Ungheria chiama Italia
Una riflessione sullo stato dell’arte penitenziario e penale alla luce della vicenda di Ilaria Salis
di Rossella Puca da Global Project
Le immagini indegne e irrispettose inerenti il trattamento giudiziario di Ilaria Salis sono finite sulle pagine di tutti i giornali e sono state discusse nei minimi particolari in tutti i salotti televisivi.
E meno male. Verrebbe da dire.
Abbiamo visto – senza alcun mistero – una nostra concittadina ammanettata alle mani e coi piedi legati da ceppi di cuoio con lucchetti, mentre una guardia di sicurezza la teneva con una catena per trascinarla in un’aula di “giustizia”.
Tutto ciò avviene in uno stato come quello dell’Ungheria che ha messo in scena questo rituale noncurante che poteva esser visto, come è stato, da tutta Europa ed oltre. Eppure l’Ungheria, stato membro UE dal 2004, dovrebbe sapere che l’utilizzo di catene o manette sia incompatibile con i diritti fondamentali sanciti dalla CEDU ma anche dalla direttiva UE/2016/343.
In Italia un trattamento del genere – almeno sul grande schermo – non lo si vedeva da un po’ di anni, e forse per questo motivo lo sdegno a riguardo è stato – benché ipocrita – abbastanza bipartisan.
Tanti si sono detti sconvolti e allibiti della noncuranza dello Stato ungherese per i diritti umani, ritenuti – a dire di tutti – di gran lunga rispettati nei restanti Stati dell’Unione Europea, specie nella Patria di Beccaria e Spinelli.
In Italia, sul piano giudiziario, pur essendo presenti in quasi ogni aula residuati di gabbie o di ‘box di vetro’, questi sono usati come un’eccezione, a norma dell’art. 474 c.p.p., per prevenire il pericolo di fuga o di violenza. La regola è quella che l’imputato – nella maggior parte dei casi – assiste all’udienza “libero nella persona” (cioè senza manette o gabbie) anche se detenuto.
Abbiamo letto, poi, con estremo ritardo rispetto all’inizio della detenzione, il diario di Ilaria Salis, in cui descriveva il degrado alla quale è stata costretta, tra cimici e punture da letto, cibo scadente e l’impossibilità di avere vestiti, igiene personale ma anche solo una tutela legale ed atti processuali tradotti.
Anche qui, ci siam detti, una cosa del genere non poteva accadere nella nostra Italia, come se fossimo di gran lunga superiori all’“offerta” penale e penitenziaria ungherese.
Abbiamo dimenticato casualmente di essere quel Paese che si è inventato la detenzione amministrativa per i “migranti irregolari” i quali, senza aver commesso alcun crimine, sono costretti a vivere in un carcere in condizioni degradanti, senza alcuna prospettiva d’integrazione o educazione, un trattenimento assurdo che ha il sol scopo di approdare presto o tardi ad un’espulsione. Siamo poi il Paese del 41 bis,, o quello in cui frotte di forze dell’ordine in tenuta anti-sommossa organizzano mattanze negli istituti penitenziari, in cui gli indagati vengono legati mani e piedi e bendati; il Paese con una miriade di abusi di Polizia, del sovraffollamento carcerario, dell’impennata suicida tra i detenuti, delle plurime proposte di legge – da parte di esponenti di Governo – volte all’abrogazione della (sudata) legge sulla tortura perchè questa – a detta loro – impedirebbe le forze dell’ordine di “fare il proprio lavoro”.
A quel che sembra, l’Ungheria è proprio dietro l’angolo, anzi, vive dentro i nostri confini.
Ma d’altronde, a proposito di politica estera, davvero potevamo immaginare una cautela o un trattamento differenziato per una nostra concittadina, in virtù dei legami istituzionali tra Meloni-Orban?
Piuttosto il contrario, in base ad un riconoscimento non scritto ma reciproco tra sovranisti, tutto quel che accade a casa propria – checchè siano i coinvolti – viene lavato con la propria acqua, specie se poi di mezzo c’è una motivazione di politica criminale ritenuta fondamentale per la sicurezza interna, alla caccia senza nessun risparmio di quella banda che per Orban crea così tanto allarme sociale, la cd. Hammerbande (banda del martello). Che poi Ilaria Salis non ne abbia mai fatto parte, è un rischio che si assume comunque, in ottemperanza al detto “il fine giustifica i mezzi”.
Da parte sua, il Governo Meloni ha fin dall’inizio del suo insediamento creato il suo albo d’oro con fior fior di decreti securitari, aumenti di pena, reati di nuovo conio, specie nei confronti di quegli attivisti che – a loro dire – creano insicurezza e disordini sociali.
Inoltre, nonostante gli allarmi lanciati a più riprese sullo stato degli istituti penitenziari, il Governo fa orecchio da mercante, anzi, più volte ha sostenuto o nascosto abusi, o taciuto sui report dei Garanti dei diritti dei detenuti.
Davvero ci aspettavamo una presa di posizione rapida e risolutrice da parte di quel Governo che – a casa propria – fa ugualmente peggio?
E ancora, da sottolineare, è quella condotta politica coartatrice di dover stravolgere la narrazione per impedire l’aggregazione della solidarietà nei confronti di una vittima: sbattere in prima pagina le informazioni personali (la professione) denigrandone la condotta, oppure pubblicare l’elenco dei processi penali (sebbene conclusisi con assoluzione piena o con prescrizione), rientra in un atteggiamento manipolatorio, fuori da ogni responsabilità istituzionale di rendersi davvero garante dei propri cittadini, specie nel momento in cui questi sono reclusi all’estero in condizioni disumane.
In conclusione, ma davvero pensavamo che la Presidente del Consiglio dei Ministri o i Ministri della Lega, sedicenti garantisti solo quando la gatta da pelare è la propria, voltassero le spalle all’amico sovranista, schierandosi con una persona che – a quanto pare – ha sempre vissuto dall’altra parte della barricata?
Perché ci aspettiamo che un Governo di tale stregua – di cui conosciamo tutti i connotati – si faccia garante dei diritti, quando a più riprese, questo si è reso responsabile di violazioni sotto gli occhi di tutti?
Le domande sono volontariamente formulate in senso retorico, non resta che continuare una contestazione permanente contro qualsiasi fascista illibertario, soprattutto se quest’ultimi ricoprono le cariche più alte dello Stato.
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