Le contraddizioni del sionismo

(seconda parte)

Prima parte https://transform-italia.it/le-contraddizioni-del-sionismo/

Abbiamo visto nella prima parte di questo articolo come il sionismo sia sorto nel contesto della formazione degli stati nazionali pensati generalmente come realtà omogenee e ancora condizionati dall’idea della esistenza delle “razze”, dotate di differenze essenziali e non mutabili e in un qualche misura accertabili biologicamente grazie agli strumenti della genetica.

Il sionismo, sorto come ideologia e organizzazione politica di quella parte minoritaria del mondo ebraico, prevalentemente laico e areligioso se non antireligioso, che auspicava la formazione di uno stato nazionale degli ebrei quale soluzione al permanere o al risorgere dell’antisemitismo, è andato via via definendo i propri presupposti fondamentali.

I presupposti del sionismo

Questi si basano sull’idea che l’ebraismo non rappresentasse una religione e quindi una comunità di fedeli, come per l’insieme dei cattolici, dei musulmani o delle altre religioni, bensì un popolo dai confini ben definiti e distinto da tutti gli altri. Ritiene che questo popolo si sia formato nel modo indicato dalla Bibbia, adottato come se fosse un testo storico, e che poi sia stato disperso nel mondo. Nonostante questa dispersione gli ebrei sarebbero sempre vissuti con l’idea di dover tornare nella “terra d’Israele”, intesa non come riferimento spirituale ma come luogo concreto nel quale costituire uno Stato, un esercito e così via.  Questa “terra d’Israele” (o “Eretz Israel”) comprenderebbe un’area non ben definita ma sicuramente tutta la Palestina del mandato britannico e in qualche interpretazione della Bibbia anche parte della riva orientale del Giordano che oggi appartiene alla Giordania.

Benché la corrente principale del sionismo, nella formazione dell’Ischuv (la comunità coloniale ebraica in Palestina) prima del 1948 e poi nei primi vent’anni dello Stato d’Israele, fosse fondamentalmente laica, ha sempre ambiguamente utilizzato le motivazioni religiose per legittimare il diritto degli ebrei ad insediarsi nella Palestina anche a danno degli abitanti arabi.

Lo stesso laburismo, forza politica dominante del sistema politico e della società israeliana fino alla metà degli anni ’70, mentre da un lato si rifaceva ad una visione universalistica, propria del movimento operaio nelle sue varie correnti, dall’altra si ancorava ad una concezione etnocentrica dello Stato. La legge del “ritorno” (anche se in realtà nessuno “ritorna” in Palestina dato che è nato altrove), approvata nel 1950, faceva di Israele lo stato di tutti gli ebrei del mondo, implicando necessariamente la riduzione della minoranza araba a cittadinanza di serie b, dotata di meno diritti sullo stato nel quale vivono di un ebreo nato o vissuto negli Stati Uniti, in Italia o in qualsiasi altro paese. Questa caratteristica, in contrasto con l’idea che si è rafforzata nel mondo soprattutto dopo la sconfitta del nazifascismo, e che appartiene ad una visione democratica e pluralista della natura degli Stati, si è andata sempre più consolidando nel tempo con un insieme di misure legislative e amministrative che hanno strutturato una gerarchia di diritti all’interno di Israele.

La decisione della destra di sottolineare ulteriormente la natura di “stato ebraico” di Israele, ne ha rafforzato la realtà etnocentrica. Non sono mancate correnti politiche all’interno di Israele che hanno cercato di legittimare la visione sionista e anche la sua dimensione coloniale, all’interno di una interpretazione marxista. Un elemento che risentiva soprattutto della significativa presenza di correnti di sinistra e operaie nel mondo dell’ebraismo di lingua yiddish, nel quale operarono tra le due guerre mondiali le organizzazioni comuniste, bundiste e della sinistra Poalei Sion (l’ala estrema del sionismo). Un mondo ricostruito sulla base delle testimonianze dei sopravvissuti da Alain Brossat e Sylvia Klingberg in “le yiddishland révolutionnaire”.

Queste tendenze che si sono soprattutto organizzate all’interno del partito Mapam, che aveva una significativa presenza nel movimento dei kibbutz, ha anche spesso svolto il ruolo di punta di lancia nel processo di pulizia etnica degli arabi nella guerra del 1948. La giustificazione ideologica era che Israele sarebbe diventata un’isola socialista, o addirittura comunista, all’interno di un mondo arabo arretrato e reazionario. Il sionismo era autorizzato a portare, anche con la violenza, il “progresso” sociale in un contesto considerato ancora feudale. Questa concezione si presentava come alternativa a quella che si ancorava a motivazioni biblico-religiose. La corrente principale laburista poteva contemporaneamente utilizzare qualsiasi visione ideologica fosse funzionale a garantire l’insediamento israeliano su una parte sempre più grande del territorio palestinese.

L’evoluzione ideologica interna e il contesto internazionale hanno via via ridotto l’influenza delle argomentazioni laiche e marxiste (quest’ultime comunque sempre minoritarie) e a rafforzare invece le tendenze fondamentaliste, religiose e negli ultimi anni anche di carattere più o meno apertamente fascista.

Gli arabi-ebrei base sociale della destra sciovinista

La svolta avvenne a metà degli anni settanta ed ebbe una base nel mutamento sociologico della società israeliana. L’élite laburista era prevalentemente europea e ashkenazi, mentre negli anni ’50 affluivano ebrei provenienti da paesi arabi e islamici (in particolare Yemen, Iraq, Marocco). Per quanto ciò possa suonare paradossale erano di fatto arabi di religione ebraica. Questi si trovarono largamente discriminati al loro arrivo in Israele ma erano anche portatori, per ragioni storiche e sociali, di un maggiore attaccamento alla visione religiosa del mondo, rispetto a coloro che erano venuti dall’Europa.

La loro condizione li collocava in una situazione difficile dal punto di vista dell’identità. Dovevano integrarsi in una società che guardava con un certo disprezzo al mondo e alle popolazioni arabe, oltre a considerarli come nemici della stessa esistenza dello stato israeliano. Dovevano assumere un’identità ebraica ancora più esasperata di quella degli europei, che in quanto tali si distanziavano in partenza dal mondo arabo, anche perché era del tutto chiara la natura gerarchica e discriminatoria della società israeliana date le sue premesse etnocentriche.

L’establishment ashkenazi dominante era visto come nemico e la destra seppe abilmente utilizzare questa frattura per insediarsi stabilmente nel mondo degli ebrei “orientali”. Con la vittoria elettorale del Likud nel 1977 è iniziato un lungo processo di trasformazione degli equilibri politici e del clima ideologico dominante. I laburisti e in generale la sinistra sionista è rimasta avviluppata nelle proprie contraddizioni e anche quando si è resa conto che occorreva una soluzione politica al conflitto israelo-palestinese (con Rabin) non è riuscita ad andare fino in fondo lungo quella strada e ha continuato ad accettare il compromesso con le tendenze suprematiste ed espansioniste presenti nel paese, fino ad autodistruggersi.

Il post-sionismo profila una via d’uscita dall’etnocentrismo

La crisi del sionismo laburista e di sinistra, nel momento in cui è sembrato che si potesse avviare a soluzione il conflitto coi palestinesi, mettendo fine all’occupazione dei territori invasi nel 1967, ha aperto uno spiraglio per quello che è stato definito come post-sionismo. Questa tendenza si fonda sull’idea che ormai il sionismo avesse svolto la sua funzione storica, la costituzione dello stato di Israele, ma ormai fosse necessario andare oltre e trasformare stato e società in una “normale” costruzione democratica. Dalla etnocrazia e dalla ricerca esasperata della distinzione, persino biologica e genetica, di un “popolo-razza” ebraico, allo stato di tutti i suoi cittadini senza distinzione. Alcuni hanno proposto di rivedere la “legge del ritorno” per garantire in Israele la cittadinanza solo a quegli ebrei che effettivamente subissero discriminazioni e persecuzioni e contemporaneamente di riconoscere finalmente l’esistenza di una nazionalità israeliana, superando l’idea di una componente privilegiata in quanto riconosciuta come “ebraica”. Una identità che si trasmette principalmente per via biologica, di madre in figlio o figlia e solo in via del tutto subordinata per conversione religiosa.

Il postsionismo ha prodotto interessanti riflessioni intellettuali, grazie ad una leva di storici che ha cominciato a mettere in discussione l’insieme di mitologie sulle quali il sionismo si è fondato per giustificare il proprio espansionismo territoriale. Una caratteristica quella della storia mitica condivisa da tutte le tendenze nazionaliste che deviano verso lo sciovinismo se non il vero e proprio razzismo, come si è visto con l’affermarsi del nazionalismo ucraino in funzione anti-russa e specularmente del nazionalismo russo.

Questa prospettiva di cambiamento della base ideologica di Israele è rimasta minoritaria mentre si è fortemente rafforzato il sionismo fanatico, sciovinista e razzista con elementi di fascismo. Non bisogna dimenticare che il cosiddetto sionismo revisionista di Jabotinski venne influenzato dall’emergere delle correnti fasciste in Europa e in particolare in Italia. Se ne distaccò quando Mussolini adottò le politiche razziste del nazismo. In precedenza, anche se non mancano formulazioni apertamente antisemite all’interno del fascismo e dello stesso Mussolini (in particolare quelle che fondevano antisemitismo e anticomuninismo), ci fu una certa vicinanza tra la borghesia ebraica italiana e il regime.

Il sionismo si è andato sempre più radicalizzando a destra accentuando le proprie caratteristiche di ideologia suprematista. Due sono le implicazioni politiche che derivano da questa evoluzione: in primo luogo di rendere impraticabile la realizzazione dell’obbiettivo della costituzione di uno stato palestinese sovrano dato che Israele rivendica ormai sempre più apertamente il “possesso” di tutta la Palestina e non solo della parte conquistata dopo la guerra del 1948; in secondo luogo l’esaltazione dell’uso della forza e della violenza armata come unico strumento per affermare i propri obbiettivi.

La società israeliana, attraversata da tutte le differenziazioni e i conflitti presenti in ogni società tende ad unirsi al momento dell’azione militare come si vede in queste settimane. Il nemico esterno rappresenta un collante del quale Israele (come in una certa misura succede anche per gli Stati Uniti) non riesce ancora a fare a meno.

Tutto questo si esprime in un misto di vittimismo e di spirito di sopraffazione che sono fortemente presenti nella narrazione ufficiale dei governi israeliani. Si aggiunga la demonizzazione del nemico palestinese e dei suoi rappresentanti ai quale si nega pregiudizialmente qualsiasi riconoscimento. Oggi si paragona Hamas all’Isis ma a suo tempo si paragonava Arafat a Bin Laden. Sempre la narrazione israeliana ha puntato ad identificare il movimento di liberazione nazionale, in tutte le sue espressioni, col terrorismo e quindi a pregiudicare qualsiasi possibilità di accordo politico e di soluzione pacifica al conflitto.

Critica al sionismo e legittimazione di Israele

La critica al sionismo e la messa in evidenza delle sue contraddizioni non implica in sé la messa in discussione dell’esistenza di Israele. Solo strumentalmente si vuole identificare questa critica con l’antisemitismo per impedire qualsiasi possibilità di dibattito razionale ed anche per ostacolare in tutti i modi l’espressione della solidarietà al popolo palestinese.

Il fatto che uno stato si alimenti di mitologie reazionarie, fondamentaliste e anche razziste non è in sé una ragione per metterne in discussione la legittimità, tanto più in una fase storica in cui queste tendenze si vanno rafforzando in molte parti del mondo, Italia compresa. L’Israele di Netanhyahu non è in questo fondamentalmente diversa dall’Ungheria di Orban o dall’India di Modi, tranne per il fatto che essa viene sostenuta anche dalla sinistra liberale e non solo, in modo sempre più deciso, dalla destra etnonazionalista, islamofoba e sciovinista, incluse buona parte delle frange neofasciste.

La legittimazione di Israele si basa su fatti storici e soprattutto sulla decisione delle Nazioni Unite del 1948, anche se solo una parte di quanto richiesto dall’Onu è stato applicato, dato che la partizione della Palestina prevedeva la costituzione di due stati egualmente sovrani. Non torno sulla questione dei due stati o dell’unico stato binazionale, di cui si parla periodicamente senza che nella realtà si facciano progressi in nessuna delle due direzioni (ne ho già trattato in un precedente articolo). Quale sia la soluzione statuale del conflitto (e anche se personalmente non vedo alternative realistiche alla costituzione di due stati sovrani confinanti) non c’è dubbio che solo la progressiva dissociazione della maggioranza degli israeliani che si identificano come ebrei dagli aspetti più reazionari ed etnocentrici del sionismo può aprire la strada ad una soluzione pacifica.

Franco Ferrari

29/11/2023 https://transform-italia.it/

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