L’economia del lavoro forzato va a gonfie vele
Il nuovo Rapporto Oil: profitti aumentati del 37%, 2,7 milioni di vittime in più. Marra, Cgil: indebolimento dei sindacati e guerre le cause principali
Come se dieci anni fossero passati invano. Come se la parola “progresso” non avesse più senso. Dopo avere letto il nuovo Rapporto 2024 (che aggiorna il precedente del 2014) su “Profitti e povertà: l’economia del lavoro forzato” pubblicato a Ginevra dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), è difficile avere una reazione diversa. Perché l’economia della schiavitù (lavoro forzato, sfruttamento grave del lavoro, sfruttamento della prostituzione e traffico di esseri umani) è più ricca ed estesa rispetto a dieci anni fa, e le sue vittime sono aumentate.
Stando al nuovo Rapporto, infatti, i profitti derivanti dal lavoro forzato raggiungono l’equivalente di 236 miliardi di dollari ogni anno. Il che significa che sono aumentati di 64 miliardi di dollari (+37 per cento) dal 2014. L’Oil stima che i trafficanti e i criminali guadagnino quasi 10 mila dollari per vittima, rispetto agli 8.269 dollari (al netto dell’inflazione) di dieci anni fa.
Quasi tre milioni di vittime in più
“Nel 2021 – si legge nel Rapporto – le persone coinvolte quotidianamente nel lavoro forzato erano 27,6 milioni. Questa cifra indica una frequenza di 3,5 ogni mille persone nel mondo. Rispetto al 2016, il numero di persone costrette al lavoro forzato è aumentato di 2,7 milioni”. Come precisa correttamente Avvenire, l’unico quotidiano italiano ad avere ripreso la notizia, “nel caso dei lavoratori in condizioni di sfruttamento, i profitti illegali sulla loro pelle rappresentano la differenza tra ciò che i datori di lavoro stanno effettivamente pagando ai lavoratori e ciò che pagherebbero loro in circostanze normali”. Diverso e più grave il caso dello sfruttamento sessuale: qui – scrive Paolo M. Alfieri – “i profitti illegali rappresentano tutto, tranne la piccola (o inesistente) quota di denaro che arriva alle vittime”.
Industria e servizi guidano la lista nera
I numeri delle vittime sono questi: 6,3 milioni nell’industria (37 per cento, 35 miliardi di dollari americani di profitti), 5,5 milioni nei servizi (32 per cento, 20,8 miliardi di dollari), 2,1 milioni in agricoltura (12 per cento, 5 miliardi di dollari), 1,4 milioni nel lavoro domestico (8 per cento, 2,6 miliardi di dollari), 1,9 milioni in settori non categorizzati o illegali (11 per cento).
I profitti illegali totali annuali derivanti dal lavoro forzato sono più alti in Europa e Asia centrale (84 miliardi di dollari), seguiti da Asia e Pacifico (62 miliardi di dollari), Americhe (52 miliardi di dollari), Africa (20 miliardi di dollari) e Paesi arabi (18 miliardi di dollari).
Marra (Cgil): l’emergenza ha due cause
“Sono numeri che purtroppo non sorprendono – commenta Salvatore Marra, coordinatore dell’Area internazionale Cgil -. I segnali di un deterioramento a livello globale della situazione che riguarda lo sfruttamento lavorativo grave c’erano tutti. E sono legati a due fattori. Il primo, il peggioramento della condizione di democrazia e partecipazione delle rappresentanze del lavoro. I dati del Rapporto Oil lo confermano: dove c’è dialogo sociale forte, dove c’è contrattazione collettiva, come ad esempio nei Paesi del Nord Europa, c’è anche meno sfruttamento. Ma assistiamo purtroppo a un deterioramento della capacità delle organizzazioni sindacali di incidere nella lotta allo sfruttamento grave. Il secondo punto è legato al disordine mondiale, alla crescita dei conflitti armati in diverse regioni del mondo. Il lavoro sfruttato e il lavoro forzato, e il caporalato, sono in crescita nei Paesi dove c’è guerra”.
La proposta della Commissione Ue
“Quello che ci viene consegnato da questo Rapporto decennale – prosegue Marra – è un quadro di gravità e urgenza in ragione del quale avremmo bisogno di un’azione immediata a livello globale. Su questo tema non è un caso che la Commissione europea abbia presentato una proposta di direttiva per bandire l’ingresso di prodotti e merci frutto del lavoro forzato negli Stati della Ue. Non sappiamo se arriverà l’approvazione definitiva. Perché i tempi sono molto stretti. Restano sostanzialmente due sedute plenarie del Parlamento europeo a disposizione per farlo. Anche se riguarderebbe solo i 27 Paesi Ue, sarebbe un segnale importante”.
Le legge italiana, inapplicata
Come importante e in controtendenza – osserva ancora il responsabile della Cgil – è la legislazione italiana, “una delle più avanzate, sulla carta, perché la nostra legge contro il caporalato è un provvedimento faro. Peccato che sia in buona sostanza inattuata, come ci spiegano puntualmente la Flai Cgil e l’Osservatorio Placido Rizzotto. Quindi bisogna darle gambe e forza, farla diventare veramente efficace fornendo gli strumenti per agire a tutte le parti in causa: sindacati, datori di lavoro, ispettori del lavoro, forze dell’ordine”.
Lo scandalo dello sfruttamento sessuale
Lo sfruttamento sessuale forzato a fini commerciali rappresenta più di due terzi (73 per cento) del totale dei profitti illegali, nonostante rappresenti solo il 27 per cento del numero totale di vittime del lavoro imposto da privati. Questi dati – si legge nel Rapporto Oil – “sono spiegati dall’enorme differenza nei profitti per vittima tra il lavoro forzato generato dallo sfruttamento sessuale e altre forme di sfruttamento del lavoro forzato nel settore privato: profitti di 27.252 dollari per vittima per il primo contro 3.687 dollari per vittima per il secondo”.
Rilanciare il lavoro di rete
Commenta ancora Marra: “L’immagine dello sfruttamento sessuale che esce dal Rapporto è estremamente preoccupante, perché ci restituisce un aumento costante del fenomeno. Per fermarlo – oltre a leggi, protocolli, convenzioni e risorse, come dicevamo sopra – bisognerebbe anche rilanciare il lavoro di rete fatto in passato. In Italia abbiamo avuto molte esperienze di livello e qualità. Reti della società civile, delle organizzazioni sindacali e datoriali che collaboravano nella lotta alla prostituzione, allo sfruttamento delle lavoratrici e dei lavoratori del sesso, insieme a chi doveva poi garantire il reinserimento sociale delle vittime. Queste esperienze promosse a livello territoriale dalle istituzioni locali purtroppo si sono fermate – conclude Marra -, perché si è creduto che l’atteggiamento puramente repressivo promosso dalle destre fosse l’unica strada, ma non è così”.
“Il lavoro forzato perpetua il circolo vizioso di povertà e sfruttamento che nega la dignità delle persone. Sappiamo che la situazione è purtroppo peggiorata. La comunità internazionale deve urgentemente unirsi nell’azione per porre fine a questa ingiustizia”, osserva Gilbert F. Houngbo, direttore generale dell’Oil, a sigillo di un Rapporto che, in questa gravità, forse nessuno si aspettava.
Davide Orecchio
25/3/2024 https://www.collettiva.it
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