15a Conferenza Europea sull’Aids (EACS 2015)
Le nuove linee guida EACS raccomandano la terapia antiretrovirale per tutti
Le nuove linee guida per la gestione clinica dell’infezione da HIV dell’European AIDS Clinical Society (EACS), presentate la settimana scorsa alla 15° Conferenza Europea sull’AIDS, mettono l’Europa al passo con il resto del mondo raccomandando di far iniziare la terapia antiretrovirale a chiunque immediatamente dopo la diagnosi.
I farmaci di backbone raccomandati per la terapia di prima linea sono tenofovir ed emtricitabina (Truvada) o abacavir/lamivudina (Kivexa).
Sei sono i regimi raccomandati. Quattro impiegano come terzo farmaco un inibitore dell’integrasi: Truvada più dolutegravir, Truvada più raltegravir, il combinato Triumeq (contenente il Kivexa più dolutegravir) e il combinato Stribild (contenente il Truvada più elvitegravir potenziato). Gli altri due sono il regime monocompressa a base di NNRTI Complera/Eviplera, ossia Truvada più rilpivirina, e quello a base di inibitori della proteasi rappresentato dalla combinazione Truvada più darunavir potenziato con ritonavir.
Tra le altre novità spicca la raccomandazione positiva per la profilassi pre-esposizione (PrEP), in linea con quanto già espresso dalle linee guida nazionali degli Stati Uniti, quelle dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e della British HIV Association (BHIVA). La PrEP è “raccomandata” per “uomini che fanno sesso con uomini (MSM) e persone transgender che non usano sistematicamente il preservativo nei rapporti occasionali o con partner HIV-positivi non sottoposti a trattamento”; invece, “può essere presa in considerazione” per “uomini e donne eterosessuali che non usano sistematicamente il preservativo e hanno buone probabilità di avere rapporti con partner HIV-positivi non in trattamento”.
Nelle linee guida si sottolinea che la PrEP è un intervento medico e come tale può avere effetti collaterali; non protegge da altre infezioni sessualmente trasmissibili; “potrebbe non garantire una protezione completa dal rischio di contrarre l’HIV”; e deve essere prescritta e monitorata da uno specialista in salute riproduttiva.
Nella raccomandazione è contemplata la prescrizione della PrEP sia come trattamento giornaliero che in regime intermittente, in quest’ultimo caso da assumersi come nello studio Ipergay (una doppia dose nelle 24 ore precedenti il rapporto e una singola dose al giorno per due giorni dopo il rapporto).
L’EACS ha inoltre emendato le proprie raccomandazioni relative alla profilassi post-esposizione (PEP), che non è più raccomandata se il partner HIV-positivo ha carica virale non rilevabile: si tratta di una modifica che finalmente le mette al passo con le linee guida della BHIVA. Come regime, si raccomanda Truvada più darunavir/ritonavir o raltegravir.
Link collegati
Resoconto completo su aidsmap.com
Scarica le linee guida europee dal sito di EACS
Nuova formulazione del tenofovir si mostra più sicura
Uno studio presentato la scorsa settimana alla 15° Conferenza Europea sull’AIDS Conference ha mostrato un miglioramento del profilo di sicurezza di un combinato contenente una nuova formulazione del tenofovir, che ha recentemente ottenuto l’approvazione scientifica per l’immissione sul mercato nell’Unione Europea.
Si tratta del tenofovir alafenamide (TAF) della Gilead Sciences, un nuovo profarmaco che rilascia il principio attivo nelle cellule infettate dall’HIV più efficacemente della formulazione attualmente impiegata, il tenofovir disoproxil (Viread, contenuto anche in Truvada, Atripla, Eviplera e Stribild). Il tenofovir è un farmaco generalmente sicuro e ben tollerato, ma può provocare una lieve perdita ossea subito dopo l’inizio della terapia e in pazienti predisposti può dare problemi ai reni.
Una relazione su due studi randomizzati di fase III condotti sul tenofovir alafenamide in combinazione con elvitegravir, cobicistat ed emtricitabina mostra che, dopo 96 settimane, nei pazienti a cui era stato somministrato il TAF la perdita di densità ossea risultava inferiore rispetto al gruppo di controllo, che assumeva la stessa combinazione di farmaci ma con la precedente formulazione del tenofovir; meno frequenti sono stati anche i casi di grave tossicità a carico dei reni. I tassi di soppressione virologica sono invece risultati analoghi.
In un altro studio presentato alla Conferenza, lo switch da un regime a base di atazanavir/ritonavir e tenofovir/emtricitabina a uno a base di tenofovir alafenamide in combinazione con elvitegravir, cobicistat ed emtricitabina risultava associato a un sensibile aumento della densità minerale ossea; è stato anche evidenziato qualche miglioramento della funzionalità renale.
Sulla base dei risultati favorevoli degli studi condotti fino a questo momento, Gilead ha presentato agli enti regolatori europei e statunitensi la richiesta di approvazione per il regime monocompressa elvitegravir/cobicistat/emtricitabina/TAF, che verrà immesso sul mercato con il nome commerciale di Genvoya. Il comitato scientifico dell’Agenzia Europea per i medicinali (EMA) ha approvato il Genvoya a settembre e nei prossimi mesi è atteso il via libera per l’autorizzazione alla commercializzazione. La Food and Drug Administration degli Stati Uniti delibererà invece a novembre.
Link collegati
Resoconto completo su aidsmap.com
Il rischio di infarto aumenta con la durata dell’infezione HIV, a prescindere dall’età
Una persona che ha contratto l’HIV da dieci anni ha un rischio di infarto due volte maggiore rispetto a chi ha appena contratto l’infezione, a prescindere dall’età che aveva quando si è verificata la sieroconversione e al netto degli effetti dell’invecchiamento: è quanto emerge da un’indagine condotta su un bacino di 18.468 persone HIV-positive.
Si tratta di uno studio realizzato dalla CASCADE Collaboration all’interno di EuroCoord su otto coorti di pazienti in Europa e Nordamerica, con lo scopo di stabilire quanto l’infezione da HIV e l’immunosoppressione incidano sul rischio di infarto del paziente HIV-positivo singolarmente, senza cioè considerare il rischio legato all’assunzione di antiretrovirali o ad altri fattori di rischio noti. L’infezione da HIV, causando infiammazioni, nel lungo termine può aumentare il rischio di infarto, ma gli studi precedenti non avevano mai indagato il possibile impatto della durata dell’infezione. Quello che era stato finora verificato era un’associazione tra l’esposizione a certi antiretrovirali (indinavir, lopinavir/ritonavir e attualmente abacavir) e un aumentato rischio di infarto.
Questo studio invece mostra che proprio la durata dell’infezione risulta uno dei più indicativi predittori del rischio di infarto, anche tenuto conto di altri fattori come età e tipo di regime antiretrovirale; anche se il paziente era virologicamente soppresso oppure aveva un’alta carica virale è risultato un fattore irrilevante. In presenza di immunosoppressione grave, invece, il rischio era più elevato. Una conta dei CD4 inferiore a 100 è risultata associata a un rischio di circa quattro volte maggiore rispetto a una superiore a 100.
Alexandra Lyons dell’University College London, che ha presentato questi dati, ha concluso che nelle linee guida per la gestione del rischio cardiovascolare nel paziente HIV-positivo potrebbe dunque essere opportuno considerare la durata dell’infezione come un fattore di rischio indipendente, e che occorre intensificare gli sforzi volti a contrastare i fattori di rischio come scorretta alimentazione, fumo e sedentarietà nelle persone che convivono da tempo con l’infezione da HIV, a prescindere dalla loro età.
Link collegati
Resoconto completo su aidsmap.com
Sotto-studi di START
Lo studio START (Strategic Timing of Antiretroviral Treatment) è stato disegnato per trovare risposte alla questione di quando sia opportuno iniziare la terapia antiretrovirale (ART), soprattutto nei pazienti che hanno conte di CD4 ancora elevate. A questo scopo sono stati arruolati individui con conte di CD4 superiori a 500 che sono stati randomizzati per iniziare subito la terapia o rimandarla.
Chi iniziava la ART subito dopo aver ricevuto la diagnosi, nell’ampio studio START, ha mostrato una minor perdita di densità ossea nell’anca e nella spina dorsale rispetto a coloro che rimandavano l’inizio della terapia, hanno riferito gli autori in una sessione congiunta della 15° Conferenza Europea sull’AIDS e del 17° Workshop Internazionale sulle comorbidità e le reazioni avverse a farmaci in HIV. Non è tuttavia stata riscontrata una differenza significativa a livello di rischio di fratture, e due altri sotto-studi di START non hanno rilevato differenze tra i due gruppi per quanto riguardava la funzionalità polmonare o la risposta neuropsicologica.
Iniziando la ART prima che il sistema immunitario venga gravemente compromesso si riduce notevolmente il rischio di progressione della malattia e morte: tuttavia anche il trattamento precoce può avere dei risvolti negativi, per esempio a causa della prolungata esposizione a farmaci in grado di dare tossicità. Dato che il tenofovir e gli inibitori della proteasi sono associati con una riduzione della densità minerale ossea, i ricercatori di START hanno cercato di verificare se trattamento precoce aumentava il rischio di perdita ossea in un sotto-studio condotto su 193 pazienti randomizzati al gruppo dell’ART precoce e 204 del gruppo della terapia differita.
Nel primo gruppo, la densità minerale ossea nella spina lombare è diminuita durante il primo anno di assunzione del trattamento, e poi si è stabilizzata. Quella dell’anca è risultata invece in costante diminuzione per tre anni in entrambi i bracci dello studio, ma in percentuale la perdita era maggiore nel gruppo dell’ART precoce che in quello della terapia differita. Le differenze sono risultate statisticamente significative.
Non è stata invece riscontrata alcuna differenza nello sviluppo di osteoporosi o fratture.
In termini di trattamento, l’unica classe di farmaci che è risultata associata in modo significativo alla perdita minerale ossea è stata quella degli inibitori della proteasi.
Una conta dei CD4 meno elevata è risultata associata a una maggiore perdita ossea nella spina lombare, mentre per quanto riguarda la perdita di massa ossea nell’anca il fattore più incisivo era la durata dell’infezione.
Altri sotto-studi di START hanno invece preso in considerazione eventuali alterazioni della funzionalità polmonare e delle capacità neurocognitive. Lo studio sulla funzionalità polmonare ha indagato l’eventuale aumento di rischio di broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) nei pazienti che iniziavano precocemente le terapie. Era già stato evidenziato da studi osservazionali che le persone HIV-positive sono maggiormente esposte al rischio di BPCO, ma i dati a conferma dell’associazione tra aumento del rischio e ART sono contraddittori.
Lo studio non ha rilevato differenze degne di nota nei due bracci (terapia precoce e differita) per quanto riguarda la funzionalità polmonare, nei pazienti fumatori come nei non-fumatori.
Il sotto-studio riguardante la funzione neurocognitiva, invece, si proponeva di appurare se il trattamento precoce potesse incidere, appunto, sulle capacità neurocognitive – ossia su funzioni come memoria, concentrazione, capacità di elaborare e reagire alle informazioni. In alcuni studi di coorte erano state osservate modeste diminuzioni nelle capacità neurocognitive – lontane da quelle osservate nella demenza AIDS-correlata, però – in pazienti con infezione avanzata, ed è stato ipotizzato che un inizio precoce della terapia potesse prevenire tali alterazioni.
Questo studio, tuttavia, non ha mostrato “nessun vantaggio (o svantaggio) complessivo legato all’inizio immediato della ART in soggetti asintomatici naive al trattamento con conte dei CD4 elevate”, hanno riferito gli autori. Da questi risultati si desume che in questa popolazione “l’incidenza di deficit neurocognitivo prevenibile con la ART è bassa”, come bassa è anche l’incidenza del declino cognitivo in assenza di trattamento; non è stato inoltre rilevato “alcun chiaro segno di neurotossicità”.
Link collegati
Articolo dedicato al sotto-studio sulla densità minerale ossea su aidsmap.com
Articolo dedicato ai sotto-studi sulla funzionalità polmonare e sulle capacità neurocognitive su aidsmap.com
Epatite C e mortalità: si può curare tutto con la terapia?
Il trattamento per l’epatite C che esita in una risposta virologica sostenuta (SVR) – generalmente considerato la cura dell’epatite C – è risultato associato a un rischio inferiore di morte per malattia epatica e a tassi di sopravvivenza complessivamente più elevanti in un’analisi condotta su 3500 pazienti affetti da coinfezione HIV/HCV (il virus che causa l’epatite C), secondo una presentazione presentata alla Conferenza. Uno studio collegato ha riscontrato che, sebbene alcune patologie epatiche siano effettivamente in diminuzione nel tempo, il tumore al fegato rappresenta ancora un grave rischio per le persone con coinfezione.
Precedenti ricerche avevano dimostrato che una risposta sostenuta al trattamento per l’epatite C era associata a una diminuzione della mortalità nei pazienti HIV-negativi affetti da HCV. Il trattamento può giovare molto alla sopravvivenza dei pazienti con coinfezione, che mostrano una progressione più rapida in fibrosi, oppure può non giovare affatto, perché sono più a rischio di morire per altre cause concomitanti.
Un’analisi di 18 coorti europee di pazienti con coinfezione HIV/HCV condotta da COHERE (Collaboration of Observational HIV Epidemiological Research in Europe), che ha preso in considerazione tutti i pazienti che abbiano mai assunto il trattamento per l’epatite C a base di interferone e li ha seguiti per almeno 96 settimane, ha concluso che chi rispondeva al trattamento aveva meno probabilità di morire di cause correlate al fegato o di altre cause.
Un altro studio, condotto su quattro corti di pazienti con coinfezione sottoposti a trattamento e non, ha invece riscontrato che – sebbene le patologie epatiche non-neoplastiche siano effettivamente in declino rispetto al 2003-4 – l’incidenza del tumore al fegato ha continuato ad aumentare dell’11% circa all’anno. La cirrosi risultava un forte predittore dello sviluppo di tumore al fegato, con un rischio aumentato di 13 volte.
Link collegati
Resoconto completo su aidsmap.com
Il nuovo inibitore della maturazione della BMS
L’inibitore della maturazione di seconda generazione BMS-955176 della Bristol-Myers Squibb ha mostrato di avere una buona attività antivirale contro l’HIV di sottotipo B e C in un piccolo studio ‘proof-of-concept’ ed è risultato sicuro e ben tollerato: lo hanno annunciato gli autori alla Conferenza.
La terapia antiretrovirale (ART) consiste in un insieme di farmaci che colpiscono l’HIV in diverse fasi del suo ciclo di vita. Nessuno dei farmaci attualmente approvati, però, agisce sulle fasi di assemblaggio delle componenti virali, maturazione e fuoriuscita dalla cellula ospite. Un farmaco in grado di inibire questi passaggi rappresenterebbe una valida opzione di trattamento per i pazienti che hanno sviluppato farmacoresistenze estese alle classi di antiretrovirali attualmente esistenti.
Uno studio di fase 2a presentato alla Conferenza ha mostrato che un inibitore della maturazione, ancora sperimentale, in combinazione con atazanavir (con o senza potenziamento con ritonavir) era in grado di abbattere la carica virale quanto una combinazione di tenofovir/emtricitabina e atazanavir (con o senza potenziamento con ritonavir). In un altro degli studi presentati sono stati sperimentati vari dosaggi, ed è risultato che il trattamento con BMS-955176 era generalmente sicuro e ben tollerato nel breve termine; non si sono verificati decessi, né eventi avversi gravi, né abbandoni dello studio a causa di eventi avversi. Gli effetti collaterali più frequenti sono stati cefalee e disturbi onirici. Nella fase dello studio in cui è stato sperimentato il regime di combinazione, l’effetto collaterale più comune è stata invece l’iperbilirubinemia associata all’atazanavir.
Link collegati
Resoconto completo su aidsmap.com
2/11/2015 www.lila.it
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!