L’eredità di una rivoluzione. La 180 nelle scuole
‹‹L’eredità di una rivoluzione›› è un titolo che degli studenti appena maggiorenni hanno dato al loro intervento all’interno di un seminario, tenutosi l’otto e il nove maggio presso l’Università di Torino, dal titolo Deistituzionalizzazione. Applicazione, effetti ed eredità della riforma psichiatrica italiana (1961-2022). Si tratta dei miei studenti della classe 5 E dell’istituto “A. Prever” di Pinerolo: Sofia, Erica, Simone e Irene.
Al ritorno dall’università li ho visti nei corridoi della scuola, notevolmente felici, con quel dolce luccichio negli occhi di chi sa di aver portato al termine qualcosa di importante e di bello. Non si vede spesso a scuola: le ragioni sono tante e complicate, non entro nel merito di questa questione. Mi tengo stretti però questi momenti: costituiscono un importante carburante per chi ha deciso di compiere quel mestiere “impossibile”, a detta di Freud, che è educare.
Pullulano ormai nella scuola dei vaniloqui tecnicistici sulle “strategie” da operare per la didattica, senza considerare il contesto-mondo in cui i nostri figli sono condannati a crescere. I ragazzi però lo sanno, hanno sviluppato una coscienza, seppur opaca, della contraddizione. Le loro domande circa il senso di quello che studiano a scuola, quando là fuori il mondo procede in tutt’altra direzione e – si aggiunge in calce – in una direzione non bella, aumentano e si fanno incalzanti. Da parte mia, da tempo ho maturato una considerazione piuttosto semplice: se non vogliamo essere in malafede, se vogliamo essere fedeli alle tradizioni culturali a cui diamo voce nella scuola: alla nostra matematica, alle nostre lettere, alla nostra storia, occorre dire chiaramente che il nostro scopo è la rivoluzione. Non è – credetemi – un’affermazione estremista, ma semplicemente una conseguenza concettuale delle nostre premesse.
Ciò che proviamo ad insegnare con la nostra poesia, con la nostra tradizione, con il rigore di pensiero che si cerca di trasmettere, non trova posto nel mondo attuale: nella deriva oligarchica ormai evidente, nella forza e nel denaro eretti a unico motore trainante, nello sfruttamento normalizzato del lavoro, nella corruzione eretta a virtù morale, nella patologica psicologizzazione del malessere sociale. Bisogna allora dire con forza che il nostro scopo è lavorare per un mondo possibile, per un mondo diverso. Dico ai ragazzi che sì, il sapere che si insegna “fa centro”, ma in un altro mondo e in un altro modo e che lo scopo che la scuola ha non è quello di fornire loro strumenti per adattarsi al mondo, ma per cambiarlo. Sembrano parole vetuste, eppure, appena dette, toccano nei ragazzi delle corde profonde.
Così, quando all’incirca tre settimane fa mi sono fermato con i ragazzi a scuola il pomeriggio per iniziare ad abbozzare l’intervento che poi hanno tenuto in università, è con un brivido alla schiena che ho accolto la proposta degli studenti di intitolare l’intervento “L’eredità di una rivoluzione”. Venivamo da un percorso di incontri con il dott. Luciano Tosco, un grande educatore del torinese, molto attivo negli anni di contestazione dei manicomi, che hanno portato poi alla famosa legge 180. Luciano ha portato nelle classi la sua storia, le lotte ed i sogni della sua generazione per una società più giusta, dove le persone non venissero emarginate a causa delle loro fragilità, non nascondendo al contempo, però, i drammi e i dubbi intorno all’abbattimento di un paradigma secolare.
Il taglio che abbiamo deciso di dare agli incontri è stato molto biografico: Luciano ha portato quello che ha visto, quello che ha fatto, le vicende in cui è stato protagonista e che ha accuratamente raccontato nel libro Oltre il ’68. Abbiamo cercato di suscitare l’attenzione degli studenti portando esempi di vita concreta e non solo perché il racconto coinvolge molto più di una lezione teorica, ma anche e soprattutto per veicolare un messaggio importante: per cambiare le cose, bisogna iniziare ad agire diversamente e non solo a dire cose diverse.
È ciò che Erica ha detto durante il mercoledì di studio pomeridiano, riferendosi agli educatori disobbedienti che hanno iniziato a sovvertire pratiche consolidate e nefaste di “cura”: ‹‹Hanno iniziato a cambiare le cose, agendo diversamente. Non tutti hanno agito così, hanno iniziato loro, una piccola minoranza, ma è sempre così che iniziano le rivoluzioni››. In quel momento, ero profondamente emozionato: ero davanti alla prova che un importante messaggio era passato.
C’è stato un lungo percorso propedeutico per il progetto, a cui abbiamo dato il nome di “Memoria dal futuro”, proprio per rimarcare la dimensione inconclusa dei sogni che abbiamo portato tra i banchi di scuola. Innanzitutto, ci siamo accertati dell’eventuale presenza di allievi in classe in particolari situazioni di fragilità, che avrebbero potuto sentirsi a disagio con discorsi sul disagio mentale. Abbiamo poi parlato con i docenti di italiano e storia delle classi coinvolte per concordare le modalità di lezione. Abbiamo ricevuto immediata disponibilità e collaborazione e di questo sono ancora grato. Un passo ulteriore è stata la stesura del calendario. Il dott. Tosco ha effettuato degli incontri con le singole classi: abbiamo evitato accuratamente gli assembramenti-pollaio nelle aule magne. Non è stato facile, perché bisognava incastrare i bisogni di tutti: dei vari docenti a cui si toglievano le ore di lezione e degli studenti perché molte volte già impegnati in altre attività o reduci da giornate molto impegnative. Gli adempimenti tecnico-burocratici non sono stati per nulla facili, ma alla fine, siamo partiti.
Non sapevamo cosa aspettarci. Era anche difficile progettare un prosieguo: dipendeva tutto dalla risposta degli studenti. Sapevamo che avremmo incontrato anche allievi a cui tutto ciò non importava. I primi incontri però sono stati stupefacenti: un silenzio incuriosito si registrava durante le lezioni e, in alcune classi, considerazioni interessanti, pertinenti, a tratti – personali.
Visto il buon inizio, abbiamo iniziato a pensare ad un secondo momento del progetto: volevamo calare gli studenti nel mondo attuale dell’assistenza psichiatrica e alla disabilità. Ho preso così i contatti con la storica associazione Il Margine di Torino e abbiamo progettato un incontro con gli allievi in un orto botanico appartenente alla cooperativa, situato in un ex ambiente del manicomio di Collegno. È stata un’esperienza molto significativa, perché la storia di rinascita di quel luogo e l’incontro con degli utenti della cooperativa che vi lavoravano ha mostrato ai ragazzi, per usare un’espressione basagliana, che è possibile ‹‹fare qualcosa del buio››. È proprio questa espressione che mi sembra riassumere al meglio l’incontro con gli operatori de Il Margine. Ci sono due cose sconvolgenti in quella frase: la prima è che il buio non si deve eliminare, che l’importante non è rischiarare; la seconda è che con il buio si può – anzi si deve – fare qualcosa. La scommessa della relazione di aiuto è proprio qui: c’è qualcuno che sembra vivere al buio e non si deve avere la pretesa di portare la luce, che è sempre luce relativa e condizionata dal punto di vista di chi aiuta: bisogna avere il coraggio di abitare il buio dell’altro e di aiutarlo, per quanto possibile, a capirlo ed a farne qualcosa. Questo implica, tuttavia, il rischio di cadere, di urtare qualcosa nel mentre si cammina. Implica fragilità e possibilità di sbagliare: ed è proprio di attenzione e di cura della fragilità della singola persona in quanto tale che gli operatori hanno parlato.
Siccome non eravamo ancora sazi, con Luciano abbiamo pensato di proporre i nostri studenti al prof. Davide Tabor dell’Università di Torino, il quale stava organizzando un seminario molto interessante sugli effetti della riforma psichiatrica italiana. Da anni il prof. Tabor sta organizzando convegni, seminari, scuole di storia orale sulla tematica aperti a tutti, mostrando un profondo interesse umano oltreché professionale rispetto alla tematica della salute mentale. Ha accettato senza troppe esitazioni di dare spazio alla testimonianza dei ragazzi.
Ho così iniziato a pensare all’intervento all’università. In un caldo mercoledì pomeriggio ho incontrato gli studenti interessati a partecipare al seminario. Scelsero subito di chiamarsi “I Gen-Z Prever”, per sottolineare la loro appartenenza ad una generazione diversa dal loro mentore Luciano Tosco e di rimarcare così la loro responsabilità nel tener vivi e rinnovare i sogni delle vecchie generazioni. Hanno scelto così di parlare di una tematica molto importante: la questione dell’eredità.
Hanno capito subito che c’è qualcosa da proteggere, qualcosa che può andare anche smarrito ed a cui bisogna fare scudo. È forse questo il risultato più bello che potevamo ottenere.
Spero che questa consapevolezza possa avere, di rimbalzo, anche l’effetto di far maturare nei ragazzi l’idea che la cultura non sia un insieme di nozioni, qualcosa che permette al mattino di mettersi la giacca, l’appartenenza a quella piccola o media casta intellettuale e artistica delle accademie e dell’editoria, ma una sorta di doppio sguardo dietro i nostri occhi che ci permette di vedere il mondo diversamente e di cambiare, sin da ora, il nostro rapporto vivo con gli altri e tutto ciò che ci circonda.
Giovanni Peduto
13/5/2024 https://www.lafionda.org/
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