Ucraina, disastro targato NATO
Il sabotaggio dei negoziati di pace tra Russia e Ucraina nell’aprile 2022 da parte dei governi occidentali non è una notizia nuova. Varie fonti hanno già raccontato come i due paesi avessero trovato un accordo per fermare la guerra dopo poche settimane dall’inizio delle operazioni russe, ma l’intervento soprattutto dell’allora primo ministro britannico, Boris Johnson, sabotò di fatto le trattative. Questa versione è stata ora confermata per la prima volta da una fonte autorevole all’interno del regime di Kiev in una recente intervista, il cui tempismo solleva anche ulteriori interrogativi sulle manovre in corso per trovare una via d’uscita dal conflitto.
A parlare dell’argomento con una TV ucraina è stato il leader del gruppo parlamentare del partito di Zelensky, “Servitore del Popolo”, David Arakhamia. La sua ricostruzione dei fatti è particolarmente significativa in quanto fu lui a guidare la delegazione ucraina nei colloqui di pace della primavera dello scorso anno a Istanbul e a Minsk. Arakhamia conferma in sostanza le posizioni di Mosca sulle ragioni della guerra. L’obiettivo russo non era cioè l’occupazione dell’intera Ucraina, ma creare le condizioni per ottenere la neutralità di questo paese.
Putin, spiega Arakhamia, considerava l’impegno a non aderire alla NATO come il fattore più importante e, in cambio di ciò, era pronto a cessare immediatamente le ostilità. Il politico ucraino sostiene che tutti gli altri propositi elencati dal Cremlino alla vigilia della guerra, come la “denazificazione” dell’Ucraina e la garanzia del rispetto dei diritti della minoranza russofona, erano solo “retorica” e, se fosse stato raggiunto un accordo sullo status neutrale del paese, le ostilità sarebbero cessate.
I due motivi che Arakhamia cita per la mancata intesa con Mosca sono tutt’altro che convincenti. La prima ragione sarebbe l’ostacolo rappresentato dall’inserimento, avvenuto nel 2019, nella Costituzione ucraina dell’aspirazione all’ingresso del paese nella NATO. Questa disposizione avrebbe quindi impedito la ratifica della neutralità ucraina, anche se la questione era in realtà tutta politica ed è facile ipotizzare che nel parlamento di Kiev avrebbe potuto essere trovato un modo per implementare i termini di un eventuale accordo con Mosca.
L’obiezione di Arakhamia è tanto più assurda se si considera che l’adesione alla NATO era stata inserita e tolta più volte dalla Costituzione ucraina dopo l’indipendenza, fino appunto alla più recente modifica nel 2019. Oltretutto, il principio di neutralità non è estraneo a Kiev, visto che nella dichiarazione di “sovranità” emessa nel luglio 1990 dall’allora repubblica socialista sovietica ucraina, ovvero l’entità di cui l’attuale Ucraina è il successore universalmente riconosciuto, era stabilita la volontà di “non aderire a nessun blocco” o alleanza internazionale.
L’altra motivazione è per Arakhamia la mancanza di fiducia nei confronti della promessa di Mosca di ritirare le proprie truppe dall’Ucraina e di rispettare le “garanzie di sicurezza” previste per Kiev. Questa tesi ha ancora meno senso della precedente. Anche prendendo per buoni i timori ucraini sull’inaffidabilità russa, è evidente che l’accordo di pace sarebbe scattato solo dopo l’effettivo ritiro delle forze armate di Mosca dall’Ucraina e un’eventuale nuova futura invasione avrebbe comunque fatto saltare i termini dell’intesa. Un rifiuto preventivo motivato dalla sfiducia verso il proprio interlocutore al tavolo delle trattative risulta difficilmente concepibile.
Infatti, la delegazione ucraina inviata a Istanbul ad aprile 2022 aveva alla fine sottoscritto una bozza preliminare di pace con la Russia, solo in seguito ritrattata per via dell’intervento occidentale. Lo stesso Putin lo scorso giugno aveva presentato pubblicamente una copia dell’accordo firmato dal regime ucraino. Il documento includeva appunto la condizione di “neutralità permanente” dell’Ucraina e le “garanzie di sicurezza” previste per Kiev.
È evidente che Zelensky e i suoi erano ben consapevoli delle condizioni vantaggiose offerte dal Cremlino alla luce della disparità di forze sul campo. Se quell’accordo fosse stato finalizzato, l’Ucraina avrebbe conservato in pratica i confini del 1991 ad eccezione della Crimea. Oggi, dopo quasi due anni di guerra, non esistono invece speranze per il recupero delle regioni annesse dalla Russia dopo i referendum dell’autunno 2022 e, in qualsiasi modo avrà fine il conflitto, l’Ucraina si ritroverà come minimo con circa il 20% in meno di territorio rispetto al periodo pre-bellico.
Soprattutto, il veto occidentale è stata la causa diretta di centinaia di migliaia di vittime tra i militari ucraini, assieme alla devastazione di un intero paese. Il parere negativo fu comunicato da Boris Johnson nel corso di una visita non annunciata a Kiev. David Arakhamia ricorda come l’ex premier britannico avesse fatto sapere a Zelensky che i paesi NATO non erano pronti ad accettare nessun accordo con la Russia, in quanto le “garanzie di sicurezza” auspicate dall’Ucraina non potevano essere assicurate.
Il blog indipendente Moon of Alabama sostiene che quest’ultimo riferimento fosse alle “garanzie” NATO, poiché l’accordo di Istanbul prevedeva che le “garanzie” venissero offerte dalla Russia o, tutt’al più, da altri paesi come Turchia o Cina. Vista quindi la linea dura dettata da Washington e Londra, se Zelensky avesse opposto resistenza e finalizzato un accordo di pace con la Russia, sarebbero state gettate le basi di uno spostamento a livello strategico di Kiev verso Mosca. Cosa evidentemente impossibile da accettare per l’Occidente, dove era già in agenda il prolungamento del conflitto per cercare di indebolire o, nelle fantasie più audaci, smembrare la Russia.
Se Zelensky aveva inizialmente insistito per andare fino in fondo nel processo diplomatico con Mosca, gli argomenti occidentali devono essere stati convincente per costringerlo a desistere e a fare marcia indietro sul negoziato. Le minacce hanno fatto parte con ogni probabilità del bagaglio di Boris Johnson nella sua trasferta ucraina, ma è del tutto possibile che la leadership ucraina avesse confidato nelle promesse di assistenza finanziaria e militare che, in effetti, si sarebbero poi concretizzate. Il problema per Kiev e la NATO è che i loro calcoli furono totalmente sbagliati e il tentativo di mettere in ginocchio la Russia si è trasformato in un clamoroso autogol che lascia ora il fronte anti-russo davanti al dilemma di come uscire dall’incubo ucraino.
La situazione odierna sul campo giustifica le recriminazioni che traspaiono dalle dichiarazioni di David Arakhamia. Il regime ucraino aveva la possibilità nell’aprile del 2022 di veder chiudere la guerra e di non cedere un solo chilometro quadrato di territorio alla Russia senza ulteriori combattimenti e perdite, mentre oggi non ha prospettive se non la presa d’atto – presto o tardi – del disastro completo.
La domanda forse più interessante a proposito dell’intervista del numero uno del partito di Zelensky al parlamento ucraino riguarda però il tempismo della sua uscita pubblica. È impossibile non collegare le “rivelazioni” di Arakhamia con lo scontro interno al regime di Kiev, nonché tra le varie fazioni di quest’ultimo e i principali sponsor occidentali, su come gestire l’uscita dalla crisi. Nella già ricordata analisi di Moon Alabama si ipotizza che la spiegazione proposta da Arakhamia serva a scaricare le responsabilità della tragedia in corso sui governi occidentali, così che la cricca ultra-corrotta di Zelensky possa in qualche modo uscire indenne dalla resa dei conti con la popolazione ucraina.
Non è nemmeno da escludere che qualcuno a Kiev, a Washington o addirittura a Londra intenda fare di Boris Johnson il capro espiatorio del disastro ucraino, visto che l’ex primo ministro non occupa da qualche tempo posizioni ufficiali nel governo britannico. Zelensky e i suoi fedelissimi stanno però anche combattendo una guerra interna con i vertici militari ucraini, sempre nel tentativo di allontanare le responsabilità della sconfitta e sopravvivere politicamente e non solo.
La polemica tra il presidente e il capo di stato maggiore, generale Valery Zaluzhny, è un chiarissimo segnale in questo senso, così come la recentissima polemica sollevata dalla vice-presidente della commissione parlamentare per la sicurezza, la difesa e l’intelligence, Mariana Bezuglaya, nei confronti delle forze armate, a suo dire ancora senza un “piano strategico” per le operazioni militari del 2024.
Visto il baratro su cui si trova l’esercito ucraino, la disperazione dilagante nel regime di Zelensky e il panico che pervade l’Occidente davanti al flop dell’operazione russo-ucraina, è lecito attendersi nel prossimo futuro ulteriori “rivelazioni”, denunce e scambi di accuse, se non addirittura colpi di mano contro una leadership politica che sembra ormai avere i giorni contati.
Michele Paris
27/11/2023 http://www.altrenotizie.org/
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