Un punto di svolta per capire cosa possiamo fare per la pace

“La guerra è sempre solo una sconfitta. Davanti al Presepe, per il Natale, chiediamo la pace”. Così il Papa due giorni fa. Possiamo ricordare qualche dato, e riflettere se possa fare qualcosa per la pace il nostro paese. Il numero di conflitti armati è il più alto dalla guerra mondiale. Ecco i maggiori, con il totale stimato di morti dall’inizio delle ostilità: Myanmar 200mila morti, Palestina-Israele 50mila morti, insurrezioni nel Maghreb 50mila morti, conflitti armati interni in Messico 350mila morti, Russia-Ucraina 200mila morti, Etiopia 500mila morti, Sudan 12mila morti, Colombia 450mila morti, Afghanistan 2 milioni di morti, Somalia 500mila morti, Repubblica Democratica del Congo 900mila morti, Nigeria 95mila morti, Iraq 1 milione di morti, South-Sudan 400mila morti, Boko Haram 360mila morti, Siria 500mila morti, Yemen 370mila morti. Trascuro molti conflitti «minori», anche se chi muore in un conflitto «minore» non muore di meno.

Due miliardi di esseri umani, uno su quattro, vivono in paesi coinvolti in conflitti. Le spese militari globali non sono mai state così alte. Hanno superato 2200 miliardi di Euro all’anno, cresciute quasi del 4% in termini reali dall’anno scorso. L’Europa ha visto la più forte crescita di spese militari degli ultimi trent’anni, +13%. Le tensioni sono cresciute bruscamente. Il commercio mondiale, che aveva reso prosperi i decenni passati, è ostacolato dalla richiesta di «decoupling» strategico delle economie: non ci si fida più gli uni degli altri. Le narrazioni reciproche di paesi avversari, compresi i nostri, hanno iniziato a descriversi vicendevolmente come demoniache. Nelle parole del Segretario Generale dell’ONU «Il mondo è a un punto di svolta».

Politicamente il mondo si sta separando in due blocchi di natura diversa. Da un lato un Occidente ora dominato da un solo paese, gli Stati Uniti, che si arroga a gran voce la leadership globale, spende più di ogni altro in armi, ha un migliaio di basi militari che costellano il pianeta, e un apparato industriale militare che si arricchisce. Ma dal Vietnam all’Afghanistan non ha fatto che perdere guerre contro nemici militarmente più deboli, e mancare gli obiettivi politici delle azioni militari, come in Iraq o in Libia. Guerre spesso iniziate con pretesti rivelatisi falsi, come in Vietnam o in Iraq. In oltre 30 conflitti, gli Stati Uniti sono in guerra dalla guerra mondiale, senza – a parte l’attentato alle torri – essere stati attaccati.

Dall’altro lato, il conglomerarsi di una galassia di paesi che sono cresciuti più rapidamente dell’Occidente, e formano la maggioranza demografica e ora anche economica del mondo. Il solo BRIC, inizialmente composto da Brasile, India, Cina e Russia e recentemente allargato, ha un’economia superiore a quella occidentale, e discute su come svincolarsi dalla sudditanza al dollaro. Questa parte comprende le grandi democrazie del pianeta, come India, Indonesia e Brasile, paesi come la Cina guidati da un partito comunista che ha ottenuto successi economici sbalorditivi unici nella storia, e un paese come la Russia, con un arsenale nucleare comparabile a quello statunitense. Interessi diversi, ma tutti sempre più insofferenti alla auto-proclamata leadership americana, che non ha più sufficiente forza economica, peso politico, o autorità morale per imporsi. Ancora meno per contenere il dilagare delle guerre.

Il «punto di svolta», indicato dal Segretario Generale del’ONU, ribadito da gran parte dei leader mondiali è l’alternativa fra due strade: da una parte la gestione multipolare, democratica, condivisa, dei problemi comuni, in cui gli interessi del pianeta intero siano tenuti in conto. Dall’altra, la determinazione degli Stati Uniti a spaccare il pianeta fra alleati e nemici, e imporre la supremazia di una minoranza, mascherandosi con la retorica vuota delle democrazie contro gli stati criminali. L’alternativa è se pensare in termini di conflitto o di collaborazione. Cercare di vincere guerre oppure fermarle ed evitarle. Il mondo, compresa una parte nutrita dei cittadini dell’occidente, chiede di fermare le guerre. Alle Nazioni Unite abbiamo appena visto gli USA mettere il veto alle richieste pressoché unanimi di un cessate il fuoco.

L’Italia dei decenni passati ha saputo giocare un ruolo di cerniera con altre regioni del mondo. Il nostro paese è caratterizzato da un sincero pacifismo culturale, nutrito anche dalle sue vive radici cristiane. Potrebbe portare una voce preziosa di saggezza e lungimiranza in Europa e all’interno dell’Alleanza Atlantica, frenandone il bullismo, chiedendo ascolto del resto del mondo, lavorando per democrazia globale e un pacifico multilateralismo. Se i paesi si rispettano e pensano a convivere invece che dominare o insultarsi, il mondo è abbastanza grande per tutti. Possiamo vivere in pace, senza farci imporre nulla dagli altri, ma senza imporci con la violenza. Senza intervenzionismi mascherati da crociate ideologiche. Le guerre finiscono quando si decide che la pace vale più della vittoria, e i problemi non finiscono con i massacri: si risolvono con la politica, dando il voto alle persone.

Nella campagna elettorale dell’attuale primo ministro, idee in questa direzione non erano assenti. C’era un’Italia che non fosse pavida, stesa a zerbino sotto le decisioni di potenze esterne, quando queste manchino di lungimiranza. Capisco che il primo partito al governo, matricola in deficit di credibilità, abbia cercato appoggio dai nostri alleati stretti. Ma spero che questa fase sia superata, e l’Italia sappia contribuire alla pace del mondo con qualcosa di più serio e ragionato che partecipare come uno zimbello alle guerre dei signori d’oltre oceano, che spacciano per operazioni di polizia una miope difesa a oltranza del dominio che stanno perdendo. «La guerra è sempre solo una sconfitta. Davanti al Presepe, per il Natale, chiediamo la pace». Io provo a chiederla, rispettosamente, come impegno del mio governo.

Carlo Rovelli

24/12/2023 http://www.rifondazione.it/

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