Immigrazione in Italia. Il posto delle donne.
Da 25 anni il Dossier statistico immigrazione racconta l’immigrazione in Italia attraverso l’analisi dei principali archivi statistici nazionali. Andiamo a vedere qual è l’immagine dell’immigrazione e dell’Italia che ci restituisce l’edizione 2015 e il posto che occupano le donne immigrate in questo quadro[1].
Nel 2014 in Italia immigrazione ed emigrazione continuano ad essere due dimensioni assolutamente attuali e descrivono un paese che, non diversamente da quanto accade a livello mondiale, è attraversato tanto da una mobilità in ingresso quanto da una mobilità in uscita. Non siamo, dunque, un’eccezione, né in Europa né nel mondo, ma più semplicemente siamo pienamente e inevitabilmente immersi in un’epoca di grandi stravolgimenti geo-politici ed economici e di grandi movimenti di persone. Gli stranieri registrati dall’Istat come residenti in Italia al 1° gennaio 2015 sono 5 milioni e 14mila e in un anno risultano cresciuti di 92mila unità (anche se nel dossier si stima che la popolazione straniera e regolare complessiva, inclusa quella ancora non residente, sia di 5.421.000 persone). Parallelamente, gli italiani iscritti nell’anagrafe dei residenti all’estero (Aire) sono 4 milioni e 600mila, in un anno sono cresciuti di 155.000 unità e sono stimati dai Consolati in 5 milioni. Sia gli uni che gli altri alimentano il numero di migranti nel mondo (240 milioni la stima per il 2014) e ci dicono che la mobilità (di persone, merci, denaro) è la cifra della nostra epoca. La sfida non è evidentemente fermare le migrazioni (ambizione tanto grottesca quanto inattuabile), ma garantire la libertà di scelta delle persone e tutelare la sicurezza di chi vive in paesi in cui imperversano guerre e persecuzioni, di chi decide di partire da questi o altri paesi, di chi arriva e di chi vive in Italia ormai da anni.
Non c’è stato un boom di nuova immigrazione, come lascerebbero intendere la drammaticità degli arrivi non regolamentati via mare e, soprattutto, la comunicazione mass-mediatica. La popolazione straniera residente è aumentata in misura molto contenuta (+1,9% in un anno) e incide sulla popolazione totale per l’8,2% (lo scorso anno incideva l’8,1%). A determinare un simile andamento è stata, da una parte, la fase che l’Italia attraversa, soprattutto dal punto di vista economico (anche nel 2014 non sono state emanate quote di ingresso dall’estero); ma ancor più l’evoluzione e la mutazione di status giuridico che la popolazione immigrata in Italia sta conoscendo. Solo nel 2014 sono stati 130mila gli stranieri che hanno acquisito la cittadinanza italiana (l’anno scorso erano stati più di 100mila), avendone maturato i requisiti, soprattutto di residenza, e andando così ad incrementare l’anagrafe dei residenti italiani. Per lo più si tratta di adulti naturalizzati (che hanno raggiunto o superato i 10 anni di residenza regolare e continuativa richiesti per legge) o di minori nati in Italia che, al compimento della maggiore età, hanno chiesto e ottenuto la cittadinanza del nostro paese.
Si fa sempre più netta la divaricazione dei bisogni, e conseguentemente delle politiche che andrebbero approntate, tra due grandi tipologie di immigrati: i migranti forzati che fuggono da paesi in cui persistono condizioni di grave pericolo per se stessi e i propri familiari, e gli immigrati stabili, tra i quali sempre più cospicua si fa la quota delle nuove generazioni (nate o cresciute in Italia) e dei nuovi italiani per naturalizzazione. Nel dossier si stima che, nel corso degli anni, si sia raggiunta la cifra di quasi 800mila persone per il primo gruppo, e di oltre 800mila per il secondo. I discorsi e gli interventi nei confronti di questi due soggetti non possono essere gli stessi e non vanno confusi. E però, a seguito dell’ampliarsi e dell’aggravarsi dei tanti scenari di guerra e di instabilità nel mondo, è sempre più difficile (se mai sia stato davvero possibile) distinguere, all’interno degli arrivi via mare o via terra, tra chi migra per cause economiche e chi in quanto vittima di persecuzioni o a rischio per la propria sicurezza. In assenza di canali regolamentari di ingresso per i migranti economici, infatti, sempre più persone si affidano ai circuiti della criminalità organizzata per raggiungere l’Europa e l’Italia, anche rischiando la vita.
Dedichiamo però le ultime riflessioni agli immigrati stabili: gli iscritti all’anagrafe (più di 5 milioni); i titolari di permesso di soggiorno (3,9 milioni, di cui quasi 6 su 10 con un permesso CE di lungo soggiorno, non soggetto a scadenza e rilasciato solo con una residenza previa di almeno 5 anni); gli immigrati che acquisiscono la cittadinanza italiana (cresciuti nel 2014 del 29%, in primis per aver raggiunto 10 anni di residenza e, in seconda istanza, per matrimonio); gli studenti con cittadinanza non italiana che frequentano le scuole (oltre 814mila nel 2014/2015, cresciuti dell’1,4% ma, nel caso di quelli di seconda generazione, dell’8,4%).
E il posto delle donne?
Le donne sono circa la metà degli immigrati che vivono in Italia e il loro peso maggiore si rileva proprio tra quelli più stabili: sono il 52,7% tra i residenti stranieri, il 50,1% tra i titolari di un permesso CE di lungo soggiorno, il 48,9% tra tutti gli stranieri non comunitari soggiornanti (sia con permesso a scadenza che con permesso di durata illimitata).
E però, continua, ed anzi con la crisi si aggrava, la loro esclusione dal mercato del lavoro regolare e il parallelo “destino” di confinamento nell’ambito della casa: propria o altrui. Le donne immigrate, infatti, risultano più esposte al lavoro sommerso, anche solo per il fatto di essere principalmente richieste in lavori tradizionalmente femminili (la cura di bambini, anziani, malati, ma anche della casa). Lavori che in Italia, risolvendosi quasi sempre in un rapporto a due tra la lavoratrice e la singola famiglia che necessita di assistenza, facilmente si traducono in posizioni lavorative a nero o solo in parte dichiarate. Non è un caso che le collettività non comunitarie a più alta presenza femminile siano quelle ucraina, moldava, filippina, peruviana ed ecuadoriana, tutte fortemente concentrate nei servizi privati di cura e di assistenza (domestica e/o familiare).
I dati dicono che, tra gli stranieri, l’incidenza femminile scende al 46% nel mercato del lavoro dipendente e si ferma al 22,8% tra i responsabili di imprese individuali; quasi la metà delle donne straniere (46,5%) è impiegata nei servizi domestici o di cura alle famiglie e, più in generale, nei servizi domestici l’incidenza degli stranieri sugli occupati (che in media è del 10,3%) raggiunge il 75,0%. Uno degli effetti di questa marginalizzazione lavorativa e sociale è il divario retributivo: se gli stranieri guadagnano mediamente il 28,5% in meno degli italiani, il gap retributivo delle donne straniere è del 32,4% rispetto alle italiane e del 27,8% rispetto ai maschi stranieri, nei confronti dei quali sono però più istruite.
Quale allora il quadro del paese? Verrebbe da dire che gli immigrati si siano dovuti adeguare ai mali storici dell’Italia. E così, in un paese notoriamente afflitto da lavoro sommerso, evasione, disparità di genere, differenze tra il Nord e il Sud, il rischio è che i suddetti mali, piuttosto che ridursi, si estendano a nuove quote di popolazione, a cascata, in una scala gerarchica in cui, se hai la sfortuna di essere donna e pure immigrata, quasi certamente ti troverai molto in basso.
A lungo si è parlato di processi di femminilizzazione per descrivere l’estensione all’intera società di caratteristiche tradizionalmente attribuite al genere femminile. E quasi sempre questo processo si è tradotto in un abbassamento generalizzato della qualità del lavoro e della vita. Non vorremmo che, complice la crisi, si stia passando a una “migrantizzazione” del lavoro e della società, e che il tanto declamato dovere di integrarsi rivolto agli immigrati, unito al monito di sapersi sacrificare e accontentare rivolto ai lavoratori e ai giovani nazionali, si traducano troppo banalmente in una riduzione di diritti per tutti.
NOTE
[1] Il “Dossier statistico immigrazione 2015” è stato realizzato e pubblicato dal Centro Studi e Ricerche IDOS, curatore del volume a partire dal 2004, insieme alla rivista Confronti e grazie al sostegno dell’Otto per Mille della Chiesa Valdese. Per il terzo anno, infine, ha collaborato al progetto l’Unar, l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le Pari Opportunità.
Ginevra Demaio
5/11/2015 www.ingenere.it
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