Nuove e meno nuove sulla follia (clinicamente riconosciuta) in Veneto
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Scrivevo l’anno scorso dei principali problemi strutturali della cura della Salute Mentale in Veneto, ma comuni in tutto il Nord Italia e, alla fin fine, anche nel resto del paese e che – in sintesi – sono in gran parte comuni anche al resto della Sanità nazionale.
La prima è, e continua ad essere, il sottofinanziamento generale della spesa sanitaria: anche il congiunto pubblico+privato vede l’Italia non solo sotto la media UE, ma con nessun paese dell’Europa a 12 (a parte i «semi-paradisi fiscali» Lussembugo e Irlanda) ad investire una quota inferiore in rapporto al PIL pro capite in sanità. Per capirci in Italia siamo al 9.2% mentre in Germania quasi al 13%, il che vuol dire – tenuto conto anche che i tedeschi hanno un PIL pro capite più alto degli italiani – una spesa a cranio quasi doppia di quella del Bel Paese. Comunque perfino Spagna, Portogallo, Slovenia e Repubblica Ceca fanno (molto) meglio che nella Penisola, per non parlare di Francia, Belgio, Paesi Bassi, Austria, Danimarca, Finlandia…
In questo contesto, c’è poi da dire, il «mezzuccio» di procrastinare all’infinito la questione salariale dei medici inizia a mostrare di brutto la corda. Infatti, persino un giornale generalmente miope e borghese come la Repubblica, nello scorso ottobre (1) faceva notare come i salari medi dei medici italiani, dopo i numerosi recenti pensionamenti – si veda il mio precedente articolo su Lavoro e Salute (Anno 39 n. 1 gennaio 2023) – sono scesi a ca. 77 mila €/anno lordi; questo a testimoniare anche come la classe medica italiana non sia stata scevra da quella odiosa prassi sindacale per la quale, a partire dai primi anni ’90, la generazione dei cosiddetti boomer (ossia i nati dal 1946 al ’64) ha barattato il mantenimento dei propri diritti (generalmente oggi descritti come «privilegi») con l’esclusione dai medesimi di chi è venuto dopo (generazioni X, Y…). Ma, indipendentemente da questo, forse molti lettori di questa rivista – per quanto, fidatevi, molto più attenti della media della popolazione generale – non sanno che i salari medi lordi dei medici nella para-fascista e semi-arretrata Ungheria di Orbán sono di 118 k€/anno o che in Germania i salari dei medici sono quasi due volte e mezza quelli italiani (188 k€/anno) – per capirci il salario medio lordo di un metalmeccanico tedesco è di poco meno del 50% più alto di uno italiano, la differenza nel settore medico viene moltiplicata per tre: improbabile che un fatto del genere possa venir tollerato per molto tempo.
Con l’internazionalizzazione degli studi universitari in genere e medici in particolare (per fare un esempio piuttosto comune, io nella mia formazione ho passato due lunghi periodi a Barcellona ed a Oxford) e con la molto maggiore propensione alla mobilità continentale della nuove generazioni (Y, Z…) trattenere i medici in un paese ad essi ostile o quasi diventa sempre più difficile. Anche le condizioni di lavoro medie sono in genere migliori nel resto d’Europa (e.g. la possibilità di avere tempo pagato fare ricerca anche in ambito extra-accademico, il minor sottorganico…). Ma la classe medica che sta andando in pensione in questi anni è in larga misura affetta da pesante provincialismo (pare che il 50% dei medici attualmente ultrasettantenni non abbia dimestichezza con lingue straniere e per un altro 30% l’unica parlata lingua diversa dall’italiano sia il francese) ed aveva ricevuto illo tempore una formazione di qualità spesso piuttosto modesta risalente ai tempi del “numero aperto a medicina” in cui erano stipate sino a mille persone per aula frequentando attivamente poco o nulla le corsie: ciò faceva in maniera che «il parco buoi» non potesse scappare indipendentemente dallo stato di chiusura o di apertura della porta della stalla, salvo rare eccezioni. Ora invece può. Un discorso, forse di gravità meno estrema ma tutt’altro che trascurabile, ma certamente analogo può essere fatto per diverse altre professioni sanitarie, fra cui soprattutto gli infermieri.
In un recente articolo su Quotidiano Sanità (2) compare questa tabella che segnala come non sia più sufficiente ignorare il problema, ma si debba risolvere.
Anche se – ovviamente, per lo meno nell’immediato – l’aumento dei salari (se non altro, anche solo per opportunismo, di chi ha facilità alla fuga) farà gioco-forza diminuire l’efficienza della Sanità nel suo complesso, a meno di investimenti addizionali veramente molto cospicui (e necessari).
Nell’ambito del sottofinanziamento grave della Sanità in Italia, vi è poi quello gravissimo della salute mentale, che dovrebbe essere per legge almeno del 5% dell’intero budget sanitario, ma tale percentuale non viene raggiunta da nessuna regione italiana, con punte – come il Veneto, forse la peggiore – in cui si fatica a rimediare un miserrimo 2.5% (ossia circa la metà del minimo previsto).
Esiste poi un lascito culturale – ovviamente di base spiritualistico-cattolica, ma ahinoi allargata anche a grossi settori laici e progressisti della società – che pretende di separare la malattia mentale dal resto della medicina arrivando a negare l’esistenza delle psicopatologie (~Foucault), contrapposto a quello che invece (poggiandosi sulla possibilità illuminista e materialista di negare all’opposto la trascendenza) che vede la psichiatria come una branca della medicina «come le altre» (~Basaglia – perché mai non esistevano gli ospedali gastroenterologici mentre esistevano quelli psichiatrici?). Questa pesantissima eredità, che
Anche se – ovviamente, per lo meno nell’immediato – l’aumento dei salari (se non altro, anche solo per opportunismo, di chi ha facilità alla fuga) farà gioco-forza diminuire l’efficienza della Sanità nel suo complesso, a meno di investimenti addizionali veramente molto cospicui (e necessari).
Nell’ambito del sottofinanziamento grave della Sanità in Italia, vi è poi quello gravissimo della salute mentale, che dovrebbe essere per legge almeno del 5% dell’intero budget sanitario, ma tale percentuale non viene raggiunta da nessuna regione italiana, con punte – come il Veneto, forse la peggiore – in cui si fatica a rimediare un miserrimo 2.5% (ossia circa la metà del minimo previsto).
Esiste poi un lascito culturale – ovviamente di base spiritualistico-cattolica, ma ahinoi allargata anche a grossi settori laici e progressisti della società – che pretende di separare la malattia mentale dal resto della medicina arrivando a negare l’esistenza delle psicopatologie (~Foucault), contrapposto a quello che invece (poggiandosi sulla possibilità illuminista e materialista di negare all’opposto la trascendenza) che vede la psichiatria come una branca della medicina «come le altre» (~Basaglia – perché mai non esistevano gli ospedali gastroenterologici mentre esistevano quelli psichiatrici?). Questa pesantissima eredità, che tende a spalmare il concetto (innegabile) di mente su quello (per alcuni ridicolo) di anima, è più o meno forte nei vari paesi: nel nostro porta gravissimi danni alla salute mentale per cui – salvo rare e lodevoli eccezioni (cito, e.g., il CoVeSaP in Veneto) – le lotte popolari sulla psichiatria (e sulle dipendenze) vengono solitamente separate ab initio da quelle sul resto della sanità con grave pregiudizio soprattutto della prima.
Ricordando sempre bene che «il grande motore» dei problemi della salute mentale è quanto esposto sopra, in Veneto vi sono alcune novità, che lascio a voi giudicare.
Nell’anno appena passato – dopo un paio di lustri – vi è stata un nuova Conferenza Veneta della Salute Mentale che prevede alcune, molto parziali, novità:
. Circa la cosiddetta «età evolutiva» (che andrebbe quindi contrapposta ad un’età involutiva, ma un minimo di coerenza non pare qualcosa di pretendibile) non mi pare venga affermato alcunché di stringente(3) tranne la creazione (sulla carta?) di “servizi dedicati alle fasce di età che va dalla pubertà ai 24-25 anni” e che pare essere finalizzato alla regolarizzazione (o, meglio, ad un’hegeliana giustificazione dell’esistente) degli ormai abituali ricoveri degli adolescenti in SPDC, vista la sostanziale inesistenza di posti letto in neuropsichiatria infantile (NPI) in cui gli adolescenti vengano considerati accettabili dai pediatri (“Cielo! Nessuno pensa mai ai bambini!”, dice spesso la moglie del reverendo Lovejoy ne i Simpson). Con la possibilità – considerata dai più, anche conservatori, francamente eccessiva – di ricoverare in psichiatra-adulti anche una fascia di infraquattordicenni (diciamo 10 anni per le bambine e 11 per i bambini?);
. Il tavolo di lavoro sullo stigma – nonostante il prezioso contributo di della sezione AITSaM di Belluno sostanzialmente a parte una serie di auspici anche condivisibili (come quello dei una maggiore implementazione dei gruppi tra pari o con ex pazienti o quello di una maggior partecipazione delle associazioni di malati e familiari) con alcuni assolutamente vuoti od addirittura opachi (cito: “promozione di iniziative di lobbying a livello politico e istituzionale e di portare avanti azioni di advocacy”) ed altri particolarmente sbagliati e pericolosissimi a lungo termine (vide supra, come l’invocazione di una sostanziale censura – con tanto di auspicato vincolo deontologico per i giornalisti, anche scientifici – di espressioni come “malattia mentale”, cui preferire locuzioni come “disagio” psichico (4));
. Il gruppo di lavoro per la co-programmazione e co-progettazione nella salute mentale di comunità: ha il merito di auspicare (nulla più di questo) – oltre che un maggior coinvolgimento degli esperti di supporto tra pari – un maggior peso dato alla ricerca scientifica in questo ambito d’intervento (anche se tale intenzione pare pressoché totalmente isolata dal contesto); “il protagonismo dell’utenza, del 3° settore e dell’associazionismo”, citato anche nel titolo del documento finale, non dà alcuna garanzia non solo di applicazione, ma anche di non essere l’ennesima pezza d’appoggio per un altro passo verso l’esternalizzazione (e la privatizzazione) di servizi considerati generalmente dalle dirigenze «poco produttivi»;
. Il gruppo di lavoro sul concetto di personale sanitario sensu lato si commenta da solo sin dal nome, apparentemente roboante, in realtà piuttosto esplicito (e ciò è, forse paradossalmente, meritorio) nel dichiarare i propri valori fondativi: L’importanza del “capitale umano” in salute mentale: il modello bio-psico-sociale oggi fra Progetti Terapeutici Individualizzati e Percorsi Diagnostici Terapeutici Assistenziali
Onesto, ai limiti del candore, nel citare l’autore dell’espressione su virgolettata, il premio Nobel per l’Economia 1979 Theodore Schultz (5), scuola di Chicago, che – interrogandosi su come le economie di Germania e Giappone (dell’Italia si disinteressò), grandi sconfitte della Seconda Guerra Mondiale, si fossero riprese molto più rapidamente di quella del Regno Unito – arrivò paradossalmente ad includere le skill (ma anche la cultura generale dei lavoratori) nel turpe concetto di capitale umano, che, essendo capitale, nel libero mercato è per forza di cose perfettamente nelle mani del capitalista. Un tempo di sarebbe parlato della capacità di sussunzione del modo di produzione capitalista su quelli precedenti, nella fattispecie quello schiavista;
. L’immancabile tavolo sulla riabilitazione ha partorito in realtà una mera disamina in gran parte ipercompatibilista avendo però onestamente il merito di affermare – alla fine-fine, in extremis – che: “Se la Salute Mentale regionale non farà un salto di quantità
e qualità nelle dimensione dell’organizzazione e dell’adeguato utilizzo delle risorse, sarà molto difficile pensare a percorsi di sviluppo e avvicinamento a modelli di altre Regioni e realtà internazionali”. Parole sante, non fosse che il problema delle risorse alla psichiatria non è prevalentemente l’utilizzo, bensì la quantità.
. L’ultimo gruppo di lavoro, “telemedicina”, propone sostanzialmente una maggior standardizzazione nelle diagnosi (citando l’ICD-9 CM – edito nell’A.D. 1997 – e non citando mai l’ICD-11 – rilasciato ormai nel 2018), l’articolo più recente che cita ha più di dieci anni e non parla mai di questioni «tecniche» informatiche. Forse non siamo proprio proprio nella lunghezza d’onda giusta.
In vari tavoli poi è stata toccata la questione della salute mentale per le persone con limitazioni della libertà in generale ed in carcere in particolare, ma ciò merita un discorso a parte (6).
In linea di massima quindi, il commento che ci si sente di fare sulla Conferenza è che chi ha partecipato (anche molto positivamente, non solo i sanitari, ma anche e soprattutto le associazioni) ha fatto con abbastanza coscienza il compito dato, ma sostanzialmente all’interno del perimetro dato, non criticando (salvo rare eccezioni, vide supra) le limitazioni imposte dall’alto al campo d’intervento. Il problema è che all’interno dell’area agibile non c’è la questione n° 1: il cash, i schei, come diciamo noi in Veneto.
Lo stesso Franco Basaglia – già durante la promulgazione della Legge 180/78 – paventava il fatto che nell’atmosfera ipercattolica italiana (e.g. il familismo amorale o il concetto di «mentecatto» come soggetto intrinsecamente agostinianamente impossibilitato a peccare) la «sua» riforma avrebbe potuto essere sfruttata – come poi effettivamente in buona sostanza è stato – per «affibbiare» in brutta maniera i malati alle loro famiglie d’origine ed operare (paradossalmente) notevoli risparmi sulla spesa per la salute mentale – aiutati anche da chi (spesso tutt’altro che religioso) afferma che la patologia psichica in quanto tale non esiste, ma che è una mera costruzione sociale (se una malattia non esiste, perché si dovrebbero finanziarne le cure?).
Dalle trincee del Piave (e dalle retrovie del Brenta) per ora è tutto. W il Re! W il generale Cadorna!
NOTE
(1) https://www.repubblica.it/cronaca/2023/10/24/news/medici_italiani_sottopagati_sanita-418601667/
(2) La “grande fuga” di medici e infermieri dall’Italia. Tra il 2000 e il 2022 hanno scelto di lavorare all’estero quasi 180mila professionisti. 7 marzo 2023. (https://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=111740)
(3) Tutti i documenti dei tavoli di lavoro della Conferenza Regionale per la Salute Mentale (2023) sono reperibili in questo sito: https://www.regione.veneto.it/web/sanita/documenti-tavoli-di-lavoro-conferenza
(4) Qui corre l’obbligo di fare un lungo inciso. Se una persona ha una cardiopatia ischemica, ha una malattia ed è un cardiopatico: generalmente non si offende se lo chiami così, anzi magari se la prende – giustamente – se neghi la sua patologia (e magari gli dai fannullone perché deve assentarsi dal lavoro). Se una persona è affetta da schizofrenia la sua non è «meno malattia» di quella del cardiopatico, non è una «cosa inventata» allo scopo di starsene a casa o per giustificare determinati comportamenti poco accettati. Se lasci l’etichetta di cardiopatico al cardiopatico e togli quella di schizofrenico allo schizofrenico stai rinunciando de facto a togliere lo stigma dalla schizofrenia, ma stai facendo un’operazione di piccolissimo cabotaggio e dal fiato molto corto. Faccio un altro esempio: quando ero piccolo era in voga tra i ragazzini delle scuole elementari dare dell’handicappato agli altri come offesa, per cui è partita la damnatio memoriae su quel termine ed è stato imposto quello di disabile. Ora infatti i bambini sono soliti insultare gli altri bambini usando, ça va sans dire, il termine “disabile”. Non penso sia cambiato poi molto tranne una cosa: se perdo le gambe ho una menomazione, da ciò ne consegue la mia difficoltà e.g. a camminare – cosa che prende il nome di disabilità, non avendo una locomozione come le persone ““normali”” ho quindi molti problemi a spostarmi e non ho quindi le stesse possibilità degli “altri”, quest’ultima cosa prende il nome di handicap. Ma il mio handicap non dipende solo dalla mia disabilità, dipende anche e soprattutto da una società “abilista” che, e.g., non abbatte le barriere architettoniche che mi limitano: andate a Quito a chiedere alla gente in sedia a rotelle se il loro handicap prima o dopo Lenin Moreno (con tutti i suoi pesantissimi limiti) è la stessa cosa o no. Nel giro di giostra (ossia nel passare ad indicare con disabilità l’handicap – pur essendo la disabilità in sé un’altra cosa) per gli stigmatizzati (a parte forse pochi anni di relativa requie subito dopo il pogrom) non è cambiato nulla, ma si è perso il senso di responsabilità sociale: se il centro della questione è la disabilità e non l’handicap, perché si dovrebbero abbattere, ad esempio, le barriere architettoniche? La mia disabilità mica cambierebbe! Cambierebbe magari con delle protesi robotiche o con un trapianto d’arti, ma mettere degli ascensori utilizzabili da chi è in sedia a rotelle nei binari della stazione ferroviaria dove prendo il treno tutte le mattine per andare a lavorare cambierebbe solo il mio handicap che, essendo una brutta parola, è stata eliminata. Forclusa direbbe Lacan. Come diceva Lenin (Ulianov, non Moreno): “Va’ da chi ne trae beneficio…”.
(5) Theodore Schultz (1902 – 1998) fu anche, negli anni ’80 una delle persone chiave nell’utilizzare le agenzie finanziarie dell’ONU risalenti al sistema di Bretton Woods per tentare di fomentare il cosiddetto sviluppo internazionale, enti come il Fondo Monetario Internazionale o la Banca Mondiale, oggigiorno quasi universalmente accusati di (o apprezzati per, dipende ovviamente dai punti di vista) esportare forzosamente il neoliberismo nei paesi poveri ed in crisi finanziaria (o che desiderano «svilupparsi») condannandoli in aeterno a pagare debiti al Nord del mondo.
(6) Forse non è così, ma la più che probabile deformazione professionale operata su chi scrive dal proprio lavoro non consente affatto una capacità di sintesi sufficiente.
Giordano Bruno Padovan
Psichiatra penitenziario e docente di psichiatria presso il dipartimento di giurisprudenza e scienze politiche dell’Università di Padova.
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