Prigionieri palestinesi, il sistema giudiziario parallelo di Israele
Un sistema giudiziario parallelo, speciale e riservato ai palestinesi sotto occupazione imprigiona e trattiene con o senza accuse in media 16.000 persone ogni anno.
Sono più o meno 1 milione i palestinesi dei Territori arrestati dal 1967 (800.000 fino al 2006), anno in cui Israele ha occupato la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, incluse almeno 23.000 donne e 25.000 minori.
Esiste una giustizia gestita dall’Autorità Nazionale Palestinese ed è quella che giudica i reati che Israele non ritiene ledano se stesso: furti, violenza domestica, risse, piccola criminalità organizzata, omicidi tra palestinesi.
Tutto ciò che viene considerato una violazione alla sicurezza dello stato occupante è giudicato, invece, dinanzi alla corte militare israeliana. Tali violazioni includono certe forme di espressione culturale e politica, di associazione, movimento e protesta non violenta, anche alcuni reati stradali, la stampa e la distribuzione di materiali politici, sventolare la bandiera palestinese o simboli di organizzazioni giudicate da Israele illegali. Un palestinese condannato per omicidio dalla corte militare riceve una sentenza più severa rispetto a un israeliano condannato per lo stesso reato da una corte civile. Secondo il codice penale israeliano, i prigionieri possono essere rilasciati dopo aver scontato metà della pena mentre i prigionieri palestinesi possono fare richiesta di libertà vigilata solamente dopo i due terzi.
Al momento sono circa 7.000 i prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, tra cui 200 minori. Secondo le leggi israeliane la responsabilità penale inizia a 12 anni di età. Tuttavia, mentre gli israeliani vengono giudicati come maggiorenni al compimento dei 18 anni, i palestinesi vengono processati come adulti già dall’età di 16 anni e per loro non è prevista la rieducazione né l’obbligo di essere interrogati, come invece accade per i propri coetanei israeliani, da agenti appositamente addestrati.
Sono 46 i giornalisti incarcerati, 29 dei quali sono stati arrestati dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso.
I giornalisti soprattutto, ma anche gli studenti, i lavoratori e persone comuni, possono essere fermati per un post pubblicato sui social network. Come è capitato a Sumayya Jawabreh, reporter di 30 anni al settimo mese di gravidanza. È stata messa in prigione con l’accusa di incitamento sui social media. Dopo il pagamento di una cauzione di 10.000 shekel (circa 2.500,00 euro), è stata poi rilasciata agli arresti domiciliari per un tempo indefinito, con il divieto di utilizzare qualsiasi piattaforma social. La maggior parte dei giornalisti è sotto detenzione amministrativa. Si tratta di una pratica estremamente diffusa in Israele, grazie alla quale i prigionieri palestinesi possono essere tenuti in carcere senza accusa, senza processo e a tempo indeterminato. Tutto sulla base di ciò che i militari scrivono all’interno di un file segreto, inaccessibile al detenuto e ai suoi legali.
Sono 2.070 i palestinesi trattenuti con la formula della detenzione amministrativa, soprattutto attivisti per i diritti umani, studenti universitari, avvocati, madri o mogli di detenuti o ricercati da Israele. Capita, soprattutto dopo il 7 ottobre, che vengano arrestati membri della famiglia di palestinesi indagati, come forma di pressione: il rilascio avviene dopo che il ricercato si consegna spontaneamente alle forze di sicurezza.
Spesso le due giustizie, quella delle autorità palestinesi e quella di Israele, lavorano insieme, determinando una lunghissima e viziosa catena di arresti, interrogatori, accuse, trasferimenti, tribunali. Questo è possibile grazie alla collaborazione di sicurezza tra l’ANP e Israele, sancita dagli accordi di Oslo. Secondo le Nazioni Unite e molte realtà locali e internazionali che si occupano di diritti umani e di diritti dei detenuti, questo doppio sistema non ha fatto altro che peggiorare l’asfissiante regime punitivo al quale vengono sottoposti i cittadini della Cisgiordania, di Gaza e di Gerusalemme est. Ma la privazione della libertà comincia già fuori dal carcere: la limitazione dei movimenti, la sorveglianza continua, i raid militari, il muro, i checkpoint, l’allargamento delle colonie israeliane illegali e delle infrastrutture solo ad esse destinate, rendono i Territori “una prigione all’aperto”. Lo stato occupante, in poche parole, tratta ogni palestinese come una possibile minaccia alla propria sicurezza.
Solitamente gli arresti avvengono ai checkpoint o durante le manifestazioni, quando i palestinesi sono in auto, in strada, oppure nelle loro case. Spesso accade durante i raid dell’esercito nei villaggi, città e campi profughi delle Cisgiordania. L’associazione per i diritti umani Addameer ha registrato, ad esempio, numerosi e massicci arresti compiuti all’interno dei villaggi della Cisgiordania, specialmente quelli nelle cui vicinanze sono state fondate colonie israeliane illegali, descrivendo le azioni militari come una forma di intimidazione e punizione collettiva: l’esercito israeliano arriva con numerosi uomini e mezzi per arrestare decine di abitanti che vengono poi quasi tutti rilasciati dopo qualche ora.
Durante gli interrogatori, soprattutto nel periodo di indagine in detenzione amministrativa, quando i militari sono alla ricerca di prove e/o confessioni da parte del detenuto, vengono utilizzati metodi di pressione fisica e psicologica come la privazione del sonno, con lunghe e ininterrotte sessioni di interrogatori. I prigionieri vengono legati e tenuti per molte ore in posizioni innaturali, scomode e dolorose, sotto minaccia di arresto dei membri della propria famiglia o di demolizione della propria abitazione (punizione, anche quest’ultima, molto diffusa). Dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, Israele ha portato avanti una campagna di arresti senza precedenti e varie forme di tortura, umiliazione e punizione dei detenuti in fase di fermo e di arresto sono state diffusamente documentate. Anche dagli stessi soldati israeliani, che hanno pubblicato sui social network, specialmente TikTok, video in cui i palestinesi, bendati e legati, vengono picchiati e umiliati in vari modi.
L’isolamento è uno strumento largamente utilizzato da Israele, anch’esso, all’occorrenza, come punizione collettiva. L’utilizzo di questa modalità detentiva è aumentato negli ultimi anni, in particolare dal 2021, dopo la fuga di alcuni detenuti palestinesi dal carcere di Gilboa attraverso un piccolo tunnel. Altre forme di punizione collettiva sono l’interruzione delle visite familiari, le incursioni continue nelle celle e il rifiuto al rilascio dei corpi dei detenuti morti in prigione, che sono 242 dal 1967, di cui 6 dal 7 ottobre di quest’anno.
Nelle carceri sono documentati sistematici casi di negligenza medica. A metà 2023 erano almeno 700 i prigionieri politici palestinesi malati, di cui 200 affetti da malattie croniche. Due di loro sono morti. L’articolo 40A della legge antiterrorismo del 2016 impedisce il rilascio anticipato dei detenuti di sicurezza condannati per reati legati all’omicidio, considerati atto terroristico. Finora, questo articolo è stato applicato solo contro i palestinesi, compresi quelli con malattie terminali. Come Walid Daqqa, detenuto da 38 anni, afflitto da un raro cancro al midollo osseo a causa del quale ha subito numerose operazioni, compresa l’esportazione di gran parte del polmone destro. Secondo Amnesty International la prigione di Ayalon, nella quale è detenuto, non è in grado di fornire cure adeguate. Daqqa è in fin di vita e la sua famiglia richiede che venga rilasciato prima della sua morte.
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Numerosi detenuti palestinesi hanno intrapreso più o meno lunghi scioperi della fame come forma di protesta per le condizioni all’interno delle carceri israeliane e contro la detenzione amministrativa. Da quando si è insediato l’attuale governo di estrema destra guidato da Benjamin Nethanyahu, i detenuti hanno scioperato contro l’attuazione di alcune delle misure restrittive più estreme annunciate a marzo dal ministro suprematista israeliano Ben Gvir. Scioperi della fame si tengono quasi ogni anno. Una campagna di solidarietà internazionale a sostegno del detenuto palestinese Samer Issawi, in sciopero della fame controllato per 266 giorni, portò nel 2013 a un accordo sulla sua scarcerazione. Non ha avuto, purtroppo, lo stesso esito la protesta di Khader Adnan, arrestato 12 volte, che è morto a maggio di quest’anno per lo sciopero della fame, che portava avanti da 87 giorni, contro la sua detenzione amministrativa. Nel 2017 una campagna di protesta che ha ottenuto un’eco internazionale ha unito 1.500 prigionieri palestinesi nello sciopero della fame.
Secondo le Nazioni Unite la maggior parte delle condanne che Israele infligge ai palestinesi sono arbitrarie, perché risultato di una molteplicità di violazioni del diritto internazionale, come la mancata garanzia del giusto processo, che contaminano la legittimità dell’amministrazione della giustizia da parte della potenza occupante.
Eliana Riva
28/11/2023 https://pagineesteri.it/
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