XIX Conferenza Europea sull’AIDS

LILA Onlus – Lega Italiana per la Lotta contro l’AIDS, in collaborazione con NAM, è lieta di fornirti la copertura scientifica ufficiale on-line della XIX Conferenza Europea sull’AIDS (EACS 2023), che si terrà a Varsavia, Polonia, dal 18 al 21 ottobre 2023.

PRIMO BOLLETTINO

COVID-19, dopo l’infezione aumenta anche nelle persone con HIV il rischio di malattie cardiovascolari

Le persone con infezione da HIV che hanno avuto il COVID-19 hanno un rischio del 35% più elevato rispetto ad altre persone HIV-positive di subire un evento cardiaco importante nel corso dell’anno successivo alla diagnosi: è quanto emerge da uno studio condotto in Spagna.

Svariati studi di ampia portata condotti sulla popolazione generale avevano già evidenziato come chi ha avuto il COVID-19 sia esposto a maggior rischio di incorrere in un evento cardiovascolare importante, per esempio un infarto, rispetto al resto della popolazione. Il rischio di nuovi eventi cardiovascolari dopo una diagnosi di COVID-19, però, non era finora stato specificamente studiato nelle persone con HIV.

La dott.ssa Raquel Martin Iguacel e i suoi collaboratori hanno raccolto le diagnosi COVID-19 inserite nel database della coorte HIV spagnola PISCIS tra marzo 2020 e luglio 2022, incrociandole con gli eventi cardiovascolari segnalati nel database PADRIS, che contiene dati relativi alla fruizione dei servizi sanitari nella regione spagnola della Catalogna.

Sono state individuate 4199 persone con HIV che avevano avuto il COVID-19 e 14.004 che non l’avevano avuto. La popolazione dello studio era prevalentemente maschile (82%) con un’età mediana di 45 anni nel gruppo COVID e di 48 anni nel gruppo non-COVID. Circa il 3% presentava una conta dei CD4 inferiore a 200 (un fattore di rischio per lo sviluppo di Covid-19 grave).
Il 7% dei pazienti con diagnosi di COVID-19 hanno avuto bisogno di ricovero ospedaliero, e per 25 persone si è reso necessario il ricorso a terapia intensiva.

Durante un periodo di follow-up mediano di 243 giorni, si è registrato un evento cardiovascolare in 211 persone nel gruppo COVID e in 621 nel gruppo non-COVID, per un tasso di incidenza rispettivamente di 70,2 e 56,8 per 1000 anni-persona.
All’analisi multivariabile, dopo l’aggiustamento per fattori demografici, fattori correlati all’HIV, COVID-19 e co-morbidità associate, una diagnosi di COVID risultava associata all’aumento del 35% del rischio di qualsiasi evento cardiovascolare.

La differenza di rischio si è osservata soprattutto per tre tipi di problemi cardiovascolari: trombosi (formazione di coaguli di sangue, i trombi appunto); insufficienza cardiaca (incapacità del cuore di pompare una quantità sufficiente di sangue); e altri disturbi cardiaci come aneurismi (dilatazioni di un vaso sanguigno che possono provocarne l’improvvisa rottura). Le persone con HIV che avevano avuto il COVID-19 non presentavano invece tassi più elevati di infarto o ictus.
Gli autori dello studio hanno concluso che quando a una persona con HIV viene diagnosticato il COVID-19, anche nei casi in cui non

si rende necessario un ricovero ospedaliero, la salute cardiovascolare dovrebbe essere al centro dell’attenzione per tutto il periodo di ripresa dalla malattia. Trattandosi di una popolazione già esposta un rischio più elevato di malattie cardiache, è poi importante che le persone con HIV si vaccinino contro il COVID-19 e che effettuino puntualmente i richiami.

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Sintomi di PTSD osservati in un ambulatorio HIV di Amsterdam: interessano una persona su sette

Un numero significativo di persone con un’infezione da HIV ben controllata in carico presso un ambulatorio HIV della capitale olandese presenta sintomi di disturbo post-traumatico da stress (designato anche con la sigla PTSD, dall’inglese post-traumatic stress disorder); lo ha riferito alla Conferenza Kevin Moody dell’Università di Amsterdam

Il PTSD insorge in persone che hanno subito un evento traumatico e non sono in grado di elaborarlo correttamente. Questi eventi possono essere gravi infortuni, malattie o incidenti; episodi di abuso o violenza sessuale; lutti ripetuti; esperienze di rifiuto a causa di stigma o pregiudizio; traumi vissuti a causa di una guerra, di violenza politica o della migrazione forzata.

Una persona affetta da questo disturbo può avere incubi o flashback in cui rivive l’evento traumatico, può sperimentare intensa paura o stati di forte tensione, oppure può mettere in atto comportamenti volti a evitare di ricordare l’evento.

L’Amsterdam Medical Center ha proposto ai suoi assistiti di compilare un questionario di screening per il PTSD. I 474 intervistati erano prevalentemente di sesso maschile (85%), nati nei Paesi Bassi o in altri paesi ad alto reddito (79%) e avevano carica virale non rilevabile (99%).

Sessantadue degli intervistati (13%) soddisfacevano i criteri per i sintomi di PTSD. Si tratta di un dato superiore rispetto alla prevalenza del PTSD nella popolazione generale (secondo indagini effettuate a livello globale si calcola che il disturbo interessi il 4% delle persone che hanno vissuto un evento traumatico) ed è paragonabile ai dati relativi alle persone affette da cancro (15%), a chi soffre di dolore cronico (10%) e ai veterani di guerra (14%).

Secondo Moody, dovrebbe dunque essere presa in considerazione l’eventualità di includere lo screening per il PTSD tra le cure cliniche di routine per tutte le persone con HIV.

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Francia, oltre sei su dieci migranti maschi omo- e bisessuali con HIV hanno acquisito l’infezione nel paese

Alla Conferenza è stato presentato uno studio condotto su uomini omo- e bisessuali HIV-positivi nati all’estero che vivono in Francia, da cui è emerso che il 62% di loro hanno acquisito l’infezione da HIV dopo essersi trasferiti nel paese.

Lo studio, denominato GANYMEDE, ha coinvolto 1159 uomini omo- e bisessuali con HIV in cura nella regione di Parigi. I partecipanti avevano un’età media di 43 anni, vivevano in Francia in media da 18 anni ed erano in cura da sei anni.

Circa la metà dei partecipanti è stata in grado di indicare quando avevano acquisito l’HIV; per l’altra metà, la data dell’infezione è stata ricavata dalle cartelle cliniche oppure stimata sulla base della conta dei CD4.

Secondo quanto stimato dagli autori dello studio, il 62% dei partecipanti ha acquisito l’HIV dopo l’arrivo in Francia, ma questo dato varia anche sensibilmente a seconda della regione di provenienza: ha contratto l’infezione in Francia la stragrande maggioranza degli uomini provenienti dal Nord Africa (85%) e da Asia e Oceania (73%), ma solo una minoranza di quelli provenienti dal Sud America (40%).

Quanto agli uomini che non avevano un’infezione da HIV al loro arrivo, nella maggior parte dei casi la probabilità di acquisirla era notevolmente più alta nel primo anno di permanenza in Francia rispetto agli anni successivi. Questo è stato osservato particolarmente negli uomini provenienti dall’Africa subsahariana: per il 25% di coloro che hanno acquisito l’HIV in Francia è accaduto nel primo anno, contro il 4,6% negli anni dal secondo al quinto e il 3,9% negli anni dal sesto al decimo. Dati analoghi si sono avuti per gli uomini provenienti dall’Asia: il 16% ha acquisito l’HIV nel primo anno, e solo il 6% nei nove anni successivi.

Le difficoltà affrontate da alcuni di questi uomini sono emerse dai risultati di un’indagine condotta tra i partecipanti. Poco meno del 50% ha riferito che al momento dell’arrivo non parlava francese; quasi il 25% è arrivato come richiedente asilo o migrante irregolare; il 28% non aveva alcun tipo di copertura medica; l’8% non ha avuto fissa dimora durante tutto il primo anno di permanenza in Francia; il 27% era disoccupato e oltre la metà ha dichiarato di non avere abbastanza denaro per vivere.

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Tassi di fallimento terapeutico più elevati con la dual therapy a somministrazione intermittente

In uno studio randomizzato controllato su un regime antiretrovirale a due farmaci (dual therapy) con somministrazione intermittente (solo quattro giorni la settimana), i tassi di soppressione virale sono risultati simili a quelli ottenuti con un regime giornaliero: quelli di fallimento virologico e di resistenza, però, con la modalità di trattamento intermittente erano più elevati. I risultati sono stati presentati in un poster alla Conferenza.

Gli autori dello studio avevano precedentemente ottenuto risultati promettenti con un regime a tre farmaci da assumere per soli cinque e quattro giorni consecutivi alla settimana. La somministrazione intermittente, argomentano i ricercatori, può ridurre gli effetti collaterali, abbassare i costi ed essere più pratica per chi deve assume il regime. La sostenibilità a lungo termine di questi regimi e il rischio di sviluppare resistenza che possono implicare continuano però ad essere oggetto di critiche da parte di alcuni esperti di HIV.

La somministrazione intermittente non era finora mai stata sperimentata con la dual therapy.

Tra giugno 2021 e gennaio 2022, 433 persone con infezione da HIV hanno preso parte allo studio presso diverse strutture mediche specializzate in Francia. Per essere eleggibili, i partecipanti dovevano avere carica virale costantemente non rilevabile da più di un anno e non presentare resistenze ai due farmaci che componevano il regime.

I partecipanti sono stati randomizzati in due gruppi: 219 di loro sono state assegnate al gruppo a somministrazione intermittente (assunzione dei farmaci per quattro giorni consecutivi alla settimana, con tre di “riposo”) e gli altri 214 al gruppo che invece assumeva farmaci tutti i giorni. Il 66% dei partecipanti è stato trattato con dolutegravir più lamivudina (Dovato), il 34% con dolutegravir più rilpivirina (Juluca) e tre con darunavir più lamivudina.

Dopo un anno, la differenza nei tassi di soppressione virale tra i diversi gruppi è risultata trascurabile: hanno mantenuto una carica virale non rilevabile il 94,5% dei partecipanti che assumevano i farmaci solo quattro giorni la settimana e il 96,3% di quelli che li assumevano quotidianamente.

Nel gruppo con somministrazione intermittente sono però stati riportati otto casi di fallimento terapeutico, contro nessuno nel gruppo a dosaggio giornaliero. Sei casi si sono verificati in partecipanti trattati con dolutegravir più lamivudina. Rispetto alla rilpivirina, la lamivudina ha un’emivita breve (ossia impiega poco tempo a diminuire la sua concentrazione nell’organismo) e una barriera relativamente bassa verso la resistenza (il che significa che il virus può sviluppare rapidamente una resistenza a questo farmaco quando la concentrazione è bassa).

Degli otto partecipanti che sono andati incontro a fallimento terapeutico nel gruppo con somministrazione intermittente, si è scoperto che quattro avevano una resistenza ai farmaci che stavano assumendo.

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23/10/2023

SECONDO BOLLETTINO

Parigi, regimi con meno farmaci sempre più diffusi

Quasi la metà delle persone con HIV in cura nel 2002 presso una delle maggiori strutture sanitarie specializzate di Parigi, in Francia, ha assunto un regime antiretrovirale composto da due soli farmaci o un regime con modalità di somministrazione intermittente. Tra il 2015 e il 2022, grazie alle strategie terapeutiche che prevedono la riduzione dei componenti dei regimi, i costi delle cure del paziente con HIV si sono quasi dimezzati

È quanto emerge da uno studio presentato dal dott. Luis Sagaon-Teyssier alla 19° Conferenza Europea sull’AIDS (EACS 2023), tenutasi la scorsa settimana a Varsavia, in Polonia.

Il fine delle strategie di riduzione è ridurre l’esposizione ai farmaci antiretrovirali. I regimi a due farmaci composti da dolutegravir più lamivudina (Dovato) o più rilpivirina (Juluca) si sono dimostrati efficaci nel sopprimere la carica virale quanto i regimi standard a tre farmaci.
Sono stati studiati anche regimi di trattamento con assunzione intermittente (in cui i farmaci vengono assunti solo quattro giorni su sette). Nello studio QUATUOR, condotto in Francia, questo tipo di regime si è mostrato in grado di mantenere la soppressione virale quanto un regime con assunzione giornaliera, pur con un tasso lievemente superiore di fallimento virologico dopo due anni. Un altro studio condotto sempre in Francia e presentato a EACS 2023 la settimana scorsa, invece, ha riscontrato che l’assunzione intermittente (sempre quattro giorni sì e tre no) con un regime a due soli farmaci portava a tassi più elevati di fallimento virologico e farmacoresistenza.

Per valutare l’opportunità di queste strategie e il loro impatto sulla virosoppressione nonché sui costi delle terapie antiretrovirali, i ricercatori hanno seguito 2288 persone HIV+ in trattamento nel 2015 presso l’Ospedale Pitié-Salpêtrière di Parigi. All’inizio dello studio, il 78% dei partecipanti assumeva un regime a tre farmaci e il 22% uno a due farmaci.

Nel 2022, metà di tutti i pazienti considerati nell’analisi assumevano un regime con meno farmaci, e la percentuale di partecipanti con carica virale non rilevabile era rimasta invariata.

Tra i pazienti che nel 2015 assumevano un regime a tre farmaci con assunzione quotidiana, il 23% era passato entro il 2022 a un regime a due farmaci, con assunzione quotidiana o intermittente; il 19% continuava invece a seguire un regime a tre farmaci, ma era passato alla modalità di assunzione intermittente.

Tra i pazienti che nel 2015 seguivano un regime a due farmaci con assunzione quotidiana, il 60% ha continuato ad assumerlo senza variazioni, mentre il 19% è passato alla modalità intermittente; il 24%, invece, è passato a un regime a tre farmaci.

Complessivamente, le strategie che prevedono la riduzione del numero di farmaci nei regimi terapeutici sono risultate associate a un abbassamento del 29% dei costi, che sale al 58% per quelle che prevedono la modalità di trattamento intermittente. Va però tenuto presente che il 2015 e il 2022 i costi delle terapie sono diminuiti in generale, anche per via della maggior disponibilità di versioni generiche dei farmaci più comunemente prescritti.

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Londra, sempre più persone con HIV optano per lo switch terapeutico

Stando ai risultati di uno studio presentato alla Conferenza, rispetto a dieci anni fa è raddoppiata la frequenza con cui le persone con HIV decidono di cambiare regime di trattamento, forse in conseguenza della disponibilità di opzioni terapeutiche più sicure e la possibilità di attagliare i regimi alle esigenze individuali di ciascuno

Il team di ricercatori che ha condotto lo studio ha raccolto i dati medici relativi a 10.905 persone con HIV in cura presso quattro centri specialistici di Londra, in Inghilterra, che hanno scelto di cambiare regime di trattamento tra agosto 2021 e gennaio 2022. Nel lasso di tempo considerato dallo studio sono stati effettuati 984 switch terapeutici, per un tasso annuale del 18%.

Analogamente a dieci anni fa, la principale motivazione del cambio di regime è risultata l’intolleranza ai farmaci, alla base del 37% di tutti gli switch.

I ricercatori hanno anche calcolato i tassi di switch per tossicità differenziati per ciascun farmaco, riscontrando differenze notevoli.

L’efavirenz, presente nell’Atripla, era responsabile di un quarto di tutti gli switch per ragioni di intolleranza farmacologica. Seguiva con il 23% il tenofovir disoproxil (TDF), presente in più regimi monocompressa: in questo caso, la frequenza degli switch è probabilmente da attribuirsi alla disponibilità della formulazione alternativa tenofovir alafenamide (TAF). Il terzo farmaco più sostituito per ragioni di intolleranza è stato il dolutegravir, presente in Triumeq, Juluca e Dovato (13%).

La seconda motivazione più diffusa per il cambio di regime terapeutico sono state le interazioni farmacologiche, responsabili del 33% di tutti gli switch effettuati in questa coorte: un dato otto volte superiore rispetto a dieci anni fa. Questo aumento potrebbe essere legato al fatto che molte persone con infezione da HIV stanno invecchiando, dunque più persone assumono farmaci per altre patologie croniche.

La semplificazione del trattamento è stata la terza motivazione più diffusa, pari al 17% di tutti gli switch. Il cambio di regime terapeutico più frequente per ragioni di semplificazione è stato il passaggio dal regime a tre farmaci Triumeq a quello a due farmaci Dovato.

L’aumento degli switch terapeutici può trovare spiegazione nel rapido ampliamento delle opzioni terapeutiche disponibili sul mercato dei farmaci anti-HIV nell’ultimo decennio. E non è necessariamente motivo di preoccupazione, anzi: può essere risultato della disponibilità di opzioni migliori e segno della volontà di medici e pazienti di sperimentare regimi diversi per ridurre al minimo gli effetti collaterali e le interazioni farmacologiche.

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Il dolutegravir potrebbe favorire la formazione di coaguli, con conseguenze per il rischio di ictus e infarto: lo segnalano i primi risultati di uno studio

Il dolutegravir, un antiretrovirale d’elezione per il trattamento dell’HIV presente in molte formulazioni tra cui Dovato, Juluca e Triumeq, potrebbe causare un’indebita attivazione delle piastrine, portando alla formazione di coaguli di sangue. Uno studio presentato alla Conferenza ha infatti riscontrato che, esponendole al dolutegravir nelle concentrazioni normalmente osservate nelle persone che lo assumono, le piastrine mostravano un’attività coagulativa più che triplicata

Va precisato che si tratta di esperimenti “da laboratorio”, per cui sarà necessario condurre ulteriori valutazioni cliniche su persone con infezione da HIV. Le piastrine sono cellule del sangue responsabili della coagulazione, che si attivano in risposta a stimoli, come una lesione, per riparare i tessuti danneggiati. L’iperattivazione piastrinica può però provocare un’indebita formazione di coaguli, potenzialmente aumentando il rischio di ictus, infarto e altri gravi disturbi.

Renos Keniyopoullos e i suoi colleghi dell’Imperial College di Londra hanno estratto le piastrine da campioni di sangue prelevati da donatori senza infezione da HIV, le hanno messe a contatto con delle sostanze presenti nell’organismo note per innescare l’aggregazione piastrinica (coagulazione) e infine hanno aggiunto dolutegravir o bictegravir (un farmaco simile, presente in Biktarvy). La quantità di farmaco aggiunta rifletteva le concentrazioni ematiche normalmente riscontrate nelle persone con HIV. In un’altra fase dell’esperimento, sono stati aggiunti anche i farmaci con cui dolutegravir e bictegravir sono solitamente combinati, per valutare eventuali effetti aggiuntivi.

Rispetto a quelle esposte solo a una delle sostanze naturali che attivano la coagulazione, le piastrine messe a contatto con il dolutegravir producevano livelli di coagulazione di 3,6 volte superiori. In un esperimento separato con un’altra sostanza naturale in grado di attivare la coagulazione, in presenza di dolutegravir l’attività coagulativa raddoppiava.

L’aggiunta degli altri farmaci solitamente combinati con il dolutegravir non ha invece prodotto modifiche negli effetti osservati.

Anche il bictegravir sembra far aumentare lievemente l’attività di coagulazione delle piastrine, ma l’effetto è molto più limitato.

Questi risultati, come si diceva, si basano su test di laboratorio che non possono riflettere esattamente ciò che accade nell’organismo umano. Consapevole di questo importante limite, Renos Keniyopoullos ha riferito alla Conferenza che l’équipe sta già lavorando a uno studio di follow-up in cui verrà misurato il livello di attivazione delle piastrine di persone che assumono regimi a base di dolutegravir.

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L’indice di massa corporea è indicatore sufficiente per predire diabete e sindrome metabolica, dice uno studio italiano

L’indice di massa corporea (IMC) sarebbe in grado di predire il rischio di diabete e sindrome metabolica nella persona con infezione da HIV con la stessa affidabilità dei più precisi test di distribuzione del grasso corporeo: è quanto emerge da uno studio italiano presentato alla Conferenza.

L’IMC, che si ottiene dividendo il peso corporeo in chilogrammi di un individuo per il quadrato della sua statura in metri, può essere utilizzato per predire il rischio di sviluppare diabete o sindrome metabolica (una qualsiasi combinazione di tre patologie tra dislipidemia, iperglicemia, ipertensione o obesità). L’IMC non fornisce però indicazioni circa la distribuzione del grasso corporeo e non distingue tra massa grassa e massa magra, ossia non dà la misura di quanto i muscoli contribuiscono alla massa corporea. Il grasso viscerale, quello che si accumula intorno agli organi, svolge infatti un ruolo molto più importante nello sviluppo di malattie cardiache rispetto al grasso sottocutaneo.

Sussistono anche differenze nella distribuzione del grasso corporeo e nella massa muscolare (magra) in base all’etnia: i livelli di IMC a partire dai quali aumenta il rischio di diabete o di malattie cardiovascolari variano. In un recente studio condotto nel Regno Unito si è osservato che persone di origine sud-asiatica con un IMC pari a 23 avevano lo stesso rischio di diabete di persone di etnia bianca con un IMC di 30.

La composizione corporea, però, può essere misurata solo tramite scansione DEXA o risonanza magnetica, e non sono test disponibili nell’assistenza sanitaria di base né in molte strutture specializzate per la cura dell’HIV. La dott.ssa Jovana Milić e i suoi colleghi della Clinica Metabolica dell’Università di Modena e Reggio Emilia hanno dunque deciso di verificare se le variazioni della composizione corporea misurate con la DEXA fossero un fattore predittivo dello sviluppo di diabete o sindrome metabolica migliore dell’IMC nella persona con HIV.

Durante il follow-up, 219 persone hanno sviluppato il diabete (incidenza 1,5 per 100 anni-persona); 377 hanno sviluppato una sindrome metabolica (3,7 per 100 anni-persona); e 417 hanno avuto un outcome composito di diabete o sindrome metabolica (4,1 per 100 anni-persona).

Le variazioni di IMC, grasso addominale, massa magra, densità minerale ossea lombare e grasso viscerale sono tutti risultati predittori dell’outcome composito.

Gli studiosi hanno riscontrato che, sebbene le variazioni del grasso viscerale e della massa magra si siano dimostrate predittori più efficaci dell’outcome composito, anche le variazioni dell’IMC erano predittive. La loro conclusione è che, se non è possibile effettuare una scansione DEXA, l’IMC e le sue eventuali variazioni sono indicatori affidabili per stimare il rischio di diabete e sindrome metabolica.

Lo studio tuttavia non riporta dati circa l’etnia dei partecipanti né analizza le variazioni di peso e composizione corporea in base all’etnia: dunque non è chiaro se questi risultati siano applicabili in tutti i contesti.

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24/10/2023

Terzo Bollettino

Ucraina, servizi HIV resilienti ma sotto pressione

Prevenzione, cura e trattamento dell’HIV sono per il momento ancora erogati con continuità in Ucraina, ma il paese fatica sempre di più a garantire taluni servizi e ormai dipende dai finanziamenti esterni.

Olga Gvozdetska, vicedirettrice generale ad interim del Centro per la Salute Pubblica del Ministero della Salute ucraino, ha descritto la situazione del paese alla 19° Conferenza Europea sull’AIDS (EACS 2023), tenutasi la scorsa settimana a Varsavia, in Polonia. “Dal 24 febbraio 2021, con la guerra, è cambiato tutto,” ha detto.

Sono ormai 414 gli ospedali ucraini danneggiati o distrutti, e 254 gli operatori sanitari rimasti uccisi o gravemente feriti.

Lo stato dei servizi per l’HIV nelle aree occupate è sconosciuto. Nelle aree controllate dal governo, invece, le persone in terapia antiretrovirale (ART) sono passate dalle 130.000 del 2021 alle 121.000 di quest’anno. Anche le nuove diagnosi sono diminuite, da 16.658 nel 2021 a 12.292 nel 2022; mentre la percentuale di diagnosi tardive, intese come diagnosi fatte quando la conta dei CD4 era già inferiore a 350, è aumentata dal 56% al 65%.

Tengono per ora sia la percentuale di persone con infezione da HIV consapevoli del proprio stato sierologico che quella di persone in trattamento che hanno ottenuto la soppressione virale; la percentuale di persone HIV+ che assume la terapia antiretrovirale è però scesa dall’83% dello scorso anno al 77% di quest’anno.

L’Ucraina ha poi registrato una netta inversione di tendenza sul fronte della sicurezza dei finanziamenti per la salute, ha aggiunto Gvozdetska. Nel 2021 i servizi di prevenzione, trattamento e cura dell’HIV erano stati per la prima volta sovvenzionati dal governo ucraino, ma nel 2022 c’è stato un immediato dietrofront: l’85% del budget per l’HIV è stato coperto dal Fondo Globale e dal PEPFAR. Nel 2023, invece, il governo non ha stanziato neanche una parte dei finanziamenti per l’HIV.

Fenomeni come migrazione interna e sfollamento hanno inoltre inciso sulla geografia dei servizi, ora necessari in luoghi diversi rispetto a prima. Circa cinque milioni di persone si sono infatti spostate dai fronti orientali alla relativa sicurezza della parte occidentale del paese, e altrettante si sono trasferite all’estero.

Molti cittadini ucraini residenti all’estero tornano in patria per accedere alla terapia antiretrovirale, ma il numero di persone che usufruiscono di cure fuori dal paese è aumentato nell’ultimo anno. All’inizio il paese che ha accolto il numero di gran lunga maggiore di rifugiati dall’Ucraina è stata la Polonia, ma molte di queste persone si sono poi ritrasferite: si stima che gli 1,6 milioni di rifugiati ucraini della Polonia costituiscano il 27% del totale europeo. Ciò nonostante, i cittadini ucraini che usufruiscono di cure per l’HIV in Polonia sono aumentati dai 2500 del 2022 ai 3396 di quest’anno. E molti di loro prima venivano curati in Ucraina.

Sono però sempre di più le persone che ricevono la prima diagnosi di HIV in Polonia. Il prof. Miłosz Parczewski, presidente della Società Scientifica per l’AIDS polacca, ha riferito alla Conferenza che su 216 rifugiati ucraini a cui l’infezione da HIV è stata diagnosticata in Polonia, quasi il 70% erano casi di diagnosi tardiva, e tra questi il 40% aveva una patologia AIDS-definente, in genere la tubercolosi.

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Videointervista di NAM aidsmap con Olga Gvozdetska a EACS 2023 su YouTube 


Terapia iniettabile a lunga durata d’azione risulta altamente efficace in studi di coorte europei

La combinazione di cabotegravir (Vocabria) e rilpivirina (Rekambys) è la prima terapia antiretrovirale disponibile in una formulazione iniettabile a lunga durata d’azione. Era stata approvata nell’Unione Europea nel 2020 per il trattamento dell’infezione da HIV in pazienti virosoppressi. A EACS 2023 sono stati presentati degli studi di coorte che ne confermano l’elevata efficacia

Uno studio condotto nei Paesi Bassi ha mostrato che il trattamento iniettabile long-acting con cabotegravir e rilpivirina non comportava tassi più elevati di rebound virale al di sopra delle 200 copie. In cinque dei casi in cui si è verificato un rebound virale, tuttavia, i ricercatori hanno osservato lo sviluppo di una resistenza di alto livello a uno o a entrambi gli agenti iniettabili, il che potrebbe limitare drasticamente le future opzioni terapeutiche.

La coorte ATHENA è uno studio nazionale che segue quasi tutti i pazienti in cura per l’HIV nei Paesi Bassi. Alla Conferenza sono stati descritti gli outcome relativi a 619 partecipanti di ATHENA passati al trattamento iniettabile a lunga durata d’azione prima del settembre 2023.

Per valutare il rischio di fallimento terapeutico, ogni paziente passato al regime iniettabile è stato abbinato ad altre due persone, sempre appartenenti alla coorte, che invece non avevano cambiato terapia. In termini di tasso di fallimento virologico, non sono emerse differenze significative tra le persone che sono passate al trattamento iniettabile (0,9%) e il gruppo di controllo (1,8%).

La dott.ssa Annemarie Wensing dell’University Medical Center di Utrecht ha riferito di cinque casi di fallimento virologico, verificatisi in tre uomini e due donne, di cui una transgender. Tutti avevano ricevuto il trattamento iniettabile a intervalli di due mesi, come da prescrizione.

Il rebound più precoce è stato osservato tre mesi dopo lo switch alla terapia iniettabile. Si è verificato in un paziente che non aveva preliminarmente assunto la terapia per via orale per un mese come raccomandato quando la terapia iniettabile a base di cabotegravir più rilpivirina è stata per la prima volta approvata in Europa; la sua carica virale è tornata a salire e ha raggiunto le 830.000 copie. L’uomo aveva però una resistenza rilevabile alla rilpivirina.

In un secondo paziente, dopo una prima misurazione che dava la carica virale rilevabile ma ferma a 260, le copie sono risalite a quota 610.000. Il paziente ha sviluppato una resistenza incrociata agli inibitori dell’integrasi e agli NNRTI.

In tutti i casi di rebound, i livelli di almeno un farmaco sono risultati non ottimali, ma sul rapporto tra concentrazioni dei farmaci e fallimento terapeutico sono necessari ulteriori approfondimenti.

Secondo gli autori dello studio, è possibile che la risposta al trattamento sia stata influenzata da alcune caratteristiche individuali dei pazienti, tra cui un elevato indice di massa corporea. In tutti i casi, però, il fallimento terapeutico ha comportato lo sviluppo di un’alta resistenza incrociata, compromettendo future opzioni terapeutiche – ed è naturalmente stato un brutto colpo sia per i pazienti che per la loro equipe sanitaria.

Jessy Duran Ramirez dell’Università di Zurigo, in Svizzera, ha descritto gli outcome di 264 pazienti passati al trattamento iniettabile.

Meno del 3% dei partecipanti allo studio Swiss HIV Cohort ha cambiato terapia: da un questionario somministrato ai partecipanti è emersa un’elevata soddisfazione per il trattamento orale, ma anche la preoccupazione che doversi sottoporre all’iniezione una volta ogni due mesi possa limitare la loro libertà. Ci sarebbero più persone interessate a passare al trattamento iniettabile se l’intervallo tra un’iniezione e l’altra fosse di sei mesi.

Otto delle 264 persone passate al trattamento iniettabile lo hanno successivamente interrotto. Due hanno manifestato reazioni avverse al farmaco; una aveva basse concentrazioni ematiche di rilpivirina; quattro hanno interrotto per motivi non legati al trattamento, e una per fallimento virologico.

Anche da uno studio condotto a Brighton, nel Regno Unito, è emerso che non tutte le persone eleggibili decidevano di abbandonare il trattamento orale per quello iniettabile, dopo averne discusso con il medico. Su 160 persone esaminate, 52 sono risultate ineleggibili (principalmente a causa di resistenza, viremia rilevabile o interazioni farmacologiche), 57 hanno rifiutato lo switch terapeutico e solo 33 sono passate al trattamento iniettabile a lunga durata d’azione; queste ultime, comunque, sono tutte rimaste virologicamente soppresse.

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Francia, le donne assumono la PrEP ma solo le donne transgender la continuano nel tempo

Un poster della Conferenza mostra come la maggior parte delle donne in trattamento con la PrEP (farmaci assunti regolarmente per prevenire l’infezione da HIV) presso una struttura medica di Parigi siano transgender (il 60% del totale) e provengano dal Sudamerica (il 78% del totale). Come è emerso anche da molti altri studi sulla PrEP, le donne cisgender sono invece meno propense a continuare la PrEP per più di qualche mese

Tra aprile 2017 e aprile 2023, sono state valutate per il trattamento con la PrEP 175 donne, di cui 161 l’hanno effettivamente iniziato. 97 erano transgender e 64 cisgender. La maggior parte (125) proveniva dal Sudamerica, 28 dalla Francia o da altre parti d’Europa e otto dall’Africa sub-sahariana.

Ad aprile 2023, 90 donne avevano smesso di assumere la PrEP. L’analisi multivariata ha mostrato che le donne transgender avevano il 64% di probabilità in meno di interrompere il trattamento rispetto alle donne cisgender.

Metà delle donne cisgender ha abbandonato la PrEP dopo soli cinque mesi; di contro, metà delle donne transgender l’ha interrotta non prima di 20 mesi da quando aveva iniziato ad assumerla.

Il prof. Jean-Michel Molina, il più noto ricercatore francese in materia di PrEP, ha riferito alla Conferenza che in Francia gli uomini omo- e bisessuali con un rischio HIV tale da giustificare l’assunzione della PrEP sono circa 142.000. Al momento però la assumono solo 42.000 di loro, ossia appena il 29,5% di quelli che ne avrebbero bisogno.

Eppure sembra una percentuale enorme in confronto a quella delle persone appartenenti ad altre popolazioni chiave, come le donne transgender e i consumatori di sostanze stupefacenti per via iniettiva: meno dell’1% delle persone appartenenti a questi altri gruppi a rischio HIV, riporta Molina, assume la PrEP.

Link collegati:
Resoconto completo su aidsmap.com 
Abstract dello studio sul sito ufficiale della Conferenza 

L’inibitore di PD-1 budigalimab potrebbe essere in grado di ritardare il rebound virale

Il budigalimab è un anticorpo monoclonale che inibisce un recettore presente sulla superficie delle cellule immunitarie, il PD-1. In un piccolo studio pilota presentato alla Conferenza, il suo impiego è risultato associato a ritardo nel rebound virale dell’HIV o a carica virale stabilmente bassa nella maggior parte dei pazienti che interrompevano l’assunzione di antiretrovirali

Il PD-1 è un recettore identificato come ‘checkpoint immunitario’ presente sulle cellule immunitarie esauste (non più in grado di innescare risposte difensive). Normalmente, esso sopprime l’attività delle cellule T, impedendo al sistema immunitario di attaccare i tessuti dell’organismo; alcuni tumori, però, sono in grado di sfruttare il PD-1 per disattivare le risposte immunitarie contro le cellule maligne. Allo stesso modo, in presenza di infezione da HIV tipicamente si osserva una sovraregolazione del PD-1 e una risposta immunitaria attenuata da parte delle cellule T.

Gli inibitori del checkpoint che prendono di mira il PD-1 sono in grado di ripristinare l’attività delle cellule T, e gli inibitori PD-1 sono ampiamente utilizzati per l’immunoterapia oncologica. Il prof. Jean-Pierre Routy del McGill University Health Centre di Montreal, nel suo intervento alla Conferenza, ha detto che in teoria gli inibitori PD-1 potrebbero anche invertire l’esaurimento funzionale delle cellule T ripristinando la funzione immunitaria nelle persone con infezione da HIV, e potenzialmente anche fungere da agente di inversione della latenza, “stanando” il virus nascosto nelle cellule e rendendolo attaccabile.

Il budigalimab è un inibitore PD-1 attualmente allo studio come approccio terapeutico per arrivare a tenere a bada l’HIV senza l’ausilio dei farmaci (cura funzionale, o remissione).

Alla Conferenza, Routy ha presentato i risultati di due piccoli studi sul budigalimab condotti negli Stati Uniti e in Canada.

Il primo studio ha valutato la sicurezza e la farmacocinetica di una singola infusione endovenosa (10 mg) o iniezione sottocutanea (10-20 mg) di budigalimab in 32 persone in terapia antiretrovirale soppressiva, senza interruzione del trattamento.

Il secondo studio prevedeva invece un’interruzione analitica del trattamento attentamente monitorata. Per lo studio sono state arruolate 41 persone in terapia antiretrovirale con carica virale non rilevabile. Nella prima fase, 20 partecipanti hanno ricevuto due dosi di budigalimab da 2 mg o 10 mg tramite infusione endovenosa a distanza di quattro settimane l’una dall’altra, mentre cinque hanno ricevuto un placebo. Hanno assunto il trattamento per quattro settimane, e dovevano interrompere la terapia antiretrovirale al ricevimento della seconda dose; due persone hanno preferito non interromperla.

Nella seconda fase, 11 persone hanno ricevuto quattro dosi di budigalimab da 10 mg a distanza di due settimane, mentre cinque hanno ricevuto un placebo. Tutti hanno interrotto l’assunzione di antiretrovirali al ricevimento della prima dose. Questo è il gruppo che è stato al centro dell’analisi esplorativa di efficacia.

I partecipanti ricominciavano ad assumere la terapia antiretrovirale se la loro carica virale raggiungeva o superava le 1000 copie per quattro settimane; se la conta dei CD4 scendeva sotto 350 o diminuiva di oltre il 30% rispetto al basale; se manifestavano sintomi associati all’HIV; e infine, in caso di gravidanza. I partecipanti o gli autori dello studio, poi, potevano anche decidere di (far) ricominciare ad assumere la terapia in qualsiasi momento.

In entrambi gli studi combinati, il budigalimab è risultato generalmente sicuro e ben tollerato.

Il tempo mediano perché si osservasse un rebound virale è stato di 29 giorni nel gruppo del budigalimab contro 21 giorni nel gruppo del placebo. Sei dei nove pazienti trattati con budigalimab che hanno completato la seconda fase sono stati considerati buoni responder. In questo gruppo, il picco di carica virale dopo il rebound è stato di circa 10.000, contro circa 100.000 nel gruppo placebo.

Due degli undici partecipanti che hanno ricevuto quattro dosi di farmaco hanno mantenuto la soppressione virale senza l’ausilio dei farmaci per ben un anno e mezzo.

Sulla base di questi risultati, secondo gli autori merita avviare ulteriori studi sul budigalimab.

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Resoconto completo su aidsmap.com 
Abstract dello studio sul sito ufficiale della Conferenza 

30/10/2023

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