A passo di gambero nella lotta alle mafie
Il taglio da parte del Governo dei 300 milioni del PNRR destinati a rendere fruibili i beni confiscati alle mafie segna un grave arretramento nel contrasto alla criminalità, trasformando un investimento per la collettività in uno spreco di risorse. E in un danno irreparabile nella lotta alle cosche.
È sufficiente leggere la Deliberazione della Corte dei Conti n. 34 del 2 maggio 2023 sull’attività dell’Agenzia Nazionale sui Beni Sequestrati e Confiscati alle mafie (ANBSC) per rendersi conto dei fattori che ostacolano una ben più vasta attività di assegnazione dei beni a scopi sociali. Tra questi, il più problematico è la carenza di risorse finanziarie per la rifunzionalizzazione e conduzione dei beni da parte di enti locali e del terzo settore.
I magistrati contabili sottolineano nella Deliberazione il tema di come concentrare sinergicamente le energie per restituire slancio e credibilità all’azione istituzionale. In tal senso, due leve finanziarie sono fondamentali per sviluppare una strategia vincente nella politica di aggressione ai patrimoni mafiosi. La prima riguarda il loro uso razionale, con una diversa distribuzione e opportune modifiche normative in grado di avviare un processo virtuoso che andrebbe sostenuto dalla seconda leva finanziaria, quella rappresentata dai fondi europei. Nella consapevolezza che la criminalità organizzata ha essa stessa dimensioni globali.
Al contrario questo Governo, tagliando i fondi del PNRR a ciò previsti per un importo pari a 300 milioni di euro, sta impedendo il più grande investimento per rendere finalmente fruibili i beni confiscati alle mafie e, quindi, vedere la possibilità di trasformare le case dei boss in asili nido o centri antiviolenza, le aziende in cooperative per i lavoratori, i magazzini in centri sportivi, i campi in parchi urbani: presìdi di legalità in territori dove le mafie fanno sentire tutto il loro peso.
Si tratta di una scelta sbagliata, che penalizza tutte quelle Amministrazioni comunali che in questi mesi hanno progettato, impiegato risorse pubbliche, attivato manifestazioni di interesse con l’ANBSC salvo poi, improvvisamente, trovarsi senza le risorse previste per trasformare il tesoro dei boss in beni pubblici per la comunità. Quello che doveva essere un investimento per gli enti locali si è così trasformato in uno spreco di risorse pubbliche, tempo e lavoro (oltre a comportare seri rischi finanziari per gli stessi enti locali).
Colpire i patrimoni degli appartenenti ad associazioni mafiose assolve efficacemente sia a una funzione preventiva e deterrente, sia a una funzione di ripristino delle regole dell’economia legale, e con essa di garanzia dei diritti dei lavoratori per effetto della rimozione delle turbative prodotte dai capitali illegali. Si pensi all’effetto decisivo che la sottrazione di un’azienda nelle mani della mafia comporta in ordine al ripristino di condizioni di vita lavorative degne e coerenti con i dettati contrattuali e normativi.
È per questo che la scelta del Governo si rivela irresponsabile: trasmette un messaggio grave per quanto riguarda la lotta alle mafie e alla corruzione e rischia peraltro di creare problemi agli enti locali e al rapporto tra questi, il sistema delle imprese e le stesse autorità di governo, avendo i Comuni lavorato alacremente per progettare le opere da realizzare e assegnare i lavori. Ma la gravità della scelta è ancora più lampante se si pensa che proprio sul territorio emerge la forza della cosca mafiosa, che può disporre di beni giganteschi, di fronte a uno Stato che si dimostra incapace di mutare i rapporti di forza, con effetti devastanti sulla società civile che vede sempre più difficile opporsi allo strapotere delle mafie.
Per dimostrare che le mafie e i sistemi corruttivi non sono né impunibili né invincibili, per rafforzare la credibilità della politica e la fiducia dei cittadini verso le istituzioni, per garantire lavoro vero e favorire lo sviluppo economico-sociale, il contrasto alla mafia, pur incardinato sull’attività investigativa e giudiziaria, deve coronarsi con la lotta ai patrimoni illegalmente acquisiti e, grazie ad essa, con il radicamento di una cultura costituzionale a garanzia dei diritti dei cittadini. Tutto ciò passa da una concreta attività di restituzione dei beni oggetto di proprietà mafiosa al territorio, per il loro previsto riuso sociale. Questo obiettivo non è affatto simbolico, ma è la più concreta dimostrazione che è possibile sconfiggere il malaffare e restituire alla collettività il maltolto. Il mancato riuso sociale, di contro, depotenzia i pregressi successi investigativi e di giustizia.
E se è vero che la lotta alla criminalità organizzata nel nostro Paese è una funzione fondamentale dello Stato Istituzione, si può comprendere l’importanza di questa battaglia. Per vincerla, occorrono strumenti e risorse adeguate: proprio per questo, i fondi del PNRR non possono essere depotenziati. Al contrario, sarebbe necessaria una ulteriore implementazione di risorse finanziarie in modo tale da poter efficacemente agire sulle criticità che la gestione dei beni confiscati comporta, e cioè:
- cattivo stato di conservazione degli immobili e difficoltà di reperire risorse adeguate al restauro o alla ristrutturazione degli stessi;
- assenza/difficoltà di accesso a risorse per la valorizzazione dei beni;
- difficoltà nell’identificare soggetti terzi interessati alla gestione dei beni, spesso legate alle destinazioni d’uso degli stessi;
- difficoltà dei procedimenti amministrativi/autorizzativi necessari per la sanatoria funzionale (agibilità, cambio di destinazione d’uso, etc.);
- difficoltà nella gestione e valorizzazione dei beni.
Le difficoltà crescono qualora si tratti di beni oggetto di gravami ipotecari, o abusivi, con opere di ristrutturazione non conformi o costruiti in contrasto alle normative paesaggistiche, urbanistiche, edilizie e ai vincoli ambientali (ad esempio in zone a rischio idrogeologico) la cui regolarizzazione comporta l’impiego di ingenti oneri amministrativi, economici e temporali.
Al riguardo, anche l’ANCI ha sottolineato in più occasioni quanto sia fondamentale la messa a disposizione di risorse per la riqualificazione e rigenerazione dei beni confiscati. Da questo punto di vista sarebbe una vera battaglia di civiltà e democrazia garantire, recuperando alla collettività il patrimonio edilizio confiscato, l’aumento della possibilità di alloggio alle fasce meno abbienti e più fragili della popolazione. E utilizzare i beni sottratti alle mafie per assicurare alloggi sicuri e confortevoli agli studenti universitari che subiscono le speculazioni sugli affitti operate dai proprietari di casa.
In ogni caso, occorre rimarcare che, più del carcere, le mafie temono il sequestro e la confisca dei beni e si preoccupano se vengono aggrediti i loro patrimoni: la ricchezza accumulata, per le cosche, è la migliore garanzia per continuare a perpetrare il loro potere di condizionamento e governo del territorio attraverso lo strumento della corruzione e delle connivenze facili con quella borghesia dei colletti bianchi che, di fronte ai facili arricchimenti, non mostra alcuno scrupolo o vergogna.
È per questo che, quando a novembre 2021 il governo destinò ben 300 milioni di euro nell’ambito dei fondi del PNRR per rendere fruibili i beni confiscati alle mafie, ci fu grande soddisfazione da parte di tutti coloro che si battono per ridare una nuova vita ai patrimoni sottratti ai boss: il più importante investimento degli ultimi 40 anni – da quando è in vigore la legge Rognoni-La Torre – e un segnale forte del Governo alle mafie, raccolto da tanti Comuni del Sud che vedevano finalmente la possibilità di poter utilizzare i tanti beni confiscati bisognosi di ristrutturazione.
Un segnale che si spegne tuttavia con il taglio dei fondi deciso di recente dall’Esecutivo. La recente rinuncia al finanziamento del PNRR è, insomma, incomprensibile e sbagliata sotto ogni profilo. Difficilmente avremo un’altra occasione simile. Si tratta di un danno irreparabile nella lotta alle mafie.
Antonio Lavorato
30/8/2023 https://sbilanciamoci.info/
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