Roma: censura per chi parla di Palestina a scuola
A Roma un insegnante di filosofia e storia del liceo scientifico Augusto Righi è stato sottoposto a due procedimenti disciplinari per aver parlato agli studenti di genocidio in Palestina
di redazione Monitor Roma
A pochi giorni di distanza dalle manganellate sugli studenti pisani che manifestavano contro il genocidio in corso in Palestina, vale la pena riflettere sul clima di censura presente nelle scuole nei confronti di chi critica il colonialismo israeliano. Due casi in particolare hanno fatto discutere: il licenziamento di un assistente all’educazione algerino del liceo francese Chateaubriand di Roma, impiegato da più di dieci anni e adesso sotto accusa per aver pubblicato un post Instagram sgradito, e la vicenda di un insegnante di filosofia e storia del liceo scientifico Augusto Righi di Roma, che ha subito una serie di fortissimi attacchi a mezzo stampa, fondati su notizie false, e provvedimenti disciplinari che potrebbero portare a nuove sanzioni.
Il 30 ottobre scorso un articolo del Corriere della sera, ripreso acriticamente da altri giornali, ha sostenuto che il professore del Righi avesse assegnato a una classe un tema che chiedeva di commentare le posizioni su Israele e sul massacro in atto espresse da un alunno, cittadino italo-israeliano, durante la lezione. A detta del giornale il professore avrebbe messo in imbarazzo lo studente, ma la notizia è stata subito smentita pubblicamente da un documento degli alunni e delle alunne della classe.
Sulla scia delle polemiche, il professore è stato sottoposto ad alcuni provvedimenti disciplinari: una contestazione d’addebito da parte della dirigente scolastica (che si conclude con la sanzione “censura”), una visita a scuola di tre ispettori inviati dal ministero dell’istruzione e l’avvio di un altro procedimento disciplinare da parte del ministero, di cui ancora si attende l’esito e che annuncia gravi sanzioni.
L’intento evidente è di criminalizzare le attività didattiche finalizzate al racconto dell’oppressione del popolo palestinese. Il ministro dell’istruzione e del merito, Giuseppe Valditara, ha un ruolo politico diretto in questa faccenda. Dal 7 ottobre, l’inizio della fase più recente del conflitto in Palestina, diverse sono state le ingerenze del ministero sulla libertà d’insegnamento e d’espressione: le ispezioni effettuate in due licei a Milano, per esempio, dopo alcune dichiarazioni degli studenti, e la circolare dell’Ufficio scolastico regionale del Lazio in previsione del 27 gennaio, Giornata della memoria, che invitava i dirigenti scolastici a controllare le opinioni degli studenti e degli insegnanti riguardo agli “scenari internazionali di crisi”, espressione criptica che si riferisce al genocidio in Palestina. Pubblichiamo di seguito un’intervista al professore del liceo Righi, per far luce sulla vicenda spiegandone i punti cruciali.
Professore, ci racconta dei provvedimenti a cui è stato sottoposto?
Sono stato sottoposto a due procedimenti disciplinari: uno da parte della dirigente scolastica, l’altro da parte del ministero, seguito a un’ispezione con una specie d’interrogatorio a scuola. Il primo procedimento si è concluso con una sanzione del tipo “censura”. Attendo ancora l’esito del secondo.
Come si è arrivati al primo procedimento disciplinare?
La censura segue un incontro avvenuto a scuola tra la dirigente scolastica e i genitori di un alunno di cittadinanza italo-israeliana. Questi ultimi lamentavano la mia presunta faziosità sulla questione palestinese e la verbalizzazione nel registro di classe del nome del ragazzo e della sua cittadinanza italo-israeliana. La cosa in realtà era andata diversamente. A partire dalla seconda settimana di ottobre ho fornito alle mie classi alcuni spunti di riflessione sulla questione israelo-palestinese, con riferimento ai valori educativi dell’uguaglianza degli esseri umani e del ripudio della guerra. Durante una delle mie lezioni lo studente di cui sopra ha spiegato di essere di religione ebraica e cittadino italo-israeliano e ha chiesto di leggere un documento, da lui elaborato a casa, per illustrare il suo punto di vista sulla questione israelo-palestinese. Come di consuetudine, nel rispetto del diritto di parola di tutti e tutte, e della pluralità dei punti di vista, ho acconsentito alla richiesta del ragazzo. Al termine della lezione, come di norma, ho verbalizzato sul registro di classe le attività didattiche del giorno e ho annotato – come testimonianza di pluralismo – anche il lungo intervento, il nome del ragazzo e la sua cittadinanza. Successivamente sono stato convocato dalla dirigente e ho appreso del fraintendimento dei genitori del ragazzo riguardo un atto che, a parer loro, avrebbe leso la privacy del figlio. Così, d’intesa con la dirigente, abbiamo deciso di rimuovere il nome dell’alunno dalla verbalizzazione sul registro, pur non avendo mai pensato di aver causato danno a quest’ultimo, ma anzi di averne valorizzato il punto di vista. La cittadinanza del ragazzo era già nota alla classe.
Poi è arrivato il secondo procedimento…
Il secondo procedimento segue la visita di tre ispettori ministeriali a scuola, che mi hanno sottoposto a un interrogatorio di circa tre ore sulle mie attività didattiche. La contestazione mi accusa sostanzialmente di aver fatto “intravedere” il mio “orientamento di parte”, e di aver parlato per troppo tempo di Palestina durante le mie lezioni; di “mancanza di senso istituzionale”, perché avrei rivelato agli studenti la notizia dell’ispezione ministeriale in corso – un segreto di Pulcinella già di pubblico dominio sulla stampa – e l’assenza di dibattito nel collegio dei docenti sul rapporto tra educazione e genocidio in Palestina. Mi è sembrato di vivere una situazione kafkiana già durante l’interrogatorio degli ispettori. Mi è stato chiesto il perché svolgessi lezioni sulla Palestina a scuola e se, nel trattare, per esempio, un argomento come la prima guerra mondiale, citassi le diverse posizioni riguardo all’intervento nel conflitto. Hanno voluto che facessi loro un esempio di come ho collegato all’attualità i temi trattati in classe, e così via per tre ore…
Il suo caso ha avuto una forte eco mediatica. Perché, secondo lei, vari articoli di giornale hanno scritto il falso?
Anche le accuse e le falsità di certa stampa nei miei confronti, che hanno preceduto la sanzione inflitta dalla dirigente, sono state kafkiane. Il linciaggio mediatico è cominciato con una menzogna spudorata secondo cui avrei assegnato un compito discriminatorio alla classe, chiedendo di commentare le opinioni del ragazzo ebreo sulla situazione in Palestina. Non credevo ai miei occhi. Chi mi conosce sa che sono antifascista e che non discrimino nessuno. Non ho dovuto neppure smentire la notizia, perché immediatamente la stessa classe, di fronte alle assurdità pubblicate, lo ha fatto al mio posto, diffondendo un documento scritto in cui negava l’esistenza del compito.
Altri articoli hanno attaccato il contenuto delle mie lezioni. È diventato uno scandalo perfino proiettare a scuola un video di Amnesty International che denuncia l’apartheid in Israele, spiegare la differenza tra ebraismo e sionismo, esaminare le posizioni di un ex ambasciatore di Israele convinto della necessità di “distruggere Gaza”, riflettere sul bombardamento dell’ospedale Al-Ahli che ha causato la morte di più di cinquecento palestinesi… È stata usata una tecnica di comunicazione ingannevole. Si dà la sensazione al lettore di toccare con mano qualcosa di concreto, una prova inequivocabile alla quale non si può non credere, non una semplice opinione del giornalista. La stessa strategia usata da Colin Powell nel 2003, quando agitando una provetta di antrace, una presunta prova, per giustificare la guerra convinse il mondo con una bugia: la falsa notizia che l’Iraq possedeva armi di distruzione di massa.
Un altro motivo della facile diffusione del falso giornalistico è la cialtroneria con cui alcuni scrivono copiando e incollando dagli articoli dei colleghi di altre testate, senza verificare direttamente le fonti. Tutto, infatti, è cominciato con un articolo del Corriere della Sera, a cui gli altri giornali si sono accodati ciecamente. Si è scomodato anche Salvini. Ho letto diversi commenti violenti ad alcune sue dichiarazioni che mi insultavano e invocavano il mio licenziamento.
Di fronte alla smentita della classe che negava l’esistenza del fantomatico tema discriminatorio, la fabbrica del falso non si è fermata. Alcuni quotidiani hanno dato notizia di una dichiarazione sottoscritta da ventuno ex studenti ebrei del liceo che chiedeva alla dirigente di rimuovermi dall’incarico. Non ho mai conosciuto questi studenti, i quali, evidentemente, per motivi a me ignoti, hanno prestato il loro nome per questa squallida operazione. Invece, gli studenti e le studentesse che mi conoscono, quelli delle mie classi, hanno rilasciato spontaneamente dichiarazioni di solidarietà nei miei confronti contro questi attacchi meschini e infondati.
Come hanno reagito gli studenti e i colleghi?
Vari genitori e docenti si sono mostrati solidali. Come dicevo, tutte le mie classi hanno solidarizzato attraverso lettere inviate alla dirigente. Vari studenti e studentesse di altre classi hanno partecipato a sit-in davanti il liceo esprimendo solidarietà nei miei confronti e protestando contro gli attacchi alla libertà d’insegnamento e in sostegno del popolo palestinese. Alunni e alunne di altre scuole hanno protestato davanti ai locali del Corriere della Sera per denunciare la criminalizzazione dei docenti che aprono il dibattito sulla Palestina e per solidarizzare con me.
Quale logica si cela, secondo lei, dietro questi attacchi?
La favola e la retorica della neutralità. Queste incursioni nella mia libertà d’insegnamento si poggiano su luoghi comuni che presuppongono uno sfondo ideologico non democratico e che interpretano la figura del docente alla stregua di un acritico addetto alla riproduzione della narrazione dominante. Chi ci accusa d’essere “di parte”, ci sta dicendo che non siamo allineati e che per questo meritiamo una punizione pubblica. Vogliono fare dell’ignavia e del principio stupido e impossibile della neutralità i valori guida dell’educazione. La mia scuola si è dimostrata inadeguata nel resistere alle pressioni esterne, in quanto non è riuscita a tutelare i docenti nello svolgimento sereno dei loro programmi, secondo i loro metodi educativi. Questa grave carenza ha limitato anche le occasioni di confronto e apprendimento: una conferenza sulla questione palestinese, organizzata dagli alunni e dalle alunne, era stata in un primo momento autorizzata dalla dirigente. Tuttavia, dopo aver ricevuto pressioni di persone che reputavano “non obiettivo” il relatore di Amnesty invitato, la preside ha annullato l’incontro. Un anno fa il ministro Valditara rivolgeva la stessa accusa di faziosità alla dirigente del liceo Leonardo Da Vinci di Firenze, che aveva scritto una lettera ai suoi studenti condannando le violenze neofasciste compiute davanti al liceo Michelangiolo. E subito dopo il 7 ottobre 2023 il ministro ha ordinato ispezioni in due licei di Milano per scoraggiare la mobilitazione studentesca contro il massacro in Palestina.
In che modo si dovrebbe interpretare, secondo lei, la libertà di insegnamento?
Educare non significa presentare alla classe semplicemente un elenco di punti di vista. Educare è formare. Non possiamo considerare i punti di vista esistenti come equivalenti sul piano formativo. I professori non possono dire alle classi: “Considerate anche l’esistenza del punto di vista fascista e, se volete, sposatelo”. Abbiamo il dovere di entrare nel merito dei contenuti educativi per produrre una consapevolezza che metta in condizioni di discernere, per esempio, tra machismo e rispetto della donna, tra suprematismo bianco e antirazzismo, tra fascismo e antifascismo, tra classismo e rispetto del lavoratore e delle sue lotte, e così via. Ci lascino liberi di insegnare che ripudiamo la guerra e il colonialismo. Il senso critico non si raggiunge solo con l’acquisizione di forme. Il formalismo ci condanna all’equiparazione dei contenuti. Forma e contenuto vanno invece insieme. L’attività dei docenti è soggetta a una manipolazione istituzionale continua e sistematica. La Costituzione è di carta e non tutela nei fatti la libertà d’insegnamento. Ministri e dirigenti accolgono strumentalmente o acriticamente segnalazioni e pressioni di gruppi privati che soffocano la libertà di docenti e studenti.
Come giudica lo stato di salute della democrazia nella scuola?
Nelle scuole è sempre più difficile svolgere il mestiere del docente, perché la nostra funzione è sempre più allineata alla volontà dei dirigenti scolastici e dei governi. Lo spazio della riflessione critica è sempre più esiguo. Nei collegi dei docenti non si discute liberamente, siamo diventati un organo che ratifica scelte non nostre. I presidi assumono la fisionomia dei dirigenti d’azienda, non sono formati per promuovere l’educazione al pensiero critico. I docenti sembrano sempre più intimiditi da questa condizione. Al collegio dei docenti della mia scuola ho sentito il bisogno di comunicare il mio disagio nel continuare a lavorare nel frastuono delle bombe, come se nulla fosse. Ho cercato di trasmettere il mio malessere leggendo tra le “varie ed eventuali” un documento in cui m’interrogavo sul senso della funzione del docente nelle attuali condizioni, ma avvertivo che era già di per sé offensivo per la nostra dignità di insegnanti trattare questo tema cruciale nella fase residuale dell’ordine del giorno, l’unico in cui si riesce a deviare per qualche istante dal protocollo, quando si è già pronti a scappare per la stanchezza.
Ma il segno più importante della difficoltà del docente nella riflessione critica collettiva è il progressivo cedimento alla madre di tutte le intimidazioni, quella che ha trasformato la parola “politica” in un termine tabù. Così, nel tritacarne scolastico che tutto sterilizza, mentre portiamo Pericle agli alunni e alle alunne, ci rimproverano allorché lo applichiamo avventurandoci nel campo minato del dibattito politico. La cultura dell’equidistanza non può appartenere alle persone critiche. Se c’è un oppresso, occorre dire che c’è. Se c’è un oppressore, non dobbiamo aver paura di considerarlo tale. Non si possono mettere queste differenti realtà sullo stesso piano. Dobbiamo denunciare le radici della guerra e spiegare ai ragazzi e alle ragazze che cosa sono il colonialismo e l’imperialismo. L’educazione è intimamente legata a questo compito, è una funzione politica nel senso più alto del termine. Solo l’ignorante lo nega. In questo senso bisogna assolutamente parlare di politica a scuola rigettando ogni intimidazione. Questo bisogno del pensiero ci rimproverano di rivendicare.
19/3/2024 https://www.monitor-italia.it/
Immagine:disegno di ugo feliziani
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