Le ragioni del profitto sulla linea di sangue tra Israele e Gaza
In questo articolo Andrea Pannone ragiona sulle cause strutturali del conflitto palestinese, guardando alle logiche che muovono gli interessi materiali ed economici delle potenze occidentali, Stati Uniti in primis. L’autore ci spiega come la nuova natura degli Stati nazionali sia inseparabile dagli interessi dei maggiori gruppi economico-finanziari. In questo contesto sono proprio i settori della difesa e militare ad essere maggiormente integrati a questo sistema, che si avvia ad essere uno dei principali settori trainanti dell’economia.
di Andrea Pannone, da Machina
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Leggendo in queste settimane commenti e articoli dei media mainstream sul nuovo drammatico conflitto tra Israele e palestinesi, è difficile non riconoscere un (più o meno) intenzionale processo di allontanamento dalla comprensione delle sue reali cause, peraltro non dissimili da altri conflitti bellici attualmente in corso su scala planetaria, pur nelle loro specifiche manifestazioni geografiche, storiche e culturali. Il punto è perfettamente sintetizzato da Emiliano Brancaccio in un post su Econopoly: «Più che occuparsi di comprensione dei fatti, i “geopolitici” di grido paiono affaccendati in una discutibile opera di persuasione, che consiste nel suscitare emozioni e riflessioni solo a partire da un punto del tempo scelto arbitrariamente. Essi ci esortano a inorridirci e a prender posizione, per esempio, solo a partire dalle violenze di Hamas del 7 ottobre 2023, mentre suggeriscono di spegnere sensi e cervelli sulla trasformazione israeliana di Gaza in un carcere a cielo aperto, o su altri crimini e misfatti compiuti dai vari attori in gioco e anteriori a quella data. Inoltre, come se non bastasse l’arbitrio del taglio temporale, ci propongono di esaminare i conflitti militari come fossero mera conseguenza di tensioni religiose, etniche, civili, ideali. Quasi mai come l’esito violento di dispute economiche».
Come appena accennato, oltre alla perenne guerra di Israele contro i palestinesi ci sono infatti almeno altre 22 le guerre «ad alta intensità» (cioè anche con armamenti pesanti) che sono attualmente in corso nel mondo: tra questi si possono ricordare i conflitti in Siria, Yemen, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana, nord del Mozambico, Nord Kivu e Ituri della Repubblica democratica del Congo, Tigray in Etiopia nonché ancora in Iraq, Nigeria, oltre alla guerra russo-ucraina, quella turca contro i Kurdi, e altre ancora (si veda a questo link). Ovviamente non tutte queste guerre sono «l’esito violento» di dispute esclusivamente o prevalentemente economiche tra le parti in gioco come nel caso, ad esempio, della guerra tra Israelo-Palestinese; quantunque, come ancora evidenzia Brancaccio, in questa circostanza «non dovrebbe esser difficile individuare qualche elemento “economico” in uno scontro fra due popoli caratterizzati da elevati tassi di crescita demografica e destinati a contendersi un risibile fazzoletto di mondo». Ad ogni modo, «il principale fattore di innesco degli sciagurati comportamenti umani verso la guerra» è visto da Brancaccio ed altri come il risultato dell’attuale svolta degli Stati Uniti, tutt’ora potenza egemone del capitalismo mondiale, verso un «protezionismo unilaterale»,sia di tipo commerciale che finanziario, finalizzato a scongiurare il rischio di una «centralizzazione dei capitali» in mani orientali – la Cina in primo luogo, ma anche vari altri detentori di debito statunitense situati a est, e in piccola parte persino la Russia – la cui espansione nella fase di globalizzazione ha reso il debito estero e la competitività statunitense sempre più difficili da gestire con vantaggio[1]. Questo cambio di strategia sarebbe secondo l’economista napoletano «la causa prima dei famigerati «accordi di Abramo» del 2020 e dei trattati ad essi correlati». Tali accordi, stipulati da Trump ma portati avanti anche da Biden, miravano a «normalizzare» le relazioni di Israele con i grandi produttori arabi di energia, e più in generale con i paesi a maggioranza musulmana ricchi di risorse naturali, riposizionando questi paesi nel blocco economico occidentale, ancora fortemente bisognoso di gas e petrolio. Il destino del popolo di Gaza e della Palestina, però, non trovava spazio dentro la suddetta soluzione negoziale, lasciando le complesse problematiche di quell’area fondamentalmente irrisolte e pronte ad incendiarsi. All’interno di questa cornice concettuale, ritiene Brancaccio, è possibile inquadrare il sanguinoso e indifendibile atto terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023 e l’odioso assedio che il governo di Israele sta perpetrando ai danni della striscia di Gaza, provocando una vera ecatombe di civili e bambini[2]. Il risultato di ciò è quello di esasperare pericolosamente i contrasti e le tensioni tra gli attori coinvolti nella regione[3], facendo da potenziale anticamera per l’esplosione di un conflitto bellico su scala molto più estesa.
Sebbene l’approccio proposto da Brancaccio – ponendo al centro gli interessi materiali ed economici che alimentano i conflitti tra Stati e popoli – rappresenti un notevole passo avanti nella lettura di ciò che sta avvenendo in Medio Oriente, a nostro parere si rende necessario un ben più radicale cambio di prospettiva nella comprensione della logica dei conflitti contemporanei. Riteniamo infatti che solo ad uno sguardo «superficiale» gli Stati nazionali – in particolare alcuni tra essi – possano apparire oggi quali i soggetti principali dell’architettura geopolitica mondiale, ossia entità coese che cercano di perseguire i propri interessi attraverso strategie politiche, economiche e militari, tenendo conto della loro ubicazione territoriale e delle sfide e opportunità ad essa associate. Questo perché, se pure possiamo ancora identificare chiaramente le organizzazioni statali e la loro collocazione internazionale, è molto più difficile separare la loro logica di azione dagli obiettivi strategici dei principali gruppi economico-finanziari che dominano la scena mondiale a partire dalla grande crisi del 2007-2008. Tali gruppi, primariamente in virtù dell’accesso a un’ampia disponibilità di credito a buon mercato – resa possibile dalle politiche di «allentamento quantitativo» delle Banche Centrali per fare fronte alla crisi –, hanno accumulato un’enorme quantità di risorse pecuniarie non tanto dall’attività di produzione di beni e servizi, quanto piuttosto dall’impressionante crescita inflazionistica dei loro asset finanziari non riproducibili (come ad esempio titoli, azioni, beni immobili ecc.), verso il cui acquisto e ri-acquisto (buyback)[4] sono state dirottate molte risorse in precedenza destinate all’investimento produttivo. Alcuni di questi gruppi poi – quali ad esempio quelli legati all’industria farmaceutica, al comparto digitale e al settore della difesa – hanno poi potuto beneficiare di alcuni drammatici eventi della nostra storia recente, quali la fase pandemica da Covid-19 e lo scoppio del conflitto russo-ucraino, per realizzare un considerevole incremento di valore dei titoli azionari ad esse relativi[5]. Laddove poi, in precedenza, una considerevole parte di profitti sembrava scaturire dal progresso tecnologico, ora i guadagni dipendono sempre più dalla capacità di protezione legale della tecnologia da parte delle aziende e da altre forme di esclusione, che rendono i loro stessi asset sempre più appetibili, in quanto ci si aspetta che anche molti altri investitori scommettano sulla loro specificità e cerchino di acquistarli, contribuendo così a farli crescere di valore.
Proprio l’elevato grado di accumulazione pecuniaria conseguito da alcuni gruppi di interesse, che si è configurato come un vero e proprio «sabotaggio» del tradizionale meccanismo di formazione della ricchezza basato sullo sfruttamento del lavoro proprio delle economie capitalistiche[6], ha permesso loro di esercitare un considerevole potere di influenza e condizionamento delle politiche dei governi e delle istituzioni internazionali, inscindibilmente intrecciate con quegli stessi gruppi secondo il sistema delle «porte girevoli»[7]. In altri termini, la geopolitica non rappresenta tanto le relazioni tra gli Stati e le nazioni quanto le relazioni tra gruppi di interesse capitalistico che, attraverso un’area geografica e uno specifico contesto politico istituzionale, trovano espressione più o meno coesa e coerente. Questo è vero non solo per gli Stati Uniti e le altre economie capitalistiche, ma anche nelle potenze, come la Cina e la Russia, in cui lo Stato centralizza la maggior parte delle funzioni economiche e politiche[8].
È allora solo all’interno di questo quadro di riferimento che può essere correttamente interpretata e compresa la drammatica evoluzione del nuovo conflitto tra Israele e palestinesi, dove circa il 70% della popolazione civile viene spinta dalle azioni militari di Tel Aviv a fuggire a sud/sud-ovest della Striscia, al confine con l’Egitto, schiacciata su un varco (Rafah) tuttora invalicabile. Ma come si può credere che un simile esodo possa servire a liberare gli ostaggi catturati da Hamas nell’attacco del 7 ottobre, o addirittura ad estirpare definitivamente l’organizzazione, la cui testa è lontana da Gaza e il cui braccio armato si muove tra cunicoli e gallerie sofisticate con vie di fuga verso l’Egitto (https://st.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-07-21/viaggio-tunnel-business-e-arma-strategica-hamas-164800_PRN.shtml)? Ha senso condurre un tipo di azione militare che, oltre a macchiare lo Stato di Israele e gli israeliani con l’accusa di genocidio, rischia di «impantanare» le sue truppe di assalto in una battaglia sfibrante «tra le macerie» di Gaza City, dove chi si difende ha più vantaggi di chi attacca e le perdite possono essere molte, più di quelle che l’opinione pubblica israeliana riesca ad accettare? Con quali prospettive, infine, si può sperare di stabilizzare una regione in cui la popolazione che la abita è stata così ferocemente dilaniata? È lecito pensare che una reazione di una simile portata mascheri in realtà bene altro che «il diritto di Israele a difendersi»?
Su 972Magazine, un webzine ebraico di notizie e opinioni di sinistra, si pubblica uno scoop su un documento del ministero dell’Intelligence israeliano nel quale si valuta l’idea di espellere la popolazione da Gaza e mandarla verso il Sinai per poi immaginare una loro permanenza sulla penisola egiziana. Non è la linea ufficialmente perseguita dal governo, è uno scenario tra gli altri, che è il lavoro dell’intelligence preparare, ma è un segnale di uno dei filoni di pensiero che guida le politiche del governo Netanyahu e dei suoi alleati nazionalisti di destra. Ma anche in questo caso quale sarebbe il vero vantaggio per Israele? Alcuni hanno sostenuto che la risposta risiede nella possibilità di mettere definitivamente le mani sulle riserve energetiche dei palestinesi, finora inutilizzate. Sappiamo infatti da alcuni anni che il territorio palestinese occupato si trova al di sopra di importanti riserve di petrolio e gas naturale, nell’area C della Cisgiordania (circa il 60% dell’area a cui è negato l’accesso ai palestinesi) e sulla costa mediterranea al largo della Striscia di Gaza. Questi ultimi giacimenti sono parte del più ampio giacimento del bacino del Levante (650 miliardi di metri cubi di gas e 1,7 miliardi di barili di petrolio)[9], che si estende dal Sinai egiziano fino alla Siria, scoperto nel 2010 e da allora sotto il pieno controllo di Israele attraverso una grande compagnia israeliana, la New Med Energy, attualmente consorziata con la multinazionale Chevron, una delle più importanti aziende petrolifere statunitensi, che ha il compito di gestire tutti i principali giacimenti di risorse energetiche di Tel Aviv[10]. Secondo una stima dell’UNCTAD del 2019 (vedi nota 7), queste «risorse comuni» avrebbero potuto permettere di distribuire e condividere circa 524 miliardi di dollari tra Israele e palestinesi e «promuovere la pace e la cooperazione tra i vecchi belligeranti», osserva lo studio. Ovviamente questo non è avvenuto e la mancata possibilità di utilizzare le risorse di propria pertinenza, che avrebbe richiesto la costruzione di impianti di estrazione dedicati in un’area resa inaccessibile ai palestinesi, è stata sempre (e giustamente) considerata come un sopruso perpetrato ai loro danni dal governo israeliano. È però poco credibile che il governo di Netanyahu stia spingendo i palestinesi a evacuare dalla striscia di Gaza per appropriarsi di quelle risorse energetiche, visto che quelle stesse risorse sono piuttosto limitate rispetto a quelle che Tel Aviv già controlla – a cui va aggiunto il nuovo giacimento offshore di Tamar scoperto nel 2009 – e che negli ultimi anni hanno trasformato Israele in un esportatore netto di gas. Il punto in realtà è che le tensioni e l’instabilità nella regione, acuite al massimo livello dopo l’attacco del 7 ottobre, hanno offerto al governo israeliano – oltre alla possibilità di prolungare la sua fragile esistenza – il pretesto per manipolare ad arte l’erogazione del flusso del gas, da cui la richiesta a Chevron di interrompere l’estrazione dallo stesso giacimento di Tamar e il flusso della risorsa esportata verso Egitto e Giordania. Questo «segnale» è stato sufficiente per la ripresa della tendenza alla speculazione rialzista sul mercato internazionale dei futures 2024 (https://www.lesechos.fr/finance-marches/marches-financiers/les-cours-du-petrole-senvolent-apres-loffensive-du-hamas-contre-israel-1985665), riproponendo il tema della volatilità dei prezzi che avevamo già vissuto, in forma esponenzialmente maggiore, nel 2022, con lo scoppio del conflitto russo-ucraino. Un eventuale prolungamento dell’interruzione dell’attività estrattiva e/o una sua estensione ai giacimenti del bacino di Levante, a causa del protrarsi dell’occupazione militare della Striscia di Gaza, finirebbe allora per comprimere un mercato globale del gas già molto rigido, aumentando la volatilità sul mercato dei futures, dove grandi speculatori possono lucrare sulle continue variazioni dei prezzi. In sintesi, imprese energetiche multinazionali (ovviamente non solo quelle statunitensi), società finanziarie e grandi fondi speculativi sono quelli che possono trarre il massimo vantaggio dall’estensione e dalla prosecuzione di un conflitto armato che, oltre all’inaccettabile tributo di sangue, non ha alcuna possibilità di stabilizzare l’area e portare benefici alle parti coinvolte nel conflitto. Ovviamente, non sono solo le imprese energetiche e le speculazioni sui titoli energetici a trarre enormi vantaggi della svolta militare del governo Netanyahu. Non a caso i titoli delle società che producono armi, a cominciare da Lockheed Martin per finire con Leonardo, hanno registrato in queste settimane sensibili aumenti nel prezzo dei loro titoli[11]. Gli speculatori scommettono infatti sull’aumento della domanda di missili, artiglieria e altre tecnologie militari che i venti di guerra dovrebbero alimentare, trasformando le aspettative del prossimo futuro in immediate plusvalenze finanziarie. È interessante a riguardo mettere in luce chi sono gli azionisti più rilevanti delle società che producono armi. In Lockheed Martin, quattro grandi fondi, Vanguard, Black Rock, State Street e Geode Capital Management possiedono circa il 35% del capitale, mentre arrivano quasi al 40 in Northrop Grumman Corporation e al 30% in Raytheon (ora RTX). In Boeing «si fermano» al 20% e in Halliburton superano il 32%. Nei giorni successivi agli attacchi di Hamas in Israele, Biden ha annunciato che gli Stati Uniti si stavano già muovendo per inviare ulteriori munizioni e missili intercettori Iron Dome prodotti da Raytheon e Rafael, un appaltatore militare israeliano. Sono state inviate a Israele anche nuove spedizioni di piccole bombe guidate da 250 libbre prodotte dalla Boeing, così come ulteriori attrezzature che convertono le vecchie bombe grezze in munizioni «intelligenti» a guida di precisione (https://www.startmag.it/economia/guerra-israele-hamas-industria-armi/). L’aumento della domanda che prima veniva (e continua a venire) dall’Ucraina, ora da Israele e domani da chissà quale tra gli altri conflitti «pesanti» ancora in atto nel mondo e pronti a infiammarsi, sta dando ai produttori di armi e ai fornitori di tecnologie di cybersecurity la certezza di poter contare su ordini sostenuti per aumentare la produzione. Non va poi trascurato il rischio concreto che la distribuzione dei sistemi d’arma occidentali alle milizie ucraine dopo lo scoppio della guerra con la Russia, in condizioni di difficile controllo del territorio e di un elevatissimo tasso di corruzione negli apparati pubblici di Kiev, possa essere parzialmente dirottata sul mercato clandestino e sul dark web, rafforzando organizzazioni criminali e gruppi terroristici, tra cui la stessa Hamas ed Hezbollah, e alimentando la prosecuzione dei conflitti locali. È bene ricordare, infatti, che la mafia ucraina è ramificata anche in Medio Oriente e Caucaso e che almeno due battaglioni di jihadisti ceceni combattono al fianco degli ucraini in contrapposizione alle truppe di Mosca e ai governativi ceceni filo-russi presenti anch’essi in questo conflitto (https://www.analisidifesa.it/2022/03/i-rischi-della-belligeranza/)[12].
L’industria militare e della difesa – che agisce da tempi in piena sinergia con i cosiddetti giganti digitali[13] – si avvia a diventare l’unico settore delle economie capitaliste che potrebbe generare nuovi posti di lavoro e non essere afflitto da eccessi di capacità produttiva, come avviene da anni per tutte le altre principali industrie (vedi Pannone 2023). Anzi, le necessità di ammodernamento degli arsenali potrebbero anche richiedere considerevoli investimenti per adeguare rapidamente la produzione potenziale dei sistemi d’arma, così da essere in grado di rispondere in tempi sufficientemente rapidi in un periodo in cui le tensioni tra le superpotenze si sono intensificate. Sotto questo profilo il complesso militare-industriale rappresenta un’area di convergenza sempre più importante per comporre interessi capitalistici diversi e spesso antagonisti – quali, ad esempio, quelli finanziari e quelli manifatturieri[14] – e per garantire che l’industria statunitense rimanga solida, in un momento in cui si profila un nuovo rallentamento globale delle economie. Testimonianza di questa consapevolezza è rappresentata dalla richiesta urgente di Biden al Congresso, nei giorni successivi all’attacco di Hamas, di una variazione di bilancio di 106 miliardi di dollari «per finanziare le esigenze di sicurezza nazionale dell’America, per sostenere i nostri partner cruciali, tra cui Israele e Ucraina». Biden ha ancora affermato: «Vorrei essere chiaro su una cosa… Inviamo attrezzature all’Ucraina che si trovano nelle nostre scorte. E quando usiamo i soldi stanziati dal Congresso, li usiamo per rifornire i nostri magazzini, le nostre scorte con nuove attrezzature. Attrezzature che difendono l’America e sono prodotte in America. Missili Patriot per batterie di difesa aerea, prodotti in Arizona. Proiettili di artiglieria fabbricati in 12 stati in tutto il paese, in Pennsylvania, Ohio, Texas. E molto altro ancora. Sapete, proprio come durante la seconda guerra mondiale, oggi i patrioti lavoratori americani stanno costruendo l’arsenale della democrazia e servendo la causa della libertà (vedi link https://www.politico.com/news/2023/10/21/bidens-ukraine-aid-buy-american-00122823#:~:text=%E2%80%9CLet%20me%20be%20clear%20about,and%20is%20made%20in%20America)».
In conclusione, quello che si racconta come l’ennesimo e più sanguinoso capitolo di un conflitto che dura da 75 anni, si rivela, con la complicità determinante del governo israeliano, una straordinaria opportunità di profitto per i grandi gruppi economico-finanziari che dominano un’economia mondiale in forte rallentamento e che plasmano in modo coerente le decisioni degli Stati. Sebbene questi ultimi possano apparire come i soggetti attivi nella composizione di equilibri geopolitici funzionali al benessere delle popolazioni di cui sono espressione apparentemente coesa, le loro strategie politiche, economiche e militari, in realtà, non sono mai indipendenti dalle finalità «profit-seeking» dei principali gruppi di potere che ne condizionano e orientano gli indirizzi, quasi sempre a scapito dei bisogni e delle aspirazioni di convivenza civile della maggioranza degli individui. Si pone pertanto, per quest’ultimo conflitto come per gli altri tutt’ora in corso (vedi sopra), un interrogativo drammaticamente forte: come si può delegare agli attuali governi degli Stati nazionali o, peggio ancora, a istituzioni sovranazionali imbevute della stessa logica, il compito e la speranza di avviare un realistico processo di pacificazione internazionale, quando chi tiene i fili delle loro azioni alimenta continuamente e con cospicuo vantaggio i conflitti tra le parti?
Note
[1] Questa tesi è sostenuta in modo molto articolato da Brancaccio, Gelmetti e Lucarelli nel libro La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista (Mimesis, Milano 2022) e poi esposta sinteticamente sul Financial Times nell’appello firmato da molti economisti (vedi link https://economicconditionsforpeace.wordpress.com/).
[2] Nella sua lettera di dimissioni del 28 ottobre da direttore dell’ufficio di New York dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, Craig Mokhiber ha tra l’altro affermato: «a Gaza, case civili, scuole, chiese, moschee e istituzioni mediche vengono attaccate arbitrariamente mentre migliaia di civili vengono massacrati. In Cisgiordania, inclusa Gerusalemme occupata, le case vengono sequestrate e riassegnate in base esclusivamente alla razza, e i violenti pogrom dei coloni sono accompagnati da unità militari israeliane. In tutto il paese regna l’apartheid. Questo è un caso di genocidio da manuale».
[3] Oltre all’Iran, l’Arabia Saudita e altri paesi arabi, tra gli attori coinvolti nella regione c’è sicuramente la Cina, che vede nell’inasprimento delle tensioni nella area una minaccia per lo sviluppo dei traffici commerciali marittimi nel Mediterraneo, nel quadro della strategia della via della seta; e la Russia, interessata a stabilire rapporti bilaterali forti con i paesi della regione, espandere i partenariati energetici e diversificare le esportazioni di gas naturale nella direzione dell’Asia.
[4] Questa tendenza si è osservata globalmente, sebbene in misura minore, fuori dagli Stati Uniti. Si segnalano per entità di buyback il Giappone, il Regno Unito, la Francia, il Canada e la Cina. Ricordiamo che i buyback hanno un effetto negativo sugli investimenti di capitale, sia prima che dopo la crisi finanziaria, e soprattutto tra le grandi imprese che operano in settori altamente concentrati.
[5] Per quanto riguarda le 3 Big Pharma che hanno introdotto i vaccini contro il Covid. Pfizer, Biontech e Moderna, dopo 20 mesi di pandemia il valore delle loro azioni è cresciuto rispettivamente del 79,3%, del 720,8% e del 1033, 8%. Per quanto riguarda il complesso militare-industriale, nel complesso dallo scoppio della guerra in Ucraina fino all’aprile del 2023, l’indice MSCI World del settore aerospazio e difesa ha registrato un rialzo del 14%. Il corrispondente sottoindice dello Stoxx Europe ha guadagnato oltre il 30% mentre l’indice di settore dell’S&P500 ha realizzato un incremento di circa il 12%. https://www.wallstreetitalia.com/guerra-in-ucraina-quali-societa-della-difesa-ci-guadagnano/
[6] Descrivo approfonditamente questo processo nel mio libro, Che cos’è la guerra? La logica dei conflitti capitalistici tra XX e XXI secolo, pubblicato a novembre 2023 da Deriveapprodi.
[7] Con il termine «porte girevoli» (in inglese «Revolving Doors», si identifica il passaggio di funzionari pubblici e politici dal settore pubblico a quello privato, ma anche l’ingresso nelle pubbliche amministrazioni di esperti e manager provenienti da aziende private. Le evidenze che denunciano il fenomeno sono molto chiare. Ad esempio nel caso dei giganti digitali: Nel 2017–2018, 93 dei 113 lobbisti di Alphabet-Google avevano lavorato per lo Stato degli Stati Uniti. Nello stesso periodo, 76 su 114 di Amazon e 42 su 50 dei lobbisti di Facebook avevano fatto lo stesso. Nei primi tre mesi del 2019, quasi il 75% dei 238 lobbisti delle Big Tech era stato precedentemente impiegato dallo Stato o da funzionari politici (vedi Mirrles 2021). Inoltre, nel 2022, il Brown Institute for Media Innovation della Columbia University e MuckRock, in collaborazione con Forbes, hanno identificato 151 funzionari governativi che hanno lasciato l’amministrazione Obama dopo il 2016, hanno lavorato nel settore privato e sono tornati sotto l’amministrazione Biden nel 2021. Tutto questo con notevole profitto. Mentre infatti il mercato azionario è aumentato del 70% dal 2017 al 2021, contribuendo a incrementare del 38% il patrimonio delle famiglie in tutto il paese, le finanze personali di 77 sono cresciute in media del 270%. Le rivelazioni sono state analizzate utilizzando un strumento open source sviluppato dal Center for Public Integrity e poi ripulito i dati utilizzando il linguaggio di programmazione R (vedi link https://www.forbes.com/sites/ericfan/2022/06/21/revolving-door-riches-how-obama-biden-officials-cashed-in-during-the-trump-years/ ). Esemplare, poi, il peso del complesso militare-industriale nella nomina da parte di Biden dell’ex generale Austin a segretario della Difesa degli Stati Uniti. Austin – come tantissimi altri militari – ha creato la sua propria azienda di consulenza e accettato una posizione lautamente retribuita (da quanto riferisce l’ISPI circa un milione e mezzo di dollari in poco più di tre anni) nel consiglio di amministrazione di un gigante dell’industria militare, United Technologies Corp Inc. (UTC) poi fusasi con Raytheon. Industrie, queste, che dal Pentagono ricevono commesse elevatissime: in base ai dati disponibili (vedi link https://dsm.forecastinternational.com/wordpress/2020/04/13/top-100-federal-contractors-fy19/), nel solo 2019 Raytheon avrebbe ottenuto commesse per circa 16 miliardi e 300 milioni di dollari e UTC per 8 miliardi e 850 milioni Vi sarebbe insomma un conflitto d’interessi significativo e potenzialmente macroscopico, dato che Raytheon è, e sarà, uno dei principali contractors del dipartimento della Difesa guidato dallo stesso Austin. Infine, i pericoli di «porte girevoli» tra la La Food and Drug Administration, l’ente governativo statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici, e l’industria farmaceutica sono stati chiaramente osservati nel caso di Curtis Wright e Purdue Pharma, una storia ora raccontata nei libri e in televisione e che ha oggetto l’autorizzazione nel 1995 dell’oppiaceo OxyContin. Con riferimento a vicende più recenti ricordiamo che Il 18 dicembre 2020, sotto la guida del commissario Stephen Hahn, la FDA ha concesso la prima autorizzazione mondiale al vaccino covid di Moderna, mRNA-1273. Sei mesi dopo, dopo aver rassegnato le dimissioni con il passaggio all’amministrazione Biden, Hahn si è unito a Flagship Pioneering, “il fondo di rischio che ha dato vita a Moderna” (si veda l’ultimo artico di Peter Doshi sul British Medical Journal al linl https://www.bmj.com/content/383/bmj.p2486 )
[8] Con riferimento alla Cina, ad esempio, sebbene il sistema politico ed economico sia gestito dal Partito Comunista Cinese (PCC), che detiene il controllo supremo e assume tutte le decisioni strategiche, il governo è caratterizzato da una stretta interconnessione con il settore economico e finanziario, e alcuni gruppi industriali privati cinesi hanno ottenuto una notevole influenza nell’economia del paese. Tra questi ricordiamo quelli che operano nel settore della tecnologia (ad esempio Alibaba, Tencent e Huawei), il consumo (ancora il gruppo Alibaba e JD.com) e l’immobiliare (ad esempio il gruppo Vanke e il gruppo Evergrande).
[9] Stime dello studio dell’UNCTAD del 2029 a cui si rimanda: https://unctad.org/publication/economic-costs-israeli-occupation-palestinian-people-unrealized-oil-and-natural-gas
[10]La Chevron è una delle più grandi compagnie petrolifere e del gas a livello globale e ha una presenza in diverse parti del mondo. Nel contesto di Israele, Chevron ha un coinvolgimento attraverso l’acquisizione nel 2020 della società Noble Energy, che aveva una partecipazione significativa nella compagnia New Med Energy e che era quindi stata coinvolta nell’esplorazione e nell’estrazione di risorse di gas naturale nel Mar Mediterraneo, incluso il giacimento Leviathan.
[11] La società di difesa RTX (precedentemente nota come Raytheon) e General Dynamics, ossia il secondo e terzo maggiore appaltatore del governo federale americano hanno visto le loro azioni aumentare del 10% dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre. In un’intervista con la CNBC, il Ceo di RTX Hayes ha affermato: «La guerra a Gaza o in Israele, ancora una volta, è una situazione tragica – che alla fine porterà a ulteriori ordini, molto probabilmente. Il nostro obiettivo in questo momento è: come possiamo sostenere le forze di difesa israeliane? Come possiamo assicurarci che abbiano ciò di cui hanno bisogno per poter difendere il loro Paese?» (https://jacobin.com/2023/10/raytheon-general-dynamics-gaza-israel-war-military-industrial-complex).
[12] Di questo problema, bollato frettolosamente da molti media europei come «disinformazione russa» (vedi ad esempio https://it.euronews.com/my-europe/2023/10/19/propaganda-russa-lucraina-non-ha-inviato-armi-ai-miliaziani-di-hamas ), si sono in realtà occupate diverse inchieste del Washington Post e New York Times, ma anche rapporti dell’intelligence statunitense, dell’Interpol e di diverse polizie europee oltre a governi di nazioni che in Africa come in Medio Oriente rilevarono la presenza di queste armi in diversi teatri di guerra lontani dall’Ucraina. Lo stesso nuovo procuratore di Napoli Nicola Gratteri, intervenendo nell’agosto del 2023 ad un evento al Lido di Camaiore (Lucca), ha riportato l’attenzione sulla questione, finora quasi del tutto ignorata in Italia.
[13] Stiamo parlando delle cosiddette GAFAM (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft). Sui legami dei giganti della Silicon Valley con il complesso militare-industriale si veda ad esempio: https://www.nytimes.com/2020/05/02/technology/eric-schmidt-pentagon-google.html.
[14] Va osservato infatti che se è vero che gli attuali meccanismi di accumulazione del potere capitalistico possano travalicare il processo di produzione, essi non possono in nessuna misura prescindere dalla sua esistenza. Nessun business finalizzatoall’accumulazione di capitale pecuniario, infatti, potrebbe vivere senza che si continui ad accumulare, almeno in qualche misura, capitale fisico per produrre beni.
3/11/2023 https://www.infoaut.org
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