San Valentino, la sconfitta da non dimenticare
La notte del 14 febbraio di 40 anni fa venne smantellato il meccanismo di adeguamento dei salari all’inflazione. Da allora gli stipendi italiani sono sempre scesi, e oggi sono inferiori del 13,7% alla media europea
Il 14 febbraio scatena sempre appetiti atavici in chi ha vinto la lotta di classe. Parliamo ovviamente del fronte opposto a lavoratori e lavoratrici che infatti tende a celebrare l’anniversario: nel 2024 siamo al quarantennale, issando al cielo lo scalpo del movimento operaio che quel giorno fu strappato via con l’avallo di parti significative del sindacato.
Il governo Craxi, nell’accordo siglato quella notte con Cisl e Uil (non con la Cgil in cui però la componente socialista spingeva per firmare) tagliò di tre punti percentuali l’adeguamento automatico dei salari all’inflazione annullando di fatto il meccanismo della Scala mobile.
Di quella allegra brigata socialista, al potere con Bettino Craxi, faceva parte anche l’allora giovane Renato Brunetta che in un saggio ripubblicato dal quotidiano Il Giornale rivendica il lavoro sporco di quella notte.
«Ero in vacanza in quei giorni a Malta – scrive Brunetta – fui chiamato al telefono e Gianni De Michelis [di fatto il numero 2 del Psi e ministro degli Esteri, ndr] mi disse ‘Vieni, torna, anzi, scrivimi subito un po’ di programma’. E il tema era secondo lui decisivo, una sorta di pietra d’angolo per l’idea di Italia che avevamo noi socialisti, e pietra d’inciampo per i comunisti: il tema insomma era quello della politica dei redditi, che era certo un argomento sin da allora dibattuto non solo accademicamente, ma era un tema di valenza, in quei tempi, cruciale e soprattutto divisiva». Politica «dei redditi» ha sempre voluto dire politica di controllo dei salari e il termine, non a caso, verrà collegato subito dopo, a partire dagli anni Novanta, con il termine «concertazione». Brunetta respinge questa interpretazione definita «malevola e banale» e cerca di darne una più nobile, ispirata a Niklas Kaldor il cui obiettivo presunto era «far diventare la politica dei redditi politica di sviluppo (quale distribuzione ottimale dei redditi per massimizzare la crescita) e non semplicemente politica di controllo dei salari. De Michelis aveva perfettamente compreso la novità di questa prospettiva». Brunetta ammette però che «non era facile» toccare la Scala mobile perché significava «dare meno soldi ai lavoratori, senza metterteli contro». L’obiettivo fu invece «come fare più crescita, più occupazione e meno inflazione. Più massa salariale, più salario reale. Dalla parte dei lavoratori». E, esulta il ministro dei «fannulloni», il popolo italiano capì, al referendum del 1985 in cui la richiesta del Pci di abrogare la legge fu respinta dal 54,3%, «il senso di quella manovra e di quella strategia antipopulista, controcorrente, contropelo, che allora percosse il Partito comunista e il sindacato comunista, mentre tutte le altre forze politiche e sociali stavano dalla parte della ragione». E così, via a incensare la capacità predittiva di De Michelis, il ruolo «di qualche contributo tecnico-accademico» (cioè il suo ruolo), la citazione fuori tempo del padre dello Statuto dei lavoratori, Giacomo Brodolini, e l’abilità politica di Bettino Craxi.
«Fu un grande risultato che cambiò la storia di questo nostro Paese. Insomma, la predeterminazione di Modigliani e di Tarantelli funzionò. Mai teoria ricevette così palese e piena applicazione di successo, smontando nei fatti la propaganda degli avversari».
Un trionfo. Nei suoi diari, pubblicati postumi, il futuro segretario della Cgil, allora privo di incarichi di rilievo, Bruno Trentin, scriverà di quei giorni: «E così la grande rottura si è consumata con l’accordo separato del 14 febbraio. La Federazione sindacale unitaria non esiste più – i rapporti con la Cisl e la Uil sono peggiori che all’inizio degli anni Sessanta – dopo vent’anni! E nella Cgil non esiste più l’unità pragmatica che bene o male ha retto in tutti questi anni. La scissione non è impossibile. Tutte le forze liberate dall’atto di forza del governo […] sono oggi proiettate lontano da una spinta che sembra inarrestabile». Nemmeno Trentin, però, come del resto dimostra la sua firma in calce a un altro accordo devastante per i lavoratori e lavoratrici, quello del 1992, coglie a pieno la portata di quell’accordo che suggella una sconfitta operaia subita sul campo al termine dello sciopero dei 35 giorni della Fiat del 1980 e che vede il movimento operaio costantemente sulla difensiva.
Quello che in quel frangente non si riesce davvero a contrastare è la natura strumentale dell’equazione aumento dei salari=crescita automatica dell’inflazione, che costituisce, come dimostra la ricostruzione di Brunetta, la punta di lancia dell’attacco del governo Craxi e del pentapartito. Eppure, come ricorda Emiliano Brancaccio in una intervista del 14 febbraio 2024 all’Unità, c’erano stati economisti lucidi che avevano colto il passaggio d’epoca, come Paolo Sylos Labini e altri, secondo cui «la scala mobile rispondeva ad aumenti di prezzo che provenivano non più tanto dall’esterno quanto piuttosto dall’interno. E il punto chiave è che non si trattava più di spinte salariali, visto che già da tempo le rivendicazioni operaie erano calate. In larga misura si trattava di spinte inflattive generate dall’obiettivo delle imprese di rilanciare i profitti, in parte dall’aumento delle rendite e dalla dinamica delle tariffe pubbliche e della tassazione». Ma ancor più lucido fu Augusto Graziani che, come ricordava su Jacobin Francesco Massimo, «sottolineava come la Scala mobile non avesse generato inflazione, come si diceva allora senza alcuna evidenza. L’inflazione era il risultato di uno shock esogeno. Certo questo shock stava mettendo in crisi il meccanismo della Scala mobile, ma senza questo meccanismo i costi dell’inflazione sarebbero stati tutti a carico dei redditi dei lavoratori».
Il punto decisivo è che lavoratori e lavoratrici si videro strappare un meccanismo di difesa conquistato negli anni del dopoguerra, a fasi supplementari fino all’accordo Lama-Agnelli, tra sindacati e Confindustria, del 1975 che estendeva a tutti gli effetti della Scala mobile. E questa acquisizione sarà ben visibile negli anni successivi quando invece il salario inizia la sua corsa del gambero con effetti catastrofici. Come ricorda ancora Brancaccio «grazie al disinnesco della Scala mobile, nei cinque anni successivi la quota di reddito spettante ai salari crollò di altri quattro punti». Ma dopo i primi anni di assestamento la situazione è ancora peggiore fino ad arrivare al risultato che nei paesi aderenti all’Ocse, i lavoratori dipendenti italiani sono stati gli unici a subire, tra il 1990 e il 2020, una perdita di potere d’acquisto del 2,9 per cento. Se nel 1990 la retribuzione reale dei lavoratori italiani era superiore di 4,7 punti percentuali rispetto alla media Ocse, nel 2020 era scesa di 13,7 punti sotto la media.
Al risultato di San Valentino si somma, in modo molto più efficace e duraturo, il Patto sociale del luglio 1993 conosciuto come Protocollo Ciampi che inaugura la stagione dell’inflazione programmata e quindi di aumenti salariali che devono prevederne l’andamento.
Il decennio 1984-1993 è quindi quello in cui si realizza socialmente la vendetta del capitale sulle istanze del movimento operaio che tra il 1969 e il 1977 aveva conosciuto le sue fondamentali avanzate. Nel corpo disperso e frammentato della sinistra non si sono mai approfondite davvero le ragioni per cui si arrivò a quella sconfitta – si pensi alla rimozione della strategia delle «larghe intese ante litteram» rappresentata dal Compromesso storico cui faceva da pendant la «politica dei sacrifici» inaugurata dalla Cgil di Luciano Lama al congresso dell’Eur del 1978 in cui si proponeva lo scambio tra moderazione salariale e investimenti (un assaggio di quel che teorizza Brunetta qualche anno dopo).
L’accordo di San Valentino però è il frutto di una lucida iniziativa portata avanti da un reparto anomalo del movimento operaio del dopoguerra, quel Partito socialista che molto spesso viene rimpianto da spezzoni della sinistra moderata attuale e da una Dc al cui interno vivevano componenti diverse ma comunque omogenee nei passaggi essenziali dello scontro di classe. Una brutta pagina, di cui servirebbe tirare intera la lezione anche per non continuare a ripetere l’errore di sottovalutare la centralità di una politica per il salario, le condizioni di vita, la chiarezza della distinzione tra controparti che non possono collaborare. Allora il padronato italiano e la classe politica che lucidamente lo rappresentava decisero che serviva strappare risorse al mondo del lavoro per trasferirle ai profitti. Per parlare seriamente di sinistra occorrerebbe saper fare il contrario.
Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme).
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