Costruire un’economia resistente in Palestina
Dodici gruppi di giovani palestinesi in Cisgiordania hanno avviato iniziative collettive di agricoltura, agroecologia e trasformazione alimentare. Per proteggere la propria terra dalle confische dell’occupazione israeliana e farla rivivere
Le importazioni palestinesi dal mercato israeliano hanno raggiunto il 55% delle importazioni lorde totali e la Palestina esporta l’81% della merce al mercato israeliano con un deficit commerciale di 4 miliardi di dollari, il che dimostra un’elevata dipendenza dai mercati israeliani. Ciò è dovuto ai limiti imposti dalle politiche economiche israeliane, che continuano ad ampliare il divario finanziario minando la crescita economica autonoma palestinese.
Ogni anno si diplomano 40.000 giovani palestinesi, di cui due terzi non hanno un impiego e sono costretti ad affrontare la dura realtà. Il sistema educativo si concentra molto più sul settore dei servizi piuttosto che sui settori professionali come l’agricoltura, saturando il mercato del lavoro di persone laureate e specializzate nel settore terziario. Al contrario c’è tanta richiesta di lavoro qualificato in agricoltura e in altri settori professionali.
Gli e le giovani palestinesi si sono trovate ad affrontare una domanda fondamentale: «Dovremmo arrenderci alla nostra realtà limitata o cercare alternative economiche con le nostre mani?». Hanno quindi realizzato che utilizzare le scarse risorse nella generazione di redditi alternativi fosse la soluzione. Inoltre trovano che investire tempo ed energie nella terra sia la strada da percorrere. Pertanto, 12 gruppi di giovani nell’ambito del progetto promosso dal Popular Art Centre (Pac – «Centro Popolare delle Arti», che ha lavorato con gruppi giovanili in tutta la Cisgiordania) hanno avviato iniziative collettive di agricoltura, permacultura, agroecologia e trasformazione alimentare. Queste iniziative collettive aspirano a diventare cooperative secondo lo standard normativo palestinese. Attualmente questi gruppi sono composti da 5-10 membri e 4 cooperative di donne sono già registrate e inserite nel sistema regolamentare delle cooperative.
«Il settore dell’agricoltura in Palestina era più del 60% del reddito nazionale nel 1967 ed è crollato attualmente quasi al 6%. Un risultato delle politiche liberiste basate sul mercato libero e sul consumismo, sulla mancanza di supporto alla produzione locale. Per questo l’importanza delle cooperative per correggere il tiro e ritornare alla terra attraverso la produzione locale». Così racconta Rami Massad, Coordinatore del progetto Pac. I e le giovani palestinesi hanno capito che proteggere le terre palestinesi dalle confische dell’occupazione israeliana passa attraverso la coltivazione e il recupero delle produzioni locali. Queste cooperative si stanno dimostrando un modello di riferimento, funzionali all’attivazione di pratiche relisienti e risolutive.
Sono esempi di lavoro collettivo: rappresentano una cultura ereditata dalla società palestinese che può essere osservata ad esempio durante la stagione della raccolta, dove tutti i vicini, le famiglie e gli amici si riuniscono per aiutarsi vicendevolmente per il raccolto. Inoltre, per ogni 4-5 villaggi è presente un frantoio per la pressatura delle olive a disposizione di tutta la comunità. Grazie alle cooperative giovanili, stiamo rivivendo la cultura del lavoro volontario e collettivo nella società palestinese che recentemente è stata dirottata verso forme di lavoro e organizzazione individualistica e privatistica, come si sta verificando in tutto il mondo. Le cooperative mirano a impiegare giovani e dare priorità ai servizi di previdenza sociale per la propria comunità e per quelle vicine, secondo i bisogni che emergono a livello sociale.
Legami sociali attraverso il lavoro cooperativo
Lur Amin, uno studente universitario di vent’anni di Ramallah, ha avviato insieme ad altri cinque studenti una fattoria ecologica che si basa sull’agricoltura ecologica e le coltivazioni ambientali sostenibili, piantando circa 800 m2 di terra alla Ramallah Friends School, con l’obiettivo di educare le generazioni più giovani all’agricoltura ecologica. «Abbiamo avviato la nostra fattoria nel 2019 – dice Lur –, dopo esserci formati in un’altra fattoria ecologica dove abbiamo avuto l’ispirazione per avviarne una nostra, così da poter contribuire alla cultura dell’agroecologia. Abbiamo affrontato più sfide per sviluppare le nostre competenze, comprendere ogni aspetto della terra e usare il concime organico. In seguito, anche capire come vendere a prezzi giusti ed equi, gestendo finalmente il nostro tempo tra studio e lavoro nella fattoria, ma sempre guidati dalla nostra sete di conoscenza. Abbiamo venduto il nostro primo raccolto di stagione alla nostra rete di acquisto».
Lur continua: «Abbiamo realizzato che la fattoria ti dà il meglio solo se te ne prendi cura e le stai vicino. Per questo motivo abbiamo collaborato con altre cooperative giovanili durante la pandemia, supportandoci a vicenda nel marketing e nella condivisione delle esperienze. Ci sono circa 10-12 bambine e bambini che passano ogni venerdì a fare volontariato, a imparare le tecniche agricole e la biodiversità grazie alla nostra rete. Ci sono inoltre più di 50 persone volontarie che ci visitano periodicamente, che ci aiutano e che imparano l’agroecologia. Dal nostro punto di vista, quando scaviamo terrazzamenti, è come se stessimo scavando delle fosse per donare la vita, non la morte». «Il nostro sogno – conclude Lur – è quello di replicare questa esperienza in quante più scuole possibili in Palestina».
Hakima, del villaggio Aseerah Alqibleih (Nablus), di 32 anni, ha avviato una cooperativa con altre 10 donne nel 2020. Partendo dal piantare un acre (1 donum) col timo, la cooperativa è arrivata l’anno seguente a piantare 4 acri (4 donum) e ad aggiungere specie orticole alla produzione. «Durante il lockdown pandemico – racconta Hakima – ci siamo riunite per garantirci un reddito e abbiamo fatto affidamento sulla nostra comunità per l’acquisto di prodotti e per sostenerci. L’approvvigionamento di prodotti biologici ha portato a ottenere fiducia e supporto da parte della comunità locale, la quale ha anche stimolato il coinvolgimento di giovani volontari quando possibile. Riempie il cuore vedere il supporto di amici e famiglie che credono in noi. Questa immagine richiama alla mente le storie delle persone dei villaggi che si riuniscono e che si uniscono durante la stagione del raccolto nei villaggi palestinesi, così come è sempre stato nella nostra cultura».
La terra della disperazione porterà la speranza
«Land of Despair Cooperative» è un’iniziativa collettiva giovanile sita nel villaggio di Safa, a ovest di Ramallah, stabilitasi nel 2017. Consta di nove membri, sette dei quali sono studenti universitari, e la loro missione è quella di convertire tutte le terre abbandonate di Safa in terre verdi, rigogliose. Il loro sogno inizia guadagnando 200 sicli al mese (circa 47 euro) reinvestiti per piantare un acre e mezzo di grano. Al momento si coltivano 35 acri (35 donum) all’interno del villaggio. La cooperativa si propone di far rivivere la terra attraverso l’agricoltura, per promuovere modelli di produzione economica di autosufficienza e garantire la sicurezza alimentare all’interno del villaggio. «La terra della disperazione crescerà con la speranza; il nome non è fonte di pessimismo. Al contrario, è dalla disperazione e dalla miseria che possono fiorire speranza e crescita. Aspiriamo a ottenere un’indipendenza finanziaria e rifinire le nostre competenze, al posto di affannarci dietro lavori nel settore terziario. Miriamo ad avere maggiore partecipazione giovanile e consapevolezza del valore della terra».
Nella terra della disperazione i e le giovani praticano molte attività agricole. «Coltiviamo colture irrigue e alimentate dalla pioggia durante l’anno – spiegano – Diamo priorità al grano, lo coltiviamo in un’area di 15 acri (15 donum) e piselli in 5 acri, in aggiunta a fagioli, zucca e ceci su 7 acri. Abbiamo dedicato anche un’area di mezzo acre alla coltivazione di verdure ecologiche biologiche attraverso terrazze ambientali a beneficio della natura. Le nostre coltivazioni sono prive di sostanze chimiche e stiamo lavorando per risolvere i nostri problemi agricoli attraverso soluzioni biologiche». Si assumono così la responsabilità delle loro comunità organizzando il lavoro volontario della terra, costruendo legami con la comunità e donando verdure a famiglie con un basso reddito.
Abdullah Khouira, 25 anni, è nato a Kafr Nima, villaggio a est di Ramallah. «Dopo aver raggiunto un punto morto nella speranza di trovare lavori accettabili – dice Abdullah – io e altri 5 amici neo-laureati abbiamo deciso di fondare la cooperativa agricola di Kafr Nima. Crediamo che i veri cambiamenti arrivino quando si ritorna a coltivare la terra». Con questa visione, a partire dal 2019, Khouira e i suoi compagni, mediante autofinanziamento dei membri della cooperativa, hanno riabilitato e coltivato un acro e mezzo di terra con colture invernali come fagioli, piselli, patate e lattuga. «Il successo della prima stagione – continua – ci ha fatto pensare alla possibilità di espanderci. Un’area di un acro e mezzo non era più sufficiente a sopperire alle necessità del villaggio e del mercato fuori da esso. Così, nel 2020, abbiamo iniziato a espanderci e ci siamo assicurati altri quattro acri per la coltivazione. All’inizio del 2021 avevamo coltivato quattordici acri di terra». Alla fine Khouira aggiunge «sogniamo un villaggio autosufficiente dal punto di vista dell’approvvigionamento agricolo e di espanderci nei villaggi vicini, aumentando il numero di membri della cooperativa grazie alla partecipazione di molti giovani».
Quello che dai alla terra, dalla terra ti ritorna
Nel gennaio del 2017, Mohammed Omran, assieme ad altre sei persone, ha fondato una cooperativa sociale giovanile nel villaggio di Burin, Nablus. Lo scopo è quello di ottenere un raccolto stagionale e di permettere l’auto-approvvigionamento. Mohammed ha donato alla cooperativa il suo mezzo acro (0,5 donum) di terra e il resto della cooperativa ha seguito il suo esempio, donando le proprie terre: la cooperativa possiede dunque quindici acri coltivabili attorno a Burin. «Burin è nota per le sue coltivazioni di olive e per il pascolo degli animali – dice Mohammed – tutta la frutta e verdura arrivano da altri villaggi o dal mercato centrale, che è stracolmo di raccolto israeliano. Quando il nostro gruppo ha inaugurato la serra e abbiamo annunciato il primo raccolto disponibile sul mercato, la comunità del villaggio ci ha supportati. Principalmente perché, durante la stagione del raccolto, abbiamo assunto venticinque abitanti del villaggio tra donne e uomini per lavorare nei quindici acri e abbiamo garantito prezzi onesti».
Il gruppo ha espanso con successo la varietà della sua produzione agricola e ha usato i guadagni per comprare un ulteriore acro e mezzo di terra di proprietà della comunità. «Quello che dai alla terra, dalla terra ti ritorna – continua Mohammed – È nostro dovere proteggere le terre vicine agli insediamenti israeliani (che sono a rischio confisca) usando la coltivazione e l’agricoltura; questo è il nostro modo di esprimere resilienza. Durante il nostro percorso abbiamo affrontato molte sfide e ostacoli rispetto alla registrazione della nostra cooperativa, al sistema normativo e alla conformazione del mercato aperto qui in Palestina. In ogni caso, alla fine, per applaudire ci vogliono sempre due mani: una da sola non può».
Samer Karaja è membro di Saffa Youth cooperative, Palestina. La traduzione dell’articolo è a cura di «Traduzioni solidali – Bread&Roses – sms, Bari» che promuove una campagna italiana a sostegno delle cooperative agricole palestinesi insieme all’associazione Fuorimercato.
28/11/2013 https://jacobinitalia.it/
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