo dominio, per dirla con le citate parole di Perniola, una “tabula rasa estremamente sensibile” e ricettiva ma del tutto incapace di autonomo giudizio.
Tuttavia (di nuovo Anders ci insegna) l’impossibilità di sapere/potere a cui l’umanità è condannata ha radici ben più profonde, e allude alla situazione generale delle nostre società dominate dalla tecnica e – come abbiamo visto – in particolare dai mass media, dalla pubblicità e dalle immagini.
Siamo ancora di fronte alla domanda di Ponzio Pilato: «Che cos’è la verità?» (Gv 18, 37-38) . Che cosa è infatti la verità, e cosa il suo contrario, la menzogna? E, soprattutto, è ancora possibile questa domanda nell’era della post-verità?
Per secoli l’Occidente ha pensato la verità fosse “dire gli enti come sono” (Platone, Cratilo 385b), cioè come una corrispondenza fra una rappresentazione linguistica, o concettuale, e la realtà delle cose; verità è adaequatio rei et intellectus, («corrispondenza tra cosa e intelletto»), secondo Tommaso d’Aquino, e secondo tanti altri prima di lui, risalendo fino a Isacco Ben Salomon, ad Avicenna e ad Aristotele. Nella modernità la corrispondenza fra proposizioni e cose, considerando tanto più forte una verità se essa può essere verificata logicamente o sperimentalmente, è stata affermata (in forme diverse) anche dal razionalismo, fino alla filosofia analitica contemporanea. Naturalmente per res si devono intendere anche le umane idee e il loro mondo.
Ma non è forse proprio la res, l’esistenza autonoma e irriducibile della realtà, ciò che il nostro mondo mette radicalmente in discussione? Il dominio della tecnica si compie nella fantasmagoria delle immagini in cui siamo totalmente immersi. Questo processo reale è seguìto, come un cane fedele, dalle filosofie del post-moderno.

È questo il macroscopico e globale fatto che implica la fine della umana storia (non certo le distopiche affermazioni del sociologo americano Francis Fukujama sulla “fine della storia” dopo il crollo dell’URSS). La storia, questa meravigliosa costruzione di presente-passato-futuro fatta dall’umanità associata al tempo del mondo dei fatti e delle cose, non può più esistere nel mondo delle immagini e della “iconocrazia”, giacché gli uomini e le donne non sono più né soggetti né protagonisti di nulla. La soggettività degli uomini e delle donne in quanto creatori di storia presuppone il loro essere collettivo, e – lo sappiamo – l’essere collettivo è il più proibito dei gesti in società che hanno elevato l’assoluto individualismo a dogma e legge. La tecnica, anzi la tecnologia, è il solo nuovo soggetto, e la sua evoluzione è la pallida parvenza a cui si riduce ciò che era la storia.
D’altronde, al contrario di quanto si crede, la storia non è sempre esistita: è sempre esistito il variare del giorno e della notte e il succedersi delle stagioni, ma la storia è (è stata) un’altra cosa, e come non è sempre esistita così non c’è motivo di credere che essa debba esistere per sempre.
Il mondo ridotto alle immagini non possiede d’altronde né tempo né spazio, perché non consente alcuna nostra collocazione soggettivante nel tempo e nello spazio. Il primo, il tempo, già destituito dalla velocità istantanea degli scambi, è ridotto all’ “eterno presente” del capitalismo realizzato; il secondo, lo spazio, diventa attraverso le immagini dei mass media un ingannevole ovunque, che naturalmente significa nessun luogo.
Le immagini sono fantasmi, e il fantasma (dal greco φαντάζω phantàzo, “mostro”, “appaio”) si caratterizza appunto per il suo rapporto debole, o inesistente, con la realtà delle cose. Se anche un fantasma fosse “vero” la sua verità sarebbe quella di un fantasma e non quella della persona che rappresenta. Lo stesso vale, evidentemente, per le immagini. Allora quale mai può essere lo statuto della verità in un mondo di immagini-fantasmi? Solo formulare una tale domanda è cosa ridicola e priva di senso.
Così nel mondo ridotto a immagini viene mancare in radice ogni progetto di umana ricerca e verifica della verità, in cui consisteva, a ben vedere, anche la parziale quanto preziosa libertà concessa agli umani.      Quella che viene soppressa, nel mondo ridotto a immagini, è infatti anzitutto l’umanissima dialettica tra il potersi distanziare dalla datità del mondo nel conoscere (θεωρεῖν) e il potevi tornare, compensando l’alterità dell’uomo dal mondo, mediante le attività del fare (la πρᾶξις).
Soppressa l’umana ricerca della verità nella libertà di conoscere e fare, quello che resta è la “volontà di potenza” degli uomini e delle classi dominanti, quello che resta è la guerra.
Ecco perché la menzogna è più di una possibilità o un destino: essa è una modalità dell’essere, quella che domina questo nostro tempo finale.

Nell’ultimo libro, che precede di poco la sua morte, Primo Levi si pone, e ci pone, una domanda cruciale, che di certo tante volte era stata stupidamente posta a lui e ai sopravvissuti dal lager: “Perché non siete scappati ‘prima”. Prima che le frontiere si chiudessero, prima che la trappola scattasse? […] l’uomo minacciato provvede, resiste o fugge, ma molte minacce di allora, che oggi ci sembrano evidenti, a quel tempo erano velate dall’incredulità voluta, dalla rimozione, dalle verità consolatorie generosamente scambiate ed autocatalitiche.
Qui sorge la domanda d’obbligo una contro-domanda: quanto sicuri viviamo noi, uomini della fine del secolo e del millennio? e, più in particolare, noi europei? Ci è stato detto, e non c’è motivo di dubitarne, che per ogni essere umano del pianeta è accantonata una quantità di esplosivo nucleare pari a tre o quattro tonnellate di tritolo; se se ne usasse anche solo l’uno per cento, si avrebbero decine di morti subito, e danni genetici spaventosi per tutta la specie umana, anzi, per tutta la vita sulla terra, ad eccezione forse degli insetti. È almeno probabile, inoltre, che una terza guerra generalizzata, anche convenzionale, anche parziale, si combatterebbe sul nostro territorio, fra l’Atlantico e gli Urali, fra il Mediterraneo e l’Artico. La minaccia è diversa da quella degli anni ’30: meno vicina ma più vasta; legata, secondo alcuni, ad un demonismo della Storia, nuovo, ancora indecifrabile, ma slegata (finora) dal demonismo umano. È puntata contro tutti, e quindi particolarmente ‘inutile’.
Allora? Le paure di oggi sono meno o più fondate di quelle di ieri? (…) perché non partiamo, perché non lasciamo il nostro paese, perché non fuggiamo ‘prima’?” (I sommersi e i salvati, pp. 135-136).

Riferimenti bibliografici

Per non appesantire inutilmente la lettura (e soprattutto, lo confesso, la scrittura) queste pagine non presentano il consueto apparato accademico di note. Fornisco solo qui, in modo sommario, alcuni riferimenti ai libri da cui ho tratto più spunti e idee.

Il pensiero di Günther Anders rappresenta l’ispirazione fondamentale di queste mie pagine; nell’impossibilità di citare tutto analiticamente, mi limito a rimandare a:
Günther Anders, L’uomo è antiquato, I. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Traduzione di Laura Dellapiccola, Torino, Bollati Boringhieri, 2021;
Id., L’uomo è antiquato, II. Sulla distruzione della vita nellepoca della terza rivoluzione industriale, Traduzione di Maria Adelaide Mori, Torino, Bollati Boringhieri, 2022.
Id., Tesi sull’età atomica, Viterbo, edizioni del Centro di ricerca per la pace, 1991.
Una ricca e utile bibliografia relativa a Günther Anders si trova nel periodico on line “Donna, vita, liberta’. 216” (4/8/2023), del “Centro studi per la pace di Viterbo”, di Beppe Sini (nonviolenza@peacelink.it).

Ho utilizzato largamente Wikipedia, specie per alcune cifre (e per le notizie sulla resa del Giappone).

Altri testi citati:

Alberto Asor Rosa, Fuori dall’Occidente. Ovvero ragionamento sull’apocalissi, Torino, Einaudi, 1992.
Walter Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti, Torino, Einaudi, 1008, p 27.
Vasilij Grossman, Ucraina senza ebrei, Milano, Adelphi, 2023.
M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo (trad. di Lionello Vinci), Torino, Einaudi, 1966 (2.a).
Primo Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986.
Natascia Mattucci e Francesca R. Recchia Luciani (a cura di), Obsolescenza dell’umano.Günther Anders e il contemporaneo, Genova, Melangolo, 2018.
Marshall Mc Luhan, Gli strumenti del comunicare, trad. it. di E. Capriolo, Milano, Il Saggiatore,1964.

Id., La Galassia Gutenberg. Nascita dell’uomo tipografico, traduzione a cura di Stefano Rizzo, Roma, Armando, 1976.
Raul Mordenti, Le due censure: la collazione dei testi del Decameron “rassettati” da Vincenzio Borghini e Lionardo Salviati, in AA.VV., Le pouvoir et la plume. Incitation, contrôle et répression dans l’Italie du XVI.e siècle, Paris, C.I.R.R.I.-Université de la Sourbonne Nouvelle, 1982, pp. 253-273.
Id., Per un’analisi dei testi censurati: strategia testuale e impianto ecdotico della “rassettatura” di Lionardo Salviati, in “FM Annali”, 1982, 1, pp. 7-51.
Id., L’altra critica. La nuova critica della letteratura fra studi culturali, didattica e informatica, Roma, Meltemi, 2007 (seconda edizione: Roma, Editori Riuniti Universiy Press, 2013, che cito ampiamente nel paragrafo dedicato a “La fine, e la proibizione, della critica”).
Mario Perniola, Contro la comunicazione, Torino, Einaudi, 2004.
Michele Rak, Rosa. La letteratura del divertimento amoroso, Roma, Donzelli, 1999.
Gianni Vattimo, L’oblìo impossibile, in AA.VV., Usi dell’oblio, Parma, Pratiche, 1990, pp. 91-104.

L’intervista a Ignacio Ramonet, è stata rilasciata a Pascual Serrano il 10 agosto 2023 “L’obiettivo è ‘hackerare’ l’individuo con un misto di guerra psicologica e di guerra dell’informazione”, (wordpress.com), traduzione a cura di Rifondazione/Esteri:  http://www.rifondazione.it/esteri/index.php/2023/08/10/intervista-a-ignacio-ramonet-lobiettivo-e-hackerare-lindividuo-con-un-misto-di-guerra-psicologica-e-guerra-dellinformazione/).

Raul Mordenti

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