Alcuni (s)punti per la difesa del Servizio sanitario nazionale

di Vittorio Demicheli

Si propongono, di seguito, alcuni spunti di riflessione e si indicano alcuni possibili obiettivi da porre al centro delle rivendicazioni per la difesa e il rilancio del servizio sanitario nazionale.
Gli spunti, di seguito presentati in forma sintetica, vengono integrati da alcune note di approfondimento contenenti dati e informazioni in larga misura provenienti dalla edizione 2023 del rapporto Oasi a cura dell’Università Bocconi di Milano.

  1. Difendere la sanità pubblica

Il nostro SSN sta vivendo una stagione di declino. La copertura pubblica della spesa sanitaria, pur essendo ancora presente (74%) sta progressivamente diminuendo mentre cresce la spesa privata (oltre 40 miliardi quasi tutti provenienti direttamente dalle famiglie). Le previsioni di spesa pubblica per i prossimi anni vedranno l’Italia agli ultimi posti tra i paesi europei (circa il 6% del PIL contro il 9-10% dei paesi analoghi al nostro). (1)

L’universalismo del SSN è ormai solo un’etichetta: oltre 1/3 delle visite specialistiche e ¼ delle procedure diagnostiche sono a pagamento. La privatizzazione (tramite esternalizzazione) dei servizi è all’ordine del giorno, favorita da vincoli di bilancio sempre più stringenti e contradditori. (2)

Contemporaneamente si assiste a una imponente crescita dai consumi privati (3).

Questa situazione, oltre a minacciare la salute, produce gravi disuguaglianze: in un momento in cui crescono povertà e disagio sociale, una quota crescente della popolazione è costretta a rinunciare alle cure.

Occorre contrastare questa deriva non solo rivendicando un maggior finanziamento pubblico (condizione indispensabile) ma orientandolo al principio fondamentale dell’universalismo.

Preservare l’universalismo non significa lasciare tutto immutato. Anzi, è vero il contrario. Perché salvaguardare l’universalismo significa promuovere quelle innovazioni indispensabili per adeguare il SSN a una domanda di tutela in continuo cambiamento e per evitare il fiorire, soprattutto in momenti di crisi, di interventi-tampone che indeboliscono il sistema.

L’obiettivo è adeguare progressivamente il sistema, offrendo una protezione universale a costi sostenibili a carico della fiscalità generale, evitando le inefficienze e le iniquità propri dei mercati privati, contrastando quei fenomeni (di scadimento qualitativo del servizio o di aumento dei costi al momento del consumo) che ormai constatiamo ogni giorno.

Per preservare l’universalismo occorre rilanciare alcuni principi fondanti sempre più trascurati:

  • ripensare l’assetto istituzionale e organizzativo del sistema sanitario per mitigare i danni prodotti da decenni di aziendalizzazione e di cultura del mercato
  • contrastare la crescente privatizzazione prodotta dalla esternalizzazione dei servizi e gli affidamenti al ribasso
  • riformare in modo sostanziale il rapporto con la sanità privata per limitarne la presenza e governarne le azioni
  • far evolvere l’approccio di cura verso la presa in carico e la medicina d’iniziativa
  • ricercare l’integrazione tra servizi sanitari e servizi assistenziali (perché il bisogno di cura non riconosce gli attuali confini) e armonizzarla con l’insieme degli altri servizi che concorrono al benessere e promuovono, in modo indiretto, la salute.

Certamente molte di queste rivendicazioni riguardano l’ambito di intervento del governo nazionale. Ma la difesa del servizio sanitario pubblico richiede anche il contributo, irrinunciabile, dell’azione di governo della Regione.

Il percorso, appena avviato, di realizzazione della cosiddetta “autonomia differenziata” è destinato ad accelerare in modo irreversibile il declino del SSN e ad amplificare le tante disuguaglianze già presenti nel nostro paese. La difesa della sanità pubblica passa anche attraverso il contrasto attivo di questo progetto.

  1. Valorizzare le risorse professionali

Il declino in atto nel nostro SSN è particolarmente evidente considerando la vera e propria crisi che affligge il personale operante nei servizi sanitari. (4)

L’assenza di programmazione e decenni di tetti e di tagli (strumenti principali di contenimento della spesa) hanno portato a una situazione di gravissima carenza quantitativa e a uno stato di diffusa sofferenza qualitativa. Le condizioni di lavoro, i carichi, le responsabilità e i rischi hanno accelerato l’abbandono o la fuga degli operatori (anche verso un mercato del lavoro privato che è stato colpevolmente alimentato e lasciato crescere).

In questo momento il Governo propone di rimediare alle carenze facendo lavorare di più i pochi operatori rimasti proponendo incentivi e lavoro straordinario!

Decenni di errori e insufficienze non saranno certo cancellati in questo modo (e nemmeno in poco tempo). Occorre chiedere di rimuovere i tetti e formare più professionisti, ma ribaltando l’approccio fin qui seguito.

Un SSN che si adegua ai cambiamenti della società e che rinnova la propria attività non può lasciare immutata l’organizzazione del lavoro, le competenze e le relazioni fra professionisti.

La riorganizzazione dei servizi ha bisogno di una riorganizzazione del lavoro e di una nuova ripartizione dei compiti, in particolare nell’organizzazione del personale e del mix di figure, nelle competenze attribuite ai diversi profili professionali, nei sistemi di relazione fra le professioni.

Specifica attenzione dovrebbe essere riservata al mondo delle professioni sanitarie, spesso ancora sottovalutate e sottoutilizzate, nonostante siano riconosciute come quelle più vicine ai pazienti.

Bisogna investire nelle risorse professionali, riconoscere che sono l’elemento fondante del SSN e che si potranno conseguire risultati di salute solo valorizzando il lavoro di cura.

  1. Innovare il sistema: curare in modo attivo nel territorio

Lo stato di salute della nostra popolazione (che vede, con l’invecchiamento, il prevalere di malattie croniche degenerative) richiede un profondo cambiamento nell’approccio alle cure.

Al nostro attuale sistema basato sull’erogazione di singole prestazioni sanitarie (principalmente fruite in ospedale) occorre sostituire un sistema di presa in carico dei bisogni di cura (centrato sul territorio) che pianifichi, in modo attivo, la cura delle persone. Un sistema orientato a prevenire l’aggravamento della cronicità e in grado di dare risposta (vicino ai cittadini, possibilmente a domicilio) ai bisogni dei malati.

Da anni si riconosce questa esigenza che però non va oltre le intenzioni. Eppure il futuro delle politiche sanitarie è nelle cure primarie, sul cui ammodernamento devono concentrarsi gli sforzi dei decisori e dei professionisti.

Il momento di particolare difficoltà potrebbe contribuire a superare con forza quegli ostacoli che fino a ora hanno impedito una sostanziale riorganizzazione delle cure primarie, la cui centralità potrebbe rappresentare anche una opportunità concreta per la sostenibilità del sistema.

La riorganizzazione potrebbe essere delineata a partire dal Piano Cronicità, già ampiamente definito a livello nazionale, con l’obiettivo di unificare le figure del medico del territorio, superare il lavoro in solitudine dello stesso, sviluppare la sanità di iniziativa, mettere lo specialista al servizio dei percorsi di diagnosi e cura (anche coinvolgendo i professionisti ospedalieri), individuare punti di riferimento sul territorio che affianchino – e sostituiscano quando possibile – la struttura ospedaliera (gruppi di cure, strutture di comunità, case della salute, ecc.), organizzare la medicina di famiglia in forme aggregate (multi-professionali) in grado di assicurare ampio accesso ai servizi territoriali e secondo modelli pro-attivi di cura che assicurino anzitutto la presa in carico dei malati cronici.

Occorre mettere il paziente al centro del sistema e promuovere la continuità delle cure. La natura e le caratteristiche attuali della malattia sono fortemente mutate. Le malattie croniche, che dominano il quadro epidemiologico, rappresentano vere e proprie esperienze esistenziali: condizioni con cui si deve convivere e che producono bisogni non solo di cura (diagnosi, trattamenti, riabilitazione) ma anche e soprattutto di assistenza per sostenere le funzioni di vita (lavorare, nutrirsi, abitare, ecc.) compromesse dalla cronicità. Questi mutati bisogni richiedono al sistema dei servizi sociosanitari di adeguare la propria organizzazione ponendo i bisogni del paziente al centro della progettazione delle cure e dei servizi e garantendo innanzitutto la continuità tra i tanti luoghi in cui oggi sono organizzate le cure.

L’attuale governo regionale è lontano anni luce da questa consapevolezza.

  • Continua a sfornare piani ospedalieri puramente edilizi senza inquadrarli in progetti che riconoscano questi nuovi bisogni di cura e la necessità di innovare il sistema.
  • Continua a progettare strumenti di governo (i dipartimenti regionali, l’azienda zero!) senza farli operare perché non stabilisce le strategie, gli obiettivi verso cui orientare il nostro SSR.

Il PNRR porterà anche nella nostra regione consistenti investimenti per la costruzione di nuove strutture territoriali senza fornire indicazioni né risorse per il loro funzionamento.

In assenza di un piano di sviluppo delle cure territoriali, in assenza di una traiettoria culturale di trasformazione dell’organizzazione territoriale attuale, queste nuove strutture sono destinate a rimanere scatole vuote, generatrici di problemi e frustrazioni ulteriori. (5)

  1. Rilanciare la prevenzione

Nel nostro Paese si verificano ancora eventi largamente prevenibili che comportano costi sociali elevati. Basta pensare all’infortunistica (stradale, domestica e lavorativa) o alle conseguenze sanitarie di alcuni stili di vita (eccessi alimentari, insufficiente attività fisica, abuso di sostanze, comportamenti a rischio) che sono all’origine della maggior parte delle malattie croniche che affliggono la nostra popolazione. (6)

La prevenzione di questi fenomeni e la modifica di questi comportamenti potrebbe produrre significativi risparmi di risorse di cura e contribuirebbe a migliorare la qualità della vita. Per favorire la prevenzione occorre adottare una visione positiva della salute. Pensare la salute come uno strumento di benessere, come una risorsa necessaria per godere pienamente della vita e non come un precario equilibrio da mantenere al prezzo di rinunce e privazioni.

Per promuovere la salute, il sistema dei servizi socio-sanitari non basta. Occorre ricercare alleanze con altri soggetti e reti sociali che hanno a cuore il benessere comune: in primo luogo il mondo dell’educazione e, più in generale, quello della cultura, quello della comunicazione, della solidarietà e dell’auto-aiuto. Spostare sempre di più l’attenzione dall’erogazione degli interventi e delle singole prestazioni preventive (vaccini, esami diagnostici, ecc.) allo sviluppo di vere e proprie politiche di prevenzione capaci di far convergere verso obiettivi di salute gli interessi di produttori, cittadini e istituzioni. Promuovere la salute e prevenire le malattie possono essere quindi modi molto concreti per salvaguardare il welfare in un momento di crisi economica.

  1. Uscire dal coma e mettere la salute al centro

Il sistema dei servizi socio sanitari è solo uno dei tanti strumenti necessari per promuovere il benessere delle comunità. Occorre guardare in modo integrato a tutte le dimensioni del benessere e promuovere un’idea ampia di welfare che guardi all’insieme delle politiche sociali (la salute, il lavoro, l’istruzione, i trasporti, l’innovazione e la ricerca, la sicurezza sociale) favorendo la promozione e l’inclusione sociale.

Certamente stiamo attraversando un momento difficile ma una Regione assolve a compiti e dispone di risorse che possono contribuire al benessere comune e non può sottrarsi alle proprie responsabilità.

Bisogna uscire dallo stato soporifero che ha caratterizzato la stagione di Cirio e rilanciare l’iniziativa regionale pendendo atto di alcuni principi:

  • il pareggio di bilancio è solo un vincolo non può diventare l’obiettivo a partire dai bisogni sanitari che si vuole soddisfare per decidere il livello di spesa socio sanitaria che si deve sostenere
  • riordinare il sistema controllando il rispetto dei livelli di assistenza prima che dei tetti di spesa
  • ripristinare gli strumenti di governo (la programmazione sanitaria, la valutazione della performance aziendale, la partecipazione democratica)
  • adottare stabilmente il metodo della valutazione ex ante (dichiarando gli obiettivi di salute e di servizio che si intende raggiungere) ed ex post (verificando il reale raggiungimento di tali obiettivi)
  • Occorre mettere la salute al centro delle politiche regionali.
  • Il Piemonte ha bisogno di un “nuovo patto per la salute” che responsabilizzi e impegni verso la salute gli amministratori, i professionisti e i cittadini
  • Occorre recuperare la visione d’insieme e insieme decidere obiettivi generali di governo del sistema sanitario che consentano di superare localismi ed egoismi (chi dovrà rinunciare a qualche servizio deve poterlo fare in vista di vantaggi tangibili per la salute della propria popolazione, non in nome dei risparmi regionali)
  • Ripristinare i metodi della democrazia coinvolgendo le comunità locali e i loro rappresentanti nelle decisioni che le riguardano
  • Aumentare la trasparenza sugli atti del governo regionale e rendere fruibili le informazioni sullo stato di salute dei cittadini e sul funzionamento dei servizi
  • Riprendere l’interlocuzione con il mondo della sanità (i pazienti, i professionisti, i fornitori, gli amministratori) ricercando condivisione e responsabilizzazione attorno alle principali decisioni che riguardano il futuro della sanità piemontese.

Note

(1) Il finanziamento della sanità nel contesto della spesa pubblica

L’Italia del 2023 registra un numero di over65, e dunque di potenziali pensionati, doppio rispetto a quello dei minori di 15 anni: 14,1 milioni contro 7,3 milioni.
Del resto, l’Italia è contemporaneamente uno dei Paesi con la più bassa fertilità al mondo (1,2 figli per donna) e con le migliori speranze di vita: 80,5 anni per gli uomini e 84,8 anni per le donne. INPS (2023) dichiara di corrispondere 13,7 milioni di pensioni previdenziali a fronte di 23,6 milioni di occupati.
Il rapporto tra lavoratori e pensionati è oramai di 1,7 a 1.
Il dato è in costante peggioramento a causa della decrescente natalità, della ridotta percentuale di occupati (62%), di una programmazione dell’immigrazione regolare insufficiente e dell’aumento progressivo, anche se in rallentamento, della speranza di vita media.
La crescita della popolazione anziana e i meccanismi di rivalutazione collegati all’inflazione comportano, a politiche invariate, previsioni di aumento della spesa pensionistica di 64 miliardi nel solo periodo 2022-2026: un incremento del 22% per un comparto che già oggi assorbe il 15% del PIL, oltre il doppio della sanità pubblica (6,7%). A tale previsione si aggiunge un secondo fattore di rigidità, molto rilevante: il peso del debito pubblico. Esso è più oneroso del passato a causa delle note dinamiche inflazionistiche e di aumento dei tassi di interesse. Anche per gli interessi passivi, che oggi assorbono il 4% del PIL, si prevede una crescita di circa 20 miliardi (+24%) entro il 2026.
A fronte di una base imponibile piuttosto statica, anzi tendenzialmente in decrescita a causa della riduzione della popolazione attiva, l’aumento automatico degli interessi sul debito e della spesa pensionistica spiazza gli altri comparti del welfare pubblico, in particolare la sanità, la scuola, il sociale e il trasporto pubblico.
Lo scenario demografico e macroeconomico ha un impatto diretto sul SSN. Secondo le previsioni a legislazione invariata, rispetto al 2022, entro il 2026 la spesa sanitaria crescerà di 8 miliardi. Si tratta di un aumento percentuale del 6% in quattro esercizi, largamente al di sotto del trend economico e inflattivo previsto, che conduce quindi a una riduzione della sua incidenza nominale e reale sul PIL: dal 6,7% al 6,1%.

(2) Universalismo in crisi

Il SSN italiano, come noto, dispone di risorse per la copertura sanitaria pubblica che sono tra le più modeste dell’Europa occidentale, lontane dalle percentuali di Francia, Germania e Regno Unito, che si collocano tra il 10% e l’11% del PIL.
Con tali risorse l’SSN deve prendere in carico la popolazione tra le più anziane del mondo secondo i dati ISTAT: il 24% degli italiani sono over 65; il 40% della popolazione dichiara almeno una patologia cronica, il 21% una poli-patologia; si stimano 3,9 milioni di persone non autosufficienti. In questo scenario, vengono perpetuate dichiarazioni di intenti universalistiche, con tensioni verso panieri di prestazioni coperte teoricamente sempre più generosi. Un’opzione però non realistica a fronte della contrazione delle risorse, dell’aumento dei costi di produzione e dell’incremento dei bisogni.
Le ultime evidenze disponibili (2021), infatti, segnalano che ormai il 50% delle visite specialistiche ambulatoriali sono pagate privatamente, così come il 33% degli accertamenti diagnostici ambulatoriali. Allo stesso modo, la riabilitazione domiciliare e ambulatoriale è in larga maggioranza a pagamento (seppure virtualmente coperta), come da sempre l’odontoiatria (esclusa comunque dalla copertura). Il tasso di copertura dei bisogni epidemiologicamente rilevati in ambito di salute mentale e dipendenze è del 30-40%.
Solo il 7% dei quasi 4 milioni di anziani non autosufficienti ha una presa in carico di tipo residenziale: prevalentemente, ricovero in RSA. Il 26% riceve assistenza domiciliare, sociosanitaria (22%) o almeno sociale, anche se con la media ADI è di 16 accessi in un anno. Il 5% riceve assistenza, prevalentemente sociale, in centri diurni. Può essere che una quota di tali utenti riceva anche assistenza domiciliare. Tuttavia, anche adottando un criterio ottimistico, il tasso di copertura del bisogno si ferma al 38%. Almeno il 62% della popolazione con limitazioni funzionali, stimabile in 2,4 milioni di persone, non riceve alcun servizio pubblico.

(3) I consumi privati in sanità

Al progressivo ridursi della copertura offerta dal SSN è corrisposta una imponente crescita dei consumi privati. Le dimensioni sono di tutto rilievo: nell’ultimo decennio la spesa complessiva per prestazioni sanitarie private è passata da 34 a 41 miliardi di euro (46 se si considera anche la spesa per prestazioni sociosanitarie). Se la spesa sanitaria pubblica corrisponde a circa il 6,5% del PIL, quella privata ha raggiunto il 2,2%. Metà di questa spesa è dedicata all’acquisto di prestazioni ambulatoriali (8,6 miliardi di cure odontoiatriche; 5,4 per visite specialistiche; 3,2 per accertamenti; 3,5 per prestazioni infermieristiche). Il rimanente sostiene l’acquisto di farmaci e attrezzature medicali (circa 15 miliardi) e ricoveri ospedalieri (3,6 miliardi dei quali per ricoveri in post acuzie). Infine, ancora di ridotte dimensioni, ma in rapida crescita, è anche la spesa per assicurazioni e altri servizi di sanità integrativa (passati da 2,9 a 4,7 miliardi nell’ultimo decennio).
In questo quadro si assiste all’ampliamento e all’adeguamento del sistema di offerta sempre più orientato a soddisfare prioritariamente i consumi dei pazienti paganti in proprio. Significativa, a questo proposito, l’evoluzione in atto nelle farmacie territoriali che stanno trasformandosi, sempre più, in luoghi di erogazione di prestazioni sanitarie, riuniti in vere e proprie catene di produzione, completamente avulsi dal contesto dei servizi territoriali con cui dovrebbero coordinarsi.
Oltre a gravare direttamente sui bilanci familiari, questi consumi sono portatori di pesanti conseguenze. Innanzitutto, aggravano le disuguaglianze di salute presenti nella popolazione, perché possono essere sostenute solo dalle fasce a maggior reddito. Poi si limitano ad ampliare l’offerta di prestazioni sanitariesporadiche senza alcuna logica di presa in carico dei pazienti producendo sprechi e inappropriatezza. Infine: alimentando un mercato del lavoro alternativo e in concorrenza col SSN facilitano la fuga di professionisti verso gli erogatori privati aggravando la già precaria situazione presente nelle strutture pubbliche.

(4) Le risorse professionali

Occorre avviare una riflessione approfondita sulle questioni che riguardano il personale del SSN, forse la sfida più complessa da affrontare e risolvere. Pesano certamente alcuni fattori esterni al settore, altri decisamente più specifici, come i livelli retributivi inadeguati o le condizioni di lavoro. Alle carenze di medici, soprattutto per alcune aree specialistiche, si aggiunge il dato sull’età media. Nel 2020 il 56% del personale medico italiano aveva più di 55 anni di età, il valore più alto tra tutti i paesi dell’Unione europea. Oggi, inoltre, assistiamo impotenti alla fuga dei nostri operatori sanitari. Solo nel 2021 hanno lasciato il SSN in 5mila.
La nuova programmazione delle facoltà di medicina provvederà a ristabilire, dal 2030, un numero di medici specializzati consistente, con alcune specifiche carenze in discipline come emergenza-urgenza, anestesia, medicina di laboratorio. All’opposto, mancheranno significativamente gli infermieri a causa della carenza strutturale di vocazioni, indipendentemente dal numero di posti disponibili per la formazione universitaria.
Nel 2023, le facoltà di medicina offriranno al settore tanti medici quanti infermieri (10.000 circa), quando il fabbisogno dei secondi è circa 2,5-3 volte il primo, anche considerando solamente la sostituzione degli occupati attualmente operanti nel sistema.
Molte delle 23 professioni sanitarie invece, al momento, non vengono ritenute in alcun modo fungibili per alcuni processi, attualmente di esclusiva competenza degli infermieri o di altre professioni sanitarie sempre più ricercate.
A tutto questo si deve aggiungere che il rapporto tra il numero di medici e infermieri in servizio, il cosiddetto skill mix, non è cambiato nel tempo. Le crescenti difficoltà di reclutamento riguardano anche il personale delle professioni sanitarie e in prospettiva in misura più rilevante rispetto alla componente medica, con un preoccupante calo del numero di iscritti ai corsi di laurea (- 10,5%, a settembre 2023).

Nel complesso, si stima una necessità reale di almeno 30.000 operatori sanitari in più, che sarebbero certamente un volano per lo sviluppo delle nostre Aziende, ma anche per l’economia del Paese.
Alle criticità del reclutamento si aggiunge la difficoltà di non poter contare sulla piena disponibilità delle risorse in organico, a causa delle assenze e delle limitazioni per inidoneità.
Alla situazione attuale ha concorso una pluralità di elementi.

Sicuramente una programmazione inadeguata, in particolare degli accessi alle specialità incrementati solo di recente, prevedendo anche la possibilità per i medici in formazione di partecipare ai concorsi già dal secondo anno di specializzazione.
Le norme per il reclutamento del personale sono vetuste, appesantite da numerosi adempimenti formali, occorre rapidamente riformarle.
Le statistiche vedono l’Italia agli ultimi posti in Europa per livello delle retribuzioni: vengono formati medici e infermieri riconosciuti tra i migliori che poi fuggono all’estero o verso il privato. C’è stata scarsa attenzione a creare politiche che consentano ai professionisti di conciliare la vita personale con quella lavorativa e ad offrire adeguate possibilità di progressione di carriera.
Ma ciò che ha pesato maggiormente sono gli effetti delle politiche di riduzione della spesa pubblica, in particolare il tetto di spesa per il personale.
Forse servono nuove regole, ma è certamente necessario eliminarne alcune vecchie e anacronistiche. In primo luogo, abbandonare la logica dei tagli lineari. Il tetto di spesa per il costo del personale, impossibile da sforare, è datato 2004, sta per compiere 20 anni!
Dobbiamo, in una parola, guardare ai nostri operatori riconoscendone il ruolo di professionisti e valorizzandolo in pieno, lasciando a ciascuno la possibilità di investire sulla propria professione.

(5) Il territorio: una traiettoria culturale

Per innovare il SSN e favorire lo sviluppo di un sistema di cura attivo, centrato sul territorio è utile una riflessione su alcuni nodi di tipo culturale che ne caratterizzano la natura, l’evoluzione, la percezione e la valutazione.

  • La definizione di salute: nel corso degli anni il perimetro di ciò che consideriamo salute si è modificato e ampliato considerevolmente per comprendere bisogni di salute sempre meno “essenziali”. Si potrebbe dire che, oltre alla sopravvivenza in sé, la salute considera, ormai, la qualità della sopravvivenza e si preoccupa, in generale, del benessere delle persone. Inoltre: da un concetto assoluto (il completo benessere fisico, psichico e sociale) si muove verso una concezione relativa (la massimizzazione di una funzionalità residua, compatibile con l’età e la cronicità).
  • Funzione o struttura: per gli operatori sanitari l’esistenza di una struttura costituisce un riferimento rassicurante. Si potrebbe dire che “l’ospedale è solido mentre il territorio è liquido”. Questo determina una sorta di superiorità della concezione strutturale e la ricerca di modelli territoriali equivalenti (la casa della salute, il poliambulatorio, il consultorio) che spesso si limitano a definire gli aspetti organizzativi e architettonici senza occuparsi, ad esempio, di risultati attesi, di forme di governo, distribuzione dei poteri, ecc. Insomma, per usare una facile metafora: una casa della salute può essere un condominio litigioso (ben dipinto ma dove ciascuno si fa i fatti suoi) oppure una comunità armonica (dove si ripartiscono i doveri e si condividono sia i pasti che l’educazione dei figli).
  • Presa in carico o prestazione: i nostri servizi sono improntati alla cultura della prestazione. I LEA ne sono la massima espressione e la loro esportazione ad altri settori della vita sociale viene invocata e auspicata. La prestazione, spesso, risponde a un bisogno semplice e comporta la fruizione di un’azione concreta e specifica.
    I bisogni delle persone, ormai, sono spesso molteplici e complessi e non si identificano quasi mai con le singole prestazioni che i servizi sono in grado di offrire.
    Soprattutto perché ogni istituzione eroga solo le prestazioni di propria pertinenza e nei limiti delle risorse di cui dispone. Ne risultano continui paradossi: la “sanitarizzazione” dei problemi sociali (per scaricare all’ASL costi che il Comune non può sostenere) il disorientamento dei pazienti (che talvolta non riescono ad ottenere prestazioni che esistono ma sono nascoste in articolazioni organizzative sconosciute o inaccessibili), la frustrazione degli operatori (costretti ad erogare solo ciò di cui dispongono e non ciò di cui il paziente avrebbe bisogno).
  • Frammentazione o integrazione: è ormai lontanissima nel tempo l’idea dell’unità locale dei servizi. Anni di evoluzione normativa e di incursioni corporative hanno portato a un sistema locale di servizi estremamente frammentato e parcellizzato. Gli enti locali (cui sono affidati quasi tutti i servizi sociali fondamentali) sono fortemente sottofinanziati e non riescono a dare risposte se non ai problemi più acuti (o percepiti come tali). La salute, man mano che si deteriora, determina una perdita di autonomia. Per contrastare questa deriva occorrono sia interventi sanitari che servizi sociali. Anzi: spesso il servizio sociale è condizionante per la salute (senza reddito non si sopravvive, senza trasporti non ci si cura, ecc.). Occorrerebbe sviluppare la massima integrazione tra questi servizi che concorrono alla salute. Superare gli steccati istituzionali e i loro rigidi sistemi di finanziamento per silos. Occorrerebbe costruire una funzione di accoglienza e accompagnamento delle persone in condizioni di bisogno in modo da orientarle nella fruizione dei servizi di cui necessitano.
  • Governo o governance: le varie istituzioni e le varie corporazioni professionali che agiscono sul territorio hanno sviluppato e utilizzano regole di governo del proprio funzionamento che raramente prendono in considerazione le esigenze e il punto di vista dei cittadini e degli utenti dei loro servizi. Ne deriva la frammentazione cui si è accennato e una scarsa accessibilità che fa percepire questi servizi come lontani e insensibili ai problemi della comunità. Occorrerebbe trovare i modi per superare questa situazione. Nella sua modellizzazione dell’ASL, prima della riforma sanitaria, Giulio Maccacaro proponeva di stabilire le dimensioni ottimali di un distretto sociosanitario
  • scegliendo l’ambito territoriale che massimizzava l’esercizio della partecipazione democratica. Oggi non vi è cenno, negli atti di indirizzo, nemmeno dello sviluppo di una funzione non rituale di ascolto o di qualche modalità di partecipazione della comunità alle decisioni strategiche che vengono prese dalle case della comunità.
  • Medicina generale o d’iniziativa: la nostra medicina generale, ispirata a un modello anglosassone di cui ha importato solo la forma contrattuale, è palesemente inadeguata e va superata. Però costituisce una realtà radicata nel territorio e con solide relazioni di prossimità con le istituzioni e la politica. Occorre avviare un percorso di superamento che preveda, innanzitutto, una sua evoluzione verso la pratica attiva e il lavoro in equipe. E’ opportuno agevolare questo percorso inquadrandolo nell’iniziativa generale di rilancio del territorio ed evitando di banalizzare il tema identificandolo con la sola forma contrattuale della medicina generale. La pandemia ha evidenziato efficacemente i limiti della pratica attuale della medicina generale (la frammentazione e l’isolamento organizzativo in cui operano questi medici, l’obsolescenza del principio della loro assoluta centralità nell’organizzazione territoriale, l’inefficacia delle forme di governo esistenti nell’orientare il loro comportamento verso un obiettivo comune, ecc). E’necessario analizzare e riflettere su quanto accaduto per innescare e sostenere ogni possibile evoluzione.
  • Non solo medici: si è già fatto cenno alla complessità e alla multidimensionalità dei bisogni di salute oggi prevalenti. Anche considerando solo i bisogni sanitari propriamente detti (la prevenzione, la diagnosi, la cura, la riabilitazione) è del tutto evidente che la risposta non è più solo nelle mani di un solo professionista. La creazione e la disponibilità di oltre 20 figure professionali sanitarie diverse costituisce un fattore positivo. Il sistema sanitario ne risulta arricchito e più adeguato a farsi carico di problemi complessi. Occorre però assicurare modalità di collaborazione e di integrazione del lavoro di questi professionisti. In poche parole: occorre improntare il lavoro multidisciplinare non alla separazione dei compiti e alla ricerca di ambiti di responsabilità specifica. Autonomia e responsabilità possono essere efficacemente esercitate anche in contenitori organizzativi comuni e con modalità collettive.

(6) Il primato della prevenzione

Un indicatore demografico di salute, la speranza di vita alla nascita, nel nostro paese, è ancora molto positivo: circa 82,5 anni. Se lo si confronta, però, con la speranza di vita in buona salute (circa 60 anni) si evidenzia un’importante criticità: la nostra popolazione trascorre, mediamente, oltre 20 anni di vita in cattiva salute. Se si guardano i dati regionali, poi, le differenze diventano ancora più rilevanti con punte che sfiorano i 30 anni nelle regioni del sud. Un carico di sofferenza e di bisogno inaccettabile.
Al pari di altri sistemi sanitari di Paesi occidentali avanzati, il nostro SSN ha affrontato sinora malattia e salute puntando pressoché esclusivamente su diagnosi e cura.
L’emergenza pandemica ha messo drammaticamente in evidenza come e quanto questo approccio non sia più sostenibile. Il quadro attuale delle malattie non trasmissibili e l’irruzione delle sindemie impone una riflessione sulla impostazione di servizi sanitari universalistici come il nostro, che non possono continuare ad occuparsi prevalentemente, se non esclusivamente, del contrasto alla espansione delle patologie e delle opportunità di diagnosi e cura delle stesse. In altre parole, non è possibile continuare a investire solo sulla singola malattia o sul singolo gruppo di malattie, su questo o quel settore dei LEA. È necessario investire, e in maniera crescente, sulla loro prevenzione, con attenzione particolare per le cause, comprese quelle legate al contesto generale, ambientale e sociale.

Occorre ridefinire gli obiettivi delle politiche sanitarie, tenendo in considerazione tanto la dimensione individuale della salute quanto quella di popolazione. Un sistema universalista come il SSN, saldamente collocato all’interno del Welfare, non può non porsi di fronte alle attività di programmazione, ai diversi livelli, senza una attenzione costante per entrambe queste dimensioni.

Vittorio Demicheli

Medico. Già direttore del Servizio di epidemiologia della Regione Piemonte

www.lavoroesalute.org

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