La storia del diritto all’aborto

Ripercorrere la storia dell’aborto significa comprendere meglio le lotte e le poste in gioco del presente e dei diritti riproduttivi

Nell’agenda dello sciopero globale transfemminista dell’8 marzo è centrale la questione dei diritti riproduttivi, e in primo luogo all’aborto libero e sicuro, istanza storica delle lotte femministe. Diritti che sono ancora lungi dall’essere garantiti e, dove sembravano acquisiti – o meglio, conquistati –, sono quotidianamente messi in discussione. Alla crescente aggressività dei movimenti cosiddetti pro-vita e alla loro capacità di contaminare il dibattito pubblico, e di tradursi in scelte politiche e costituzionali (si pensi alla decisione del Tribunale Costituzionale polacco del 2020 e a quella del della Corte suprema statunitense del 2022), si oppongono  forme eterogenee di mobilitazione e organizzazione (tra cui, in Italia, l’osservatorio di Obiezione Respinta), impegnate in battaglie tanto culturali, quanto di garanzia  e avanzamento dei diritti. È del 4 marzo la decisione dell’Assemblea Nazionale e del Senato francesi di inserire in Costituzione il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza.

In questo contesto, ripercorrere la storia dell’aborto significa comprendere meglio le lotte e le poste in gioco del presente. Il libro di Alessandra Gissi e Paola Stelliferi L’aborto. Una storia (Carocci 2023) racconta non solo un percorso verso la legge 194/1978, ma la storia di culture, pratiche e conflitti attorno ai corpi delle donne, tra salute e liberazione, intervento della legge e autorganizzazione.

Cosa significa rivendicare che l’aborto ha una storia? E quali fonti avete scelto per ricostruirla?

Generalmente l’aborto procurato è inscritto in un quadro di valori netti, di orientamenti e principi religiosi ed etico-filosofici immutabili, astorici, universali e assoluti. È, cioè, diffusa la convinzione che appartenga a una dimensione metastorica. Una convinzione dovuta anche all’inappellabile e totale condanna dell’aborto che negli ultimi decenni è divenuta una pietra angolare del discorso pubblico vaticano. Noi invece abbiamo voluto mostrare il modificarsi – non lineare – non solo delle norme ma anche delle pratiche, della loro diffusione, dell’interpretazione di liceità/illiceità, delle pene, della determinazione e percezione di gravità e colpa. 

Per questo, nonostante il volume si collochi nel contesto dell’Italia repubblicana, abbiamo scelto di situare la ricerca in una periodizzazione più lunga, provando a interrogare le continuità e i mutamenti sul piano storico-normativo almeno dalla svolta tardo-settecentesca quando al «non nato» vengono progressivamente assegnati i caratteri di «persona»: cioè di individualità distinta che vive nel grembo materno e alla quale sono ben presto riconosciuti attributi di cittadinanza. È la fase in cui il tedesco Johann Peter Frank, pioniere della medicina preventiva ed esperto medico legale, conia l’espressione «cittadino non nato» ed elabora la possibilità di un ruolo più attivo dello Stato nella difesa della vita fetale, collocando così gestante e feto al confine tra privato e pubblico.

L’Ottocento è il secolo durante il quale il disciplinamento della nascita – anche all’interno della Chiesa e del pensiero cattolico – si fa più esplicito: una fase che rende perfettamente visibile il suo essere un prodotto storico stratificato. Questi cambiamenti nell’ordine culturale, medico e politico si traducono in una valorizzazione pubblica della maternità, il cui portato si rivela però presto ambivalente: a una funzione riproduttiva delle donne esaltata e tutelata, corrispondono aspettative e forme di disciplinamento prima sconosciute.

Nell’Europa tra Otto e Novecento l’enfasi sul controllo della riproduzione si fa sempre più deciso. In questo passaggio tra i due secoli, l’intervento diretto dello Stato-nazione in materia di procreazione è esplicito e ragionato. Dal momento che la nazione non è un dato di natura ma una costruzione politica e culturale, i corpi riproduttivi delle donne e il loro destino biologico si elevano a simbolo della comunità nazionale e del suo perpetuarsi. L’assunto discorsivo predisposto per trasformare la nazione da remota astrazione a vincolo concreto assume forza da una serie di immagini, sistemi allegorici, costellazioni narrative in grado di attribuire senso a quella astrazione. Il binomio sessualità/riproduzione ne è un elemento cruciale. 

Una tappa obbligata di questo più «lungo periodo» è rappresentata dalla formulazione quasi esclusivamente biologica della funzione materna e il suo collegamento agli interessi nazionali come autentiche caratteristiche del ventennio fascista. In Italia è con il nuovo Codice penale Rocco, promulgato nel 1930, che «l’oggetto giuridico del reato» d’aborto procurato diviene esplicitamente «l’interesse dello Stato», secondo il Titolo X, Dei delitti contro la integrità e la sanità della stirpe. Contemporaneamente la Chiesa cattolica, con l’enciclica Casti connubii di Pio XI (1930) – che concepisce il matrimonio come diritto primario e naturale ancorato alla dimensione procreativa –, porta a termine un’articolazione del discorso in materia di morale coniugale e disciplina della sessualità che avrà influenza duratura in uno spazio pubblico amplissimo.

Per ricostruire questo lungo percorso che giunge alla pandemia di Covid-19, abbiamo usato fonti eterogenee, fino a oggi poco valorizzate: fascicoli processuali, dibattiti politici, il materiale conservato dall’Aamod-Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, quello delle associazioni per il controllo delle nascite (inedito quello dell’Aied-Associazione italiana per l’educazione demografica di Roma), di associazioni femminili (si pensi all’Unione donne italiane e all’Unione femminile nazionale di Milano), dei collettivi femministi (preziosi i fondi di Archivia all’interno della Casa internazionale delle donne di Roma), e abbiamo lavorato molto sulle inchieste coeve prodotte ad esempio da medici del lavoro, da militanti e dalla stampa.

Il vostro libro è la terza uscita della collana «Nodi dell’Italia repubblicana», edita da Carocci e diretta dallo storico Michele Colucci. Che ruolo ha la frattura portata dalla nascita della Repubblica e della Costituzione? Quali sono, invece, le continuità di più lungo periodo?

Il tema dell’aborto e del controllo della riproduzione fa emergere rilevanti questioni in merito alla periodizzazione. Ad esempio, mette in rilievo la continuità del Codice civile e soprattutto di quello penale – prodotto peculiare del fascismo – che transiterà nell’Italia repubblicana rimanendo in vigore fino all’approvazione della legge del 22 maggio 1978, la n. 194 che con il suo ultimo articolo abrogherà l’intero Titolo X. Partire da lontano e riconsiderare la stratificazione normativa ha consentito, a nostro parere, di sottoporre a verifica più efficace il paradigma della «continuità» tra fascismo e Repubblica e la più consueta periodizzazione interna a questa fase, in cui il mutamento sarebbe inscritto nei soli anni Settanta. Il volume, dunque, non si limita alla vicenda della sola legge 194, ma ripercorre tutta la storia dell’Italia repubblicana, in linea con la collana in cui è uscito, dedicata al lungo ciclo di trasformazioni che hanno cambiato profondamente la società, l’economia, la politica, la cultura e il territorio dopo la seconda guerra mondiale. 

Nel giro di un decennio, vanno nella direzione della depenalizzazione dell’aborto paesi così diversi per cultura, politica, diritto come Regno Unito (1967), Stati uniti (a livello federale, via sentenza della Corte Suprema, nel 1973), Francia (legge Veil, 1975), Israele (1977), Norvegia (1978). In che misura quello dell’aborto è anche un nodo della storia internazionale?

Il quadro è più complesso e meno lineare: basti pensare che in Unione sovietica l’aborto viene legalizzato per la prima volta nel 1920 e nell’Europa orientale negli anni Cinquanta ma, dopo il crollo dell’Urss, ci sono stati cambiamenti in senso restrittivo, soprattutto in Polonia. Ma quanto dici è reale, e per questo abbiamo cercato di far emergere la dimensione transnazionale, persino osmotica, sia del dibattito legislativo, sia dei saperi, e anche dell’attivismo: da quello dei movimenti per il controllo delle nascite a quello femminista, particolarmente nel decennio dedicato dalle Nazioni Unite ai diritti delle donne, avviato dalla Conferenza mondiale di Città del Messico del 1975.

Il diritto all’aborto è in primo luogo un diritto di scelta individuale, della donna. Ma perché sia concreto non basta che la legge lo consenta astrattamente come libertà personale; deve essere anche garantito dalle strutture sanitarie. Che rapporto si stabilisce tra la legge sull’Interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) e la nascita del Servizio sanitario nazionale? Più in generale, cosa ci dice ciò sul rapporto tra libertà personali e diritti sociali?

In verità, in Italia l’impostazione della legge 194 non è legata al principio della libertà personale, né tantomeno all’autodeterminazione riproduttiva, bensì alla tutela del diritto alla salute, e questo a partire dalla sentenza della Corte costituzionale n. 27 del 1975. In quest’occasione i giudici si pronunciano sull’incostituzionalità parziale dell’art. 546 del Codice penale, che puniva il reato di aborto procurato anche in caso di gravi pericoli per il benessere fisico o psichico della gestante. La sentenza evoca il conflitto madre/concepito, riconoscendo che l’interesse costituzionalmente protetto del concepito entrava in collisione con altri beni tutelati dalla Costituzione, come la salute della madre che meritava adeguata protezione. Con queste riflessioni la Corte incardinava al diritto alla salute previsto dall’art. 32 una possibile legge in materia.

Sempre nel 1978 nasce il Servizio Sanitario Nazionale. Le sorti della legge 194 sono strettamente legate a quelle del Ssn e a quelle dei consultori familiari istituiti nel 1975, come è dimostrato dalle difficoltà di applicazione della legge che si sono aggiunte a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 e, quindi, della regionalizzazione della sanità.  Difendere e potenziare il Ssn significa prendersi cura anche dell’applicazione della 194, e viceversa.

Pratiche e iniziative «dal basso» attraversano questa storia con continuità, prima e dopo la legge, e al contempo rappresentano un elemento portatore di riforme e rotture. Qual è stato il ruolo dell’autorganizzazione delle donne – pensiamo per esempio ai consultori – e come è cambiato a fronte delle conquiste raggiunte e della necessità di tutelarle sempre?

Il nostro sguardo è stato rivolto certamente alle istituzioni, senza per questo vederle come strutture produttrici di meccanismi coerenti e immanenti che gravano dall’alto su soggetti inermi. Un rischio che, soprattutto se si guarda alle donne, è sempre incombente, tale è l’abitudine a inscriverle in una subordinazione che renderebbe superflua ogni altra cornice interpretativa fino alle loro esplicite e formalizzate «ribellioni». Come dicevamo prima, abbiamo evitato letture parentetiche degli anni Settanta, in favore di uno sguardo più attento alla complessità dei meccanismi e delle articolazioni sociali del potere e alle risorse comunque possibili di soggetti non solo giuridicamente più fragili, provando a seguire il percorso tracciato da una ricchissima storia (sociale) delle donne.

Certamente l’autorganizzazione dal basso è stata decisiva: pensiamo all’attività del Cisa, il Centro informazioni sulla sterilizzazione e sull’aborto fondato nel 1973 da Adele Faccio e Guido Tassinari, convinti sostenitori della disobbedienza civile, che aprono a Firenze un ambulatorio. E pensiamo ovviamente alle esperienze dei consultori autogestiti femministi: a Milano il consultorio della Bovisa, vicino a una fabbrica che impiegava principalmente manodopera femminile; a Padova il Centro per la salute della donna legato al collettivo Lotta femminista; a Venezia il Gruppo salute; a Roma dapprima il consultorio di via dei Sabelli, aperto da Simonetta Tosi nel quartiere di San Lorenzo, e poi altri gruppi nati all’interno dei «collettivi di quartiere». Nel giro di pochi mesi, i progetti finalizzati a diffondere strumenti utili per la consapevolezza e la salute sessuale iniziano ad affrontare, direttamente, anche i problemi delle interruzioni di gravidanza clandestine. Seguendo l’esempio del Cisa, si organizzano i cosiddetti viaggi a Londra ma, in alcuni casi, si formano anche «nuclei di autogestione dell’aborto» che praticano in Italia, clandestinamente, le interruzioni col «metodo Karman» (dell’aspirazione) entro il primo trimestre, metodo meno invasivo del raschiamento chirurgico. 

Come cambia, anche solo negli ultimi settant’anni, la pratica dell’interruzione di gravidanza? Quali saperi si tramandano, e come sono cambiate le figure che praticano l’aborto, prima e dopo la sua depenalizzazione?

È bene ricordare che la legge, con l’art. 15, prevede «l’uso delle tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza». Oltre al metodo dell’aspirazione, successivamente all’approvazione della legge 194, si è sperimentato e diffuso anche l’aborto farmacologico, metodo alternativo alle procedure chirurgiche.

In Italia i progetti di commercializzazione della pillola RU486 sono stati al centro di accesi dibattiti, soprattutto in occasione del trentennale della legge che si è chiuso, il 24 dicembre 2008, con la condanna – da parte del cardinale Bagnasco, presidente della Cei – della pillola RU486, accusata di banalizzare l’aborto. Il 30 luglio 2009, il Consiglio di amministrazione dell’Agenzia italiana del Farmaco (AIfA) ha espresso parere favorevole alla sua commercializzazione, in ritardo rispetto alla Francia dove è in uso dal 1988 e all’Inghilterra che l’ha introdotta nel 1990. 

Nell’immediato la liberalizzazione della RU486 non ha rivoluzionato l’accesso all’Ivg nel nostro paese: la sua diffusione, infatti, si è attestata al 12,9% del totale nel 2014 e al 20,8% nel 2018. Da questo punto di vista, l’impatto della pandemia di Covid-19 è stato rilevante: nel 2020 sono state emanate le «Linee di indirizzo sulla interruzione volontaria di gravidanza con mifepristone e prostaglandine per agevolare l’accesso all’aborto farmacologico». La somministrazione dei farmaci è stata demandata agli ospedali, alle case di cura, ai consultori e alle strutture ambulatoriali pubbliche autorizzate dalle Regioni, senza pernottamento. A partire dal mese di settembre di quell’anno si è osservato un aumento significativo della percentuale di Ivg farmacologiche.

Inoltre, una delle cose più interessanti nello studio della storia dell’aborto è proprio quella delle molte figure che l’hanno attraversata che non sono riassumibili nella dicotomia professionista/mammana né nella rappresentazione stereotipata di queste figure, anche perché le pratiche abortive – essendo così diffuse ma clandestine – intrecciano le reti di relazione di ciascuna. Un solo esempio: durante il fascismo, alcune levatrici diplomate, iscritte regolarmente all’albo e in possesso della tessera del partito, erano solite procurare aborti e, quando chiamate a renderne conto dalla giustizia, faticavano a non collocare le pratiche abortive dentro la più complessiva sfera della cura della salute riproduttiva delle donne.

La storia delle leggi sull’aborto nel mondo dimostra come anch’esso non sia un diritto che può essere dato per acquisito una volta per tutte, ma è sempre oggetto di conflitti e può essere vittima di clamorosi arretramenti. Sebbene in Italia non sia ancora stato messo in discussione quanto in altri paesi Ue come la Polonia, il potenziale divisivo della 194 appare sempre più evidente – e sempre più sfruttato a destra, fino al profilarsi di una vera e propria culture war. 

Che nel corso del XXI sec. la libertà di scelta e il libero accesso all’aborto volontario costituiscano un diritto acquisito e indiscutibile per le donne in buona parte dei paesi del mondo e certamente in parte d’Europa, è un’affermazione spesso ripetuta, ma non sempre confermata da un’analisi più ravvicinata e dettagliata. Le normative in materia d’aborto si possono dividere, sostanzialmente, in quattro tipologie: divieto assoluto; legalizzazione che preveda però configurazioni specifiche in cui l’aborto è consentito (modello prevalente); decisione libera e autodeterminata da parte delle donne; modello misto che prevede la libera decisione con alcune prescrizioni.
 

Difficile considerare questi modelli come definitivamente acquisiti, sia nella direzione di una maggiore liberalizzazione, ma anche del suo contrario. Si prenda il caso della Polonia: tra il 2016 e il 2018 il partito conservatore Diritto e giustizia (Prawo i Sprawiedliwość, PiS) ha presentato alcune proposte di modifica della legge estremamente restrittive: aborto consentito solo nel caso di pericolo per la vita della donna, reclusione per i medici che praticano illegalmente l’aborto e, infine, un progetto di legge per introdurre il divieto di aborto anche nei casi in cui il feto sia affetto da malformazioni genetiche, comprese quelle che potrebbero causare la morte durante la gestazione o immediatamente dopo il parto. Grazie anche a una serie di intense proteste da parte delle donne «in nero», in più di cento città polacche, le proposte di modifica della legge non sono state ratificate. Rispetto a questa riforma si è pronunciato nel 2020 il Tribunale costituzionale dichiarando la normativa incostituzionale nella parte che riguarda i casi di malformazione o sindromi gravi del feto. 

È bene sottolineare che in tutta Europa, oggi, 20 milioni di donne vivono in paesi in cui

l’aborto è vietato in quasi tutte le circostanze. In ogni caso, il disciplinamento della riproduzione si rivela un campo di tensione costante, quanto più il discorso nazionalista acquisisce forza e si intreccia con la difesa dei confini e con la preoccupazione per «l’inverno demografico» o per la cosiddetta «sostituzione etnica». 

Si veda, tra i molti esempi possibili, la sentenza della Corte suprema degli Stati uniti (con equilibri ridisegnati dalla presidenza Trump) «Dobbs v. Jackson» che nel 2022 ha ribaltato la storica «Roe v. Wade» del 1973 che aveva inaugurato una stagione internazionale di riforme depenalizzanti delle interruzioni volontarie di gravidanza.  

Guardando all’Italia, vale la pena ricordare che – mentre le associazioni pro-life acquistano sempre più spazio e visibilità – nei soli primi tre mesi della XIX Legislatura sono state presentate quattro proposte di legge relative alla questione riproduttiva. Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia, ha riproposto per l’ennesima volta un disegno di legge per modificare l’art. 1 del codice civile e anticipare l’acquisizione della capacità giuridica al «momento del concepimento» e non più al «momento della nascita». Il capogruppo della Lega al Senato, Massimiliano Romeo, ha presentato una proposta che prevede il riconoscimento del concepito come componente del nucleo familiare; e il senatore di Fratelli d’Italia Roberto Menia ha ipotizzato l’attribuzione della soggettività giuridica agli embrioni dal momento del concepimento. Infine, un disegno di legge presentato al Senato dal capogruppo di Fratelli d’Italia, Lucio Malan, e dalla senatrice Isabella Rauti, ha sollecitato l’inserimento della «Giornata della vita nascente» – in un calendario civile già affollatissimo – «per valorizzare l’accoglienza di ogni nuova vita, per incoraggiare e sostenere la scelta di diventare genitori». La data individuata è il 25 marzo, in coincidenza con la ricorrenza religiosa dell’Annunciazione a Maria. Mentre il governo Meloni sostiene di non voler abolire o modificare la legge 194, i riferimenti al controllo della riproduzione sono quotidiani.

Alessandra Gissi è professoressa associata di Storia contemporanea all’Università L’Orientale di Napoli. Fa parte del comitato di direzione della rivista Italia Contemporanea.

Paola Stelliferi è assegnista di ricerca in Storia contemporanea all’Università degli Studi di Padova, dove ha insegnato “Storia delle donne e di genere”.

Francesca Gabbriellini è dottoranda in Storia all’Università di Bologna.

Bruno Settis è autore di Fordismi. Storia politica della produzione di massa (il Mulino, 2016).

6/3/2024 https://jacobinitalia.it/

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