Gastone Cottino nella sua ultima intervista
Non c’è nulla di immodificabile. La storia non finisce perché la storia siamo noi con la nostra forza di resistere e di cambiare
Quella che segue è l’ultima intervista testimonianza rilasciata da Gastone Cottino appena due settimane prima della sua scomparsa avvenuta il 4 gennaio 2024. Una intervista inedita che pubblichiamo in occasione del novantanovesimo compleanno che coincide con la data dell’8 febbraio. Più che un’intervista un incontro amichevole che da tempo avevamo in programma. Nei dieci anni trascorsi a Torino ho conosciuto e stretto rapporti con tante compagne e compagni straordinari, dentro e fuori l’ambito politico di Rifondazione Comunista.
Cottino è una di queste figure, sicuramente tra le più importanti per la sua prestigiosa storia politica, culturale, resistenziale. Una storia lunga quasi un secolo: la partecipazione alla Resistenza e alla Liberazione della città di Torino con il nome di battaglia “Lucio”, da lì in poi un incrollabile impegno politico e civile che lo portano dopo lo scioglimento del Pci ad aderire a Rifondazione Comunista rimanendovi sino alla fine; una carriera accademica fuori dal comune, giovanissimo professore a Sassari, poi a Modena, infine dal ’69 ordinario di diritto commerciale e poi preside alla Università di Torino; socio dell’Accademia delle scienze di Torino e dell’Accademia dei Lincei; direttore di Giurisprudenza Italiana, Emerito di diritto commerciale; una dedizione intensissima alla ricerca che ha portato avanti fino alla fine dei suoi giorni. Cottino era un’autorità nel suo ramo.
Il suo Trattato di Diritto commerciale in ben 12 volumi è un’opera senza pari. L’elenco dei titoli e delle cose fatte potrebbe proseguire di molto. Come ha scritto lo storico Angelo d’Orsi “troppo vasta la sua volontà di sapere, troppo largo il suo campo di interessi che sempre associavano il mondo degli studi alla vita sociale e lotta politica” per potere essere racchiusi in poche righe. In ogni caso quel che colpiva di Gastone era il grande senso di umiltà, umanità e disponibilità, pari alla sua grandezza di sapere. E insieme la coerenza di spirito. Ci sentivamo frequentemente e lui ogni volta, alla fine di lunghe chiacchierate, con la consapevolezza di non avere più tanto tempo davanti – “sono un sopravvissuto della vita” diceva in maniera canzonatoria di sé stesso – teneva a dire di voler fare fino in fondo la propria parte. E che parte! Tra i tanti episodi di cui è protagonista Cottino viene sicuramente da ricordare quello del primo maggio di due anni fa quando di fronte alla celere che blocca lo spezzone sociale del corteo Cottino, in segno di protesta, prende la parola per gridare al microfono “ho quasi cent’anni ma mi ribello con tutte le mie forze…la mia generazione ha combattuto per la libertà”. E rivolgendosi ai giovani: “Anche voi tenete duro: libertà, eguaglianza, solidarietà, no alla guerra…”. Parole potenti, applauditissime pronunciate da un uomo integerrimo, di grande coraggio. Bertold Brecht l’avrebbe sicuramente annoverato tra gli uomini “imprescindibili”. Questo davvero era Gastone Cottino.
Innanzitutto, Gastone grazie per questo incontro. Vorrei chiederti subito, tu che hai preso parte in prima persona alla resistenza antifascista e che, con la caduta del fascismo, hai vissuto l’apertura di una nuova stagione di speranze e di progetti per il futuro, come stai vivendo questo nostro momento storico politico?
Devo dire che soffro moltissimo per quanto è accaduto e sta accadendo nel nostro paese. Quando nel 1945 la guerra di liberazione, la resistenza e l’antifascismo divennero indiscussi principi base della vita democratica nel nostro Paese non è che tutto fosse rose e fiori. Passata quella che con un’espressione banale potremmo dire la sbornia della Liberazione, i momenti di gioia nel sentirsi di nuovo padroni di sé stessi, cittadini del nostro paese, momenti molto alti che sarebbero culminati nella Costituzione repubblicana, già quegli anni apparvero subito difficili. Il momento di svolta che segnò i primi segnali di riflusso nella vita democratica del nostro paese fu quando venne sfiduciato il governo Parri nel dicembre 1945.
Quel governo era il portatore dei valori per cui avevamo combattuto. Già si muovevano forze tendenti a disgregare dall’interno quel cammino che era stato imboccato dopo il 25 Aprile 1945. In un certo senso la Costituzione fu sì un enorme successo, un punto d’ arrivo ma fu anche per un bel po’ di anni l’ultimo momento alto. Gli anni ‘50 furono già anni di riflusso. Comunque, non paragonabili a ciò che è accaduto in Italia dopo il 1990 col rivolgimento radicale che c’è stato, nel senso di una politica economica ultraliberista, di un capitalismo mondiale. Un rivolgimento avallato da molte forze in un momento in cui la distruzione nel Partito Comunista Italiano segna quasi simbolicamente la caduta di un ultimo baluardo.
Da allora prende avvio un cammino regressivo della nostra vita, sia sotto il profilo politico, economico, sociale che sotto quello etico emblematicamente rappresentato dall’avvento di Berlusconi, del berlusconismo per ciò che ha significato. Il berlusconismo in fondo è stato la reincarnazione in chiave aziendale del qualunquismo. Quel qualunquismo che già nel 1946 aveva cominciato a mettere radici pericolose nel nostro paese, nella mentalità del nostro paese. Il messaggio all’inizio non è stato in realtà contrastato, abbiamo avuto un alternarsi di governi berlusconiani e di governi definiti di centrosinistra che, all’inizio, pur con enormi limiti, rappresentarono quasi delle pause in cui riprendere il fiato. In ogni caso era cambiata la filosofia di fondo del nostro paese, erano caduti tutta una serie di principi, ideali. Abbiamo assistito all’erosione di quella volontà di protagonismo, di partecipazione democratica che aveva trovato la sua espressione più alta nel Partito Comunista Italiano.
Questa volontà poco alla volta si spegne, si spengono le coscienze, persino la coscienza della classe operaia in un certo senso, a parte alcune grandi isole che rimangono come la Fiom. Si è insinuato, attraverso il berlusconismo, uno spirito di indifferenza e di individualismo egoistico che ha portato a fenomeni di razzismo nei confronti dei migranti, al progredire di posizioni di intolleranza verso l’altro, verso chi ha meno. Ed ancora uno spirito di accettazione dell’allargamento progressivo della forbice sociale. Forbice che il Covid ha enormemente allargto con l’aumento della ricchezza per pochi, per i gruppi multinazionali che dal Covid hanno tratto soltanto vantaggi relegando invece sempre più in un angolo quelli che sono nella scala sociale più bassa, quelli che non hanno voce. Tutto questo è diventato il terreno per un ritorno al passato, per una riaffermazione di principi autoritari e in fondo di ripetizione di modelli che erano stati distrutti, a prezzo, sappiamo, di quanto sangue, di quanti sacrifici.
Questo ha portato al degrado totale della politica, della partecipazione, al rifiuto della politica, alla situazione in cui siamo. È una situazione più che preoccupante perché molti fingono di ignorare una situazione che riproduce esattamente vecchi modelli, vecchie tragiche esperienze. Una situazione che sembra essersi impadronita, almeno io sento così, come una piovra del nostro paese. Certo, non dimentico una cosa. Anche se alla mia età vedo il finire della mia vita accompagnato dalla degenerazione degli ideali cui ho cercato sempre, sia pure tra errori ma con una sostanziale fedeltà di fondo, di attenermi in ogni occasione, non ho mai rinunciato a far valere questi ideali, a difenderli, a dar loro un senso positivo. Poi certo, ci sono i germi per la resistenza e sono rappresentati da tutte quelle forze giovanili, femminili. C’è un certo risveglio della conflittualità sindacale, anche da parte di categorie non organizzate come i rider, conflittualità che, secondo me, è uno degli aspetti fondamentali. Pensiamo quanto fu importante nel ‘69 l’ottobre caldo.
Poi le cose andarono come andarono, però una svolta allora ci fu, un risveglio di conflittualità. Ancor oggi ci sono delle forze, dei sussulti di quella che più o meno propriamente chiamiamo società civile in un quadro, tuttavia, che è di frammentazione, di debolezza dei partiti quali strumenti effettivi di rappresentanza. Per quanto ci riguarda noi abbiamo soltanto un partito, che non ha forze sufficienti per affrontare la situazione, così com’è del resto per altri partiti di sinistra. Qui veniamo al grande dilemma della costruzione di una forza di sinistra organizzata che guidi la riscossa. Io devo prendere atto che non arriverò a vedere, ma vorrei che almeno fosse avviato, questo processo, che almeno si sentisse che lottiamo per invertire una tendenza alla frammentazione.
Sono d’accordo con te che dobbiamo andare in questa direzione. Lo scontento in questo momento è talmente grande, generalizzato che guai se dovesse rimanere privo di risposte politiche.
Ecco lo scontento deve coagularsi.
Tornando a prima. Tu hai detto della regressione che il nostro paese ha conosciuto col berlusconismo. Allargando il punto di osservazione il neoliberismo, nelle sue diverse varianti, dopo la caduta del Muro di Berlino, ha imperversato a livello mondiale con tante promesse che, alla prova dei fatti, sono state disattese. Sono aumentate le disuguaglianze sociali, le persone si sono ritrovate più indifese. Non credi che questa situazione di crisi sia il fattore primario che ha spinto in avanti il consenso delle forze fascistoidi, delle forze reazionarie? A me pare che il consenso a queste forze non sia più solo un fatto nostalgico ma tragga alimento da domande sociali che non hanno più trovato risposta nel corso degli ultimi decenni.
Sono totalmente d’accordo. Riconosco che nelle mie parole precedenti questo aspetto non è stato messo sufficientemente in luce. Ma anche qui torno ai paragoni storici, l’avvento del nazismo è proprio un esempio da manuale. L’aumento delle povertà, delle incertezze, di una vita senza speranze, sono state anche nella storia dell’Europa del 900 alla base del consenso dato alle forze reazionarie e a quelle stesse forze che ti sfruttano. Il paradosso di questi fenomeni è proprio questo, che tu ti rivolgi a forze politiche che sono il braccio secolare del capitalismo sfruttatore.
Questo è già avvenuto in passato. È questo che dobbiamo mettere in discussione. Ne abbiamo parlato tante volte, va rimesso in discussione il modello di società, di sviluppo. Il neoliberismo come tale è fallito perché lungi dal realizzare giustizia sociale, benessere diffuso, ha arricchito ulteriormente quelli che sono già ricchi. Sotto questo aspetto hai ragione tu. Questa condizione sociale è una delle componenti, non la sola, ma una componente di peso di questo spostamento del consenso di ceti diseredati verso l’estrema destra. Ripeto, è un esempio da manuale quello della Germania di Weimar e poi quella nazista.
A proposito di speranza Ken Loach recentemente ha dichiarato: “la speranza è una questione politica. Se pensi di poter cambiare le cose speri, e questo ti porta a sinistra. Se non credi nella tua forza, sei cinico, disperato, allora passi alla destra”. Nel suo ultimo rapporto il Censis dice che nel nostro paese la paura ha soppiantato la speranza. Secondo te, cosa si deve fare perché la speranza, l’idea di poter cambiare le cose in positivo possa rientrare nel modo di pensare di larga maggioranza della popolazione?
Una bella domanda, sai. Cosa si deve fare. Bisogna ricucire il tessuto sociale, ripartire dal basso, cercare di aggregare le forze che non vogliono cedere né alla paura, né al rancore, né all’odio. Perché poi sono tutti quanti sentimenti che insieme si collegano, si moltiplicano nell’animo umano. È un lavoro difficile. È quello che un po’ state, stiamo facendo. Ma è un lavoro che è ancora solo agli inizi perché, se tu non cominci a costruire un diverso programma, a dare il senso che c’è un altro modo di vivere si creano effetti perversi, viene avanti il rancore di chi ha un po’ di più verso chi ha meno, il timore che chi ha meno possa sottrarre fette di benessere che si è riusciti a conservare con fatica. Alla base di tutto ci sarebbe anche un piano di intervento pubblico una economia da rilanciare.
Questo è vero, non risolve il problema della speranza, ma può avviare la costruzione di un diverso ordinamento economico che garantisca alla gente più uguaglianza, possibilità di lavoro, che elimini gli aspetti più perversi del nostro sistema, a cominciare dal precariato. Questi sono tasselli di una politica difficilissima ma non impossibile. Assurdo che non si possa cominciare a realizzare qualcosa in questo senso se pensi ai conflitti, ai movimenti di protesta che ci sono, non soltanto i movimenti retti dalla paura ma i movimenti in mano delle donne, degli studenti, dei precari, dei lavoratori che sono mossi da una voglia di rivalsa, di ripresa del proprio destino. È questa la nostra scommessa.
Stai dicendo che è importante riportare al centro il conflitto, il protagonismo sociale, la partecipazione per cambiare le cose.
Direi che sono quelli, i poli, i punti fondamentali se vogliamo muoverci su un terreno non paludoso in cui il rischio è di affondare.
Per la prima volta, dopo tanti anni, assistiamo alla riabilitazione della guerra come strumento legittimo di intervento nelle aree di crisi internazionale. Si perseguono politiche di riarmo a discapito delle politiche sociali purtroppo – questo io penso – senza grandi distinzioni tra forze di destra e forze di centrosinistra. Politiche irresponsabili ancor più tenuto conto che viviamo nell’epoca dell’atomica non all’età della pietra. Non credi che tutto ciò sia incompatibile con i valori fondanti dell’antifascismo?
Sono esattamente la negazione di quei valori. Anche qui, se pensi alla storia dell’Europa del 900 vedi come tante forze che si qualificavano di sinistra hanno al momento della resa dei conti appoggiato il bellicismo. Il primo esempio clamoroso fu quello della votazione dei crediti di guerra in Germania da parte dei socialdemocratici. Quindi sotto questo aspetto c’è da parte di certa sinistra con radici purtroppo lontane, un cedimento totale rispetto a quelli che dovrebbero essere i propri ideali. Hai fatto bene a richiamare questo punto. C’è un ritorno alla guerra non dico riconsiderata alla stregua di ciò che diceva Tommaso Marinetti, la guerra come igiene del mondo, ma per certi aspetti c’è un ritorno a questo specchio.
Guerra, armi, industria delle armi, arricchimento illimitato da parte delle multinazionali che le producono, è un intreccio orrendo che sembra quasi inestricabile. Si è sempre sostenuto, secondo me del tutto falsamente, che il capitalismo è sinonimo di democrazia. Questo è uno dei più grandi imbrogli del nostro tempo, un’affermazione veramente fuorviante. Sappiamo benissimo che il capitalismo si è avvalso di volta in volta o ha favorito lo sviluppo di democrazie dove queste erano utili alla sua evoluzione e ai profitti. Ma il capitalismo non ha esitato a ricorrere ad altre forme – pensiamo a ciò che hanno fatto gli Stati Uniti – laddove veniva messo in discussione il sistema. Questo spiega perché la guerra nell’attuale fase del capitalismo, non venga affatto ritenuta incompatibile, anzi sia diventata uno strumento di lotta economica, di appropriazione di mercati, di distruzione di concorrenti. Poi naturalmente si è ammantato tutto questo di risvolti ideali che non ci sono, che sono fasulli.
Quando parliamo di guerra non dimentichiamo che quanto sta succedendo oggi non ha origine soltanto in Europa ma trae origine nella politica americana di questi anni, in Afghanistan, in Medioriente, in altre parti del mondo. Il Medioriente, che è stato distrutto, è stato veramente l’oggetto di una barbarie senza eguali da parte delle cosiddette democrazie occidentali. È diventato il focolaio, uno dei più pericolosi, da cui si sono sprigionate altre cose, che si spiegano sempre con questa chiave di conflitti capitalistici. Pensa anche all’Ucraina. L’Ucraina è teatro di una guerra in cui si uniscono elementi economici ed elementi politici, terre da conquistare, c’è una guerra in corso da parte degli Stati Uniti contro la Russia. Una guerra per procura che è stata favorita e sostenuta dall’Europa, da tutto l’Occidente con la Nato impegnata a insinuarsi in aree che era quanto più la Russia temeva.
Una guerra scatenata in maniera consapevole. Pensiamo anche adesso al terribile conflitto israeliano palestinese. Israele certamente è stata colpita da una iniziativa, secondo me tragica, di Hamas che forse non ha valutato le conseguenze di quella offensiva, irruzione sanguinosa. Ma Israele ne trae il pretesto per la distruzione del popolo palestinese. Qui si intrecciano tanti fattori: economici, politici, religiosi. Come quelli che nascono dall’idea di uno Stato ebraico che dovrebbe sorgere sulle definitive rovine del popolo palestinese, di un popolo che nel 1948 è stato brutalmente espropriato delle proprie terre. Oggi ci troviamo di fronte a un fenomeno bellico che ormai pervade praticamente tutta l’Europa e non solo, un fenomeno che viene purtroppo giustificato. Ogni forma di aggressione, ogni attacco agli altri, ogni violazione ai diritti nazionali trova sempre una sua apparente nobilitazione. Si è perso il significato della guerra, quella guerra su cui tanto si era discusso nel 900, penso alle riflessioni di Norberto Bobbio. Il ripudio, hai fatto bene a ricordarlo, fu una delle leve della Resistenza.
Mai più guerre, questo ideale sembrava che fosse acquisito una volta per tutte. Sembrava che dopo il ‘45 fosse finita, ed era una illusione. Questa speranza è rimasta nell’albo dei sogni. Voglio ricordare un episodio. Nella guerra di liberazione, nel luglio del 1944, in una località ai confini sulle Alpi marittime, un piccolo gruppo di partigiani guidati da Duccio Galimberti, insieme a Livio Bianco, grandi figure della Resistenza, riuscì a realizzare, con la Francia, attraverso una serie approcci non facili, uno storico accordo che è sempre passato sotto silenzio con cui si dichiarava che malgrado le sofferenze e l’attacco nefasto del regime fascista tra i popoli non c’era nessuna ragione di rivalsa o di odio e che anzi proprio sulla base di quella ritrovata fraternità tra i popoli la lotta di resistenza doveva attendere sia alla giustizia che alla pace tra i popoli. Era piccola cosa ma io l’ho sempre ricordato come significativo dello spirito che aveva animato la lotta di Liberazione.
Siamo, in questo momento, nel pieno di un attacco alla democrazia costituzionale. Il governo è impegnato a portare avanti una revisione costituzionale a doppio taglio. Da una parte l’autonomia differenziata col risultato di una scomposizione del nostro paese in tante realtà territoriali, con regole leggi e risorse diseguali, dall’altra parte il premierato forte, l’idea di un uomo o di una donna sola al comando. Tu cosa ne pensi. Come possiamo pensare di bloccare questa riforma eversiva dell’impianto democratico della nostra Costituzione?
L’autonomia differenziata è proprio la manifestazione, potremmo dire la esteriorizzazione, di questa filosofia economica patrocinata dalla Lega che si fonda sulla distinzione tra chi ha e chi non ha, una filosofia che si vorrebbe trasferire sul piano istituzionale distinguendo le regioni favorite da quelle non favorite, i vassalli dai servi. Per quanto riguarda Il premierato è il corollario di ciò che sta accadendo nel nostro paese, si punta alla costruzione di uno stato autoritario con sullo sfondo la possibilità di scivolare in un totalitarismo anche più aggressivo. Come si può reagire. Tra i costituzionalisti ci sono molte opinioni che si sono levate contro, ma all’atto pratico la partita, intanto, per quel poco o tanto che c’è, si scioglie in Parlamento.
Oltre al piano parlamentare c’è la mobilitazione democratica su cui puntare. Non credi?
La pressione democratica è ancora inadeguata. In questo momento molto dipende dalla capacità delle regioni di reagire. È mai possibile che le regioni del Sud accettino controriforme che amputano le loro prospettive di sviluppo, che le costringono ad essere quelle che pagano per le regioni del nord solo perché governate da esponenti della destra? Di certo occorrerà mettere in campo una pressione dell’opinione pubblica che è ancora tutta da costruire.
Gastone, quello che mi ha colpito in tutti questi anni, nelle discussioni, negli incontri che abbiamo avuto è la tua carica positiva, l’accento che tu hai sempre posto sulla possibilità, oltre che sulla necessità, di superare i problemi e di guardare in avanti. Certamente il contesto è quello che è, molto difficile, molto problematico come hai avuto modo di dire. In ogni caso il tema è sempre quello di come riaprire uno spazio, una possibilità di cambiamento.
Per quanto mi riguarda mi sono sempre mosso su coordinate molto semplici tenendo naturalmente conto di tutta una serie di problemi complessi. Primo punto ineludibile è quello del recupero della memoria, cioè della non perdita della memoria del nostro passato e dei momenti cruciali che hanno segnato il passaggio alla democrazia. Secondo punto è quello di non arrendersi mai di fronte all’ineluttabile.
Qualcuno sostenne, penso al fin troppo citato politologo Fukuyama, che con la caduta del muro di Berlino, con l’affacciarsi vittorioso del neoliberismo nelle sue forze estreme eravamo alla fine della storia. Quello che vorrei che i giovani e tutti capissero è che la storia non finisce. La storia non finisce perché la storia siamo noi. Siamo noi che siamo in grado di riprendere in mano le redini, che dobbiamo avere la forza di resistere sapendo che nulla è inamovibile, nulla è immodificabile, molto dipende dalla nostra volontà. In quella frase di Gramsci in cui parla di ottimismo della volontà c’è una intuizione straordinaria.
Bisogna riuscire a far capire che ciò che accade può essere modificato. Parlo senza alterigia, con umiltà ma con una profonda convinzione, io non saprei dire altro. Ho sempre molto condiviso ciò che diceva Nuto Revelli ai giovani, capiamo ciò che è successo, riappropriamoci della memoria ma non molliamo, per resistere, per creare i tasselli di una risposta, non soltanto per custodire. Ecco, la risposta è possibile e allora lì viene fuori tutto il discorso politico, delle relazioni, dei movimenti, della possibilità di fare in modo che quello che è ancora un torrente impetuoso ma non governato cominci a diventare un piccolo fiume e poi un grande fiume, il fiume di una nuova storia. Di più non saprei dire.
Grazie Gastone per questa tua testimonianza e per queste parole che danno molta forza, la forza di guardare avanti
Ma io ci credo profondamente, credere, non mollare, non mollare, non mollare, anche eventualmente ridimensionando i punti di partenza, ma questi devono essere ben fermi, non puoi tradirli e su quelli devi costruire.
Ezio Locatelli
segreteria nazionale di Rifondazione Comunista
Intervista realizzata il 18 dicembre 2023
INSERTO Lavoro e Salute febbraio 2024
Versione interattiva https://www.blog-lavoroesalute.org/lavoro-e-salute-febbraio-2024/
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