La lunga guerra a Gaza

Palestinesi a Rafah, una città nel sud della Striscia di Gaza, conducono operazioni di ricerca e salvataggio tra le macerie degli edifici distrutti dagli attacchi aerei israeliani, 14 dicembre 2023. Ali Jadallah/Anadolu/Getty Images

di Sara Roy,

The New York Review, 19 dicembre 2023. 

In cinquantasei anni, Israele ha trasformato Gaza da un’economia funzionale a una disfunzionale, da una società produttiva a una impoverita.

Gaza viene devastata mentre noi stiamo a guardare. Uno degli obiettivi dichiarati dell’assalto israeliano, che finora ha ucciso più di 19.400 persone, è quello di “distruggere Hamas”, come rappresaglia per l’attacco che ha ucciso a ottobre 1.200 persone nel sud di Israele. Ma alcuni critici, come l’ambasciatore palestinese nel Regno Unito, Husam Zomlot, hanno sostenuto in modo convincente che l’obiettivo di Israele non è tanto quello di sconfiggere Hamas – impossibile in ogni caso – quanto quello di espellere definitivamente i palestinesi da Gaza senza censure o sanzioni internazionali.

Le prove a sostegno delle loro affermazioni sono sempre più numerose. A metà ottobre, il ministero dell’intelligence israeliano ha redatto un documento “concettuale” che propone il trasferimento forzato e permanente dei 2,3 milioni di residenti di Gaza nella penisola del Sinai. Il ministero è meno influente di quanto suggerisca il suo nome, ma le sue idee politiche sono comunque diffuse tra i servizi governativi e di sicurezza. A novembre, un funzionario dell’USAID (Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale) si è rivolto a un mio collega per chiedere la fattibilità della costruzione di una tendopoli nel Sinai, seguita da una sistemazione più permanente nella parte settentrionale della penisola. Più tardi, nello stesso mese, il quotidiano Israel Hayom ha rivelato che il Primo Ministro Benjamin Netanyahu cerca di “ridurre al minimo possibile il numero di cittadini palestinesi nella Striscia di Gaza”.

L’attuale strazio di Gaza è l’ultima tappa di un processo che nel tempo ha assunto forme sempre più violente.

Nei cinquantasei anni trascorsi dall’occupazione della Striscia nel 1967, Israele ha trasformato Gaza da un territorio politicamente ed economicamente integrato con Israele e la Cisgiordania in un’enclave isolata, da un’economia funzionale a una disfunzionale, da una società produttiva a una impoverita. Ha anche rimosso i residenti di Gaza dalla sfera della politica, trasformandoli da un popolo con una rivendicazione nazionalista a una popolazione la cui maggioranza ha bisogno di qualche forma di aiuto umanitario per sostenersi.

La violenza a Gaza non è stata solo o principalmente una questione militare, come lo è ora. È stata una questione di atti quotidiani, ordinari: la lotta per accedere all’acqua e all’elettricità, per nutrire i propri figli, per trovare un lavoro, per andare a scuola in sicurezza, per raggiungere un ospedale, persino per seppellire una persona cara. Per decenni la pressione sui palestinesi di Gaza è stata immensa e inesorabile. I danni che ha provocato – alti livelli di disoccupazione e povertà, distruzione diffusa delle infrastrutture e degrado ambientale, compresa la pericolosa contaminazione di acqua e suolo, tra gli altri fattori – sono diventati una condizione permanente.

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Ho visitato Gaza per la prima volta nel 1985, quando ero una studentessa universitaria. Mi sono subito innamorata della gente del posto, che mi ha accolta come ebrea, americana e donna. In quei primi giorni una delle prime domande che mi venivano poste era: “Sei cristiana?”. Quando venivano a sapere che ero ebrea, c’era un po’ di shock e confusione iniziale, ma anche curiosità. Una volta spiegato che ero lì per conoscere la loro società e la loro economia e per capire come l’occupazione influiva sulla loro vita, non ci voleva molto per guadagnare la loro fiducia. In effetti, il fatto di essere ebrea diventava un vantaggio: persone che mi conoscevano appena mi hanno invitato a entrare nelle loro case e nelle loro aziende. Molti di loro mi avrebbero poi aiutato a raccogliere dati quando ho vissuto a Gaza durante la prima intifada (o rivolta) iniziata nel 1987.

Avevo molto da imparare, ma era chiaro fin dall’inizio che Gaza era stata storicamente il centro della resistenza palestinese all’occupazione, un punto di orgoglio per coloro con cui ho lavorato e vissuto. È stata anche a lungo il centro della memoria storica palestinese. La stragrande maggioranza dei residenti proviene da famiglie che sono state ripulite etnicamente nel 1948 da luoghi come Isdud, al-Majdal e al-Faluja. Alcuni dei miei primi ricordi di Gaza sono i bambini rifugiati che descrivevano nei minimi dettagli le case e i villaggi in cui i loro nonni avevano vissuto, ma che loro non avevano mai visto. Erano straordinariamente intimi con le loro case ancestrali. Ricordo la gioia che provavano per il loro potere descrittivo e l’autostima che ciò dava loro.

Israele non ha mai saputo cosa fare di questa piccola striscia di terra. Fin dall’inizio dell’occupazione, i leader del paese hanno riconosciuto che Gaza avrebbe dovuto essere pacificata per impedire la creazione di uno Stato palestinese – il loro obiettivo primario – e ridurre al minimo la resistenza palestinese se avessero annesso la Cisgiordania. Durante i primi due decenni di occupazione, dalla guerra dei sei giorni del 1967 all’inizio della prima intifada, la loro tattica preferita è stata il controllo dell’economia di Gaza. Oltre 100.000 palestinesi di Gaza e della Cisgiordania lavoravano in Israele. Nel complesso, i territori rappresentavano il secondo mercato di esportazione di Israele dopo gli Stati Uniti e sono arrivati a dipendere fortemente da Israele per l’occupazione e il commercio. Il risultato è stato una combinazione di prosperità individuale – il tenore di vita è migliorato – e di stagnazione comunitaria. I settori produttivi di Gaza, tra cui quello manifatturiero e quello agricolo, hanno ricevuto pochi investimenti, il che ha impedito lo sviluppo.

La prima intifada ha reso chiaro il fallimento di questa strategia di pacificazione. Il miglioramento del tenore di vita non poteva più compensare l’assenza di libertà. Con gli accordi di Oslo del 1993, che segnarono la fine della prima intifada, la politica israeliana passò gradualmente dalla regolamentazione dell’economia di Gaza all’indebolimento e poi alla disattivazione della stessa, vietando il commercio più tradizionale e il movimento dei lavoratori tra Gaza e i suoi mercati primari in Israele e Cisgiordania. Si dice spesso che questa strategia sia iniziata nel 2007, quando Hamas, dopo aver sconfitto Fatah nelle elezioni legislative dell’anno precedente, ha preso il controllo di Gaza. Quell’anno Israele impose un blocco che limitava fortemente sia il commercio con Gaza sia l’ingresso di specifici prodotti alimentari nella Striscia. Ma il blocco – giunto ora al suo diciassettesimo anno – è solo una forma più estrema di misure che erano già in vigore.

All’inizio del 1991 – prima che Hamas iniziasse a lanciare razzi e a orchestrare attentati suicidi – Israele ha iniziato a limitare e periodicamente a bloccare il movimento dei lavoratori da e verso Gaza, nonché il commercio da cui dipendeva in modo sproporzionato la sua piccola economia. Inizialmente l’obiettivo era quello di contenere e reprimere i disordini. Ma, come ha scritto la giornalista israeliana Amira Hass, “si è presto trasformato in qualcosa di più ampio respiro”. Nel gennaio 1991 Israele ha cancellato il permesso generale di uscita che consentiva ai palestinesi di circolare liberamente in Israele, Cisgiordania e Gaza. Da quel momento, i palestinesi dovevano ottenere permessi individuali per lasciare Gaza o la Cisgiordania, o anche per spostarsi dall’una all’altra. Col tempo questi permessi sono stati soggetti a criteri politici e di sicurezza sempre più rigidi. “La guerra del Golfo”, ha scritto Hass, ha fornito l’occasione per invertire [la] situazione di libera circolazione per molti e di divieto per pochi. Da quel momento in poi, il diritto di movimento è stato negato a tutti i palestinesi, con eccezioni per alcune categorie esplicite, tra cui lavoratori, commercianti, persone bisognose di cure mediche, collaboratori e importanti personalità palestinesi.

La cancellazione del permesso generale di uscita segnò l’inizio della politica di chiusura di Israele. A seguito di una serie di attacchi all’interno di Israele nel 1993, “il comandante militare emise un altro ordine che cancellava i permessi di uscita personali”, secondo HaMoked, una ONG per i diritti umani con sede in Israele che assiste i palestinesi. “In pratica, questo ordine, che è stato continuamente rinnovato, ha stabilito la ‘chiusura generale’ dei Territori in vigore fino ad oggi”. Come ha detto B’Tselem, un altro gruppo per i diritti che si occupa di Cisgiordania e Gaza, “isolare Gaza dal resto del mondo, compresa la separazione dalla Cisgiordania, fa parte di una politica israeliana di lunga data”.

Questa politica di separazione e contenimento è diventata più esplicita all’indomani degli accordi di Oslo. Nel 1994 Israele costruì una recinzione intorno a Gaza, la prima di numerose recinzioni. Quando nel 2000 è scoppiata la seconda intifada, sono state imposte restrizioni agli spostamenti dei gazawi, compresi gli studenti, ai quali è stato vietato di proseguire gli studi superiori in Cisgiordania. “L’ingresso dei residenti di Gaza in Israele per visite familiari o per ricongiungersi con il coniuge è stato proibito”, secondo le parole di B’Tselem.

Le visite dei cittadini palestinesi di Israele e dei residenti di Gerusalemme Est ai parenti di Gaza sono state ridotte al minimo. Inoltre, Israele ha limitato fortemente la possibilità di viaggiare all’estero per l’intera popolazione di Gaza, e a molti è stato vietato del tutto di farlo. Le importazioni e le esportazioni sono state limitate e spesso bloccate. Israele ha anche vietato alla maggior parte dei residenti di Gaza di lavorare in Israele, togliendo a decine di migliaia di persone la fonte di reddito.

Nel 2005 Israele si è “disimpegnato” dalla Striscia, rimuovendo tutti gli insediamenti e le forze militari. Da allora, i funzionari israeliani sostengono che ciò abbia formalmente posto fine all’occupazione di Gaza da parte di Israele. Secondo il diritto internazionale, tuttavia, Israele rimane un occupante, in quanto mantiene un “controllo effettivo” sui confini di Gaza (ad eccezione di Rafah, controllato dall’Egitto), sull’accesso al mare, sullo spazio aereo e sul registro della popolazione. Nel corso del tempo è diventato sempre più difficile sia per i politici immaginare una soluzione politica che tratti la Striscia di Gaza e la Cisgiordania come un’unica entità, sia per i palestinesi stessi immaginare un futuro collettivo.

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Un altro effetto cruciale della politica israeliana – più evidente dopo l’ascesa al potere di Hamas nel 2007 – è stato quello di trasformare l’occupazione da una questione politica e legale con legittimità internazionale in una disputa sui confini a cui si applicano le regole del conflitto armato. Israele ha di fatto trasformato il suo rapporto con Gaza da occupazione a guerra, come dimostrano i numerosi attacchi mortali lanciati sul territorio negli ultimi diciassette anni, tra cui l’Operazione Piogge d’Estate (2006), l’Operazione Inverno Caldo (2008), l’Operazione Piombo Fuso (2008-09), l’Operazione Pilastro di Difesa (2012), l’Operazione Protective Edge (2014), l’Operazione Guardiano delle Mura (2021), l’Operazione Breaking Dawn (2022) e l’Operazione Scudo e Freccia (2023). I suoi alleati internazionali hanno rapidamente accettato questo cambiamento: Gaza è stata identificata esclusivamente con Hamas e trattata come un’entità straniera ostile.

Con questo nuovo approccio, Israele ha rinunciato del tutto all’idea che Gaza potesse avere un’economia di mercato. “Come parte del loro piano generale di embargo contro Gaza”, scrissero i funzionari statunitensi da Tel Aviv nel novembre 2008, “gli israeliani hanno confermato… in più occasioni che intendono mantenere l’economia di Gaza sull’orlo del collasso senza spingerla nel precipizio”. Più specificamente, miravano a mantenerla “funzionante al livello più basso possibile, compatibilmente con l’obiettivo di evitare una crisi umanitaria”. L’obiettivo, cioè, non era quello di elevare le persone al di sopra di uno specifico standard umanitario, ma di garantire che rimanessero a tale standard o addirittura al di sotto.

Bambini palestinesi raccolgono cibo in un punto di donazione a Rafah, Gaza, 6 dicembre 2023. Mohammed Abed/AFP/Getty Images

Dal 2010, Israele ha periodicamente allentato le restrizioni, ma il blocco ha comunque distrutto quasi completamente l’economia di Gaza. Alla vigilia dell’attuale conflitto, il tasso di disoccupazione era del 46,4%. (Nel 2000, prima del blocco, era al 18,9%). Circa il 65% della popolazione era insicura dal punto di vista alimentare, il che significa che non poteva accedere in modo sicuro a una quantità di cibo nutriente sufficiente a soddisfare le proprie esigenze alimentari, mentre l’80% necessitava di una qualche forma di assistenza internazionale per sfamare le proprie famiglie.

Forse il risultato più eclatante di questa politica è stata la trasformazione dei palestinesi di Gaza da una comunità con diritti nazionali, politici ed economici in un problema umanitario. I bisogni di oltre due milioni di persone sono stati ridotti a sacchi di farina, riso e zucchero, assistenza di cui la comunità internazionale era e rimane interamente responsabile. Gaza ha potuto sperimentare solo il sollievo, non il progresso. Da allora, l’umanitarismo è diventato il modo principale con cui i donatori internazionali interagiscono con i palestinesi di Gaza –a tutti gli effetti uno strumento che l’esercito israeliano usa per gestire una popolazione indesiderata, senza alcuna prospettiva se non quella di un maggior controllo. “La Cisgiordania e Gaza sono ormai quasi completamente separate”, si legge in un rapporto del 2008 della Banca Mondiale, “e Gaza si sta trasformando da potenziale via commerciale a centro recintato di donazioni umanitarie”.

In altre parole, Israele ha creato un problema umanitario per gestire un problema politico. Non solo ha reso necessario l’intervento umanitario, ma ha trasformato la vita ordinaria in una guerra con altri mezzi, usando la minaccia di catastrofe come forma di governo e la sofferenza come strumento di controllo. Fino a poco tempo fa l’obiettivo era solo quello di evitare un disastro su larga scala come la carestia.

Ora questo obiettivo è stato superato. Nelle ultime dieci settimane, con l’eccezione di una “pausa umanitaria” di una settimana, Gaza è stata sottoposta a un assedio totale; Israele ha praticamente bloccato l’ingresso di carburante e limitato l’ingresso di cibo, tra gli altri beni di prima necessità. Ai palestinesi che si sono rifiutati di trasferirsi nella parte meridionale della Striscia dopo gli avvertimenti dell’esercito israeliano all’inizio dell’assalto è stato detto che “potrebbero essere identificati come complici di un’organizzazione terroristica”. Il metro di misura è passato dalla fame alla morte. “Sono ancora vivo” è la misura con cui vivono i miei amici a Gaza.

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A Gaza, dove la stragrande maggioranza della popolazione è confinata in una minuscola striscia di terra che non può lasciare, l’occupazione ha impedito l’emergere di qualsiasi tipo di ambiente sociale normale. I giovani, che rappresentano oltre la metà della popolazione, non hanno alcuna concezione del mondo al di fuori della Striscia. Non sanno cosa significhi imbarcarsi su un aereo, una nave o persino un treno. Durante il mio ultimo viaggio a Gaza nel 2016, un amico e collega mi ha detto: “La gente ha paura di entrare nel mondo, o ci entra in modo difensivo, armi in mano. La nostra apertura al mondo si sta restringendo e sempre più persone hanno paura di lasciare Gaza perché non sanno come affrontare il mondo esterno, come un prigioniero che esce di prigione dopo anni di reclusione.”

A Gaza, la vita quotidiana comporta un restringimento dello spazio e della sicurezza di poter vivere in quello spazio, così come un restringimento dei desideri, delle aspettative e delle visioni. “Date le immense difficoltà della vita quotidiana”, ho scritto per la London Review of Books dopo quel viaggio del 2016, “le necessità più banali – avere cibo a sufficienza, vestiti, elettricità – esistono per molti solo a livello di aspirazione”. Ora anche le cose più banali sono in gran parte fuori portata.

Nel 1946 Chaim Weizmann, il primo presidente di Israele, si occupò della fattibilità del progetto sionista. “La capacità di sviluppo economico di un Paese è pari a quella della sua popolazione”, disse.

“Le condizioni naturali, la fertilità dell’area, il clima eserciteranno la loro influenza… ma da sole non possono dare alcuna indicazione sul numero di abitanti che il Paese può sostenere in ultima analisi. I risultati finali dipenderanno dal fatto che un popolo sia istruito e intelligente… dal fatto che il suo sistema sociale incoraggi o meno la più ampia espansione dello sforzo economico; dal fatto che si faccia un uso intelligente delle risorse naturali; e infine – e in misura molto elevata – dal fatto che il governo si adoperi per aumentare la capacità di sviluppo del Paese o se ne disinteressi.”

Sono proprio questi fattori – una popolazione istruita, un’economia e una società sane e potenti, un uso produttivo delle risorse naturali e il controllo indigeno sulla capacità di sviluppo del paese – che Israele ha ampiamente negato ai palestinesi. Fin dall’inizio dell’occupazione, questa negazione è stata indefinita o transitoria, una condizione imposta ai palestinesi con la promessa di qualcosa di meglio all’orizzonte. Non dimenticherò mai ciò che un caro amico, il defunto medico Hatem Abu Ghazaleh, mi disse durante il mio primo viaggio a Gaza nel 1985: “Niente è più permanente del temporaneo”.

Sara Roy è associata al Centro di studi mediorientali dell’Università di Harvard. Il suo libro più recente è Unsilencing Gaza: Reflections on Resistance.

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

1/1/2024 https://www.assopacepalestina.org/

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