“Dal fiume al deserto: le mie riflessioni sui 76 anni di Israele”. Gilad Atzmon

Gli storici spesso ci dicono che la Storia non si ripete mai. Il filosofo sostiene al contrario che la storia troppo spesso si ripete per una ragione molto ovvia. Spesso i suoi protagonisti sono le stesse persone.

Fonte: English version

Di Gilad Atzmon – 14 maggio 2024

Negli ultimi 10 giorni ho lavorato in Polonia facendo concerti, registrazioni e seminari. Amo questo Paese, mi è sempre sembrato casa: è bello, è pulito, ha una ricca storia e anche una prospettiva di futuro. Le persone sono gentili ed educate, un po’ vecchio stile. La Polonia, come altri Paesi dell’Europa dell’Est, mi ha sempre ricordato ciò che il mio Paese natale avrebbe voluto essere ma non è mai stato.

Tra un impegno lavorativo e l’altro ero in tournée in campagna. Camminando lungo la splendida riva del fiume Vistola a Toruń mi sono chiesto: “Come avevano potuto i miei antenati accettare la folle idea di fuggire da questo magnifico e bellissimo Paese e trasferirsi nel deserto come pionieri sionisti?”.

La verità è che i cosiddetti primi sionisti prevedevano un disastro. Non potevano prevedere un lieto fine per gli ebrei dell’Europa dell’Est. Molto spesso concordavano con l’argomentazione “antisemita” secondo cui c’è qualcosa di profondamente inquietante nella vita della diaspora ebraica. I primi sionisti laburisti in realtà accusavano l’identità ebraica della diaspora di non essere proletaria. Crearono l’Aliya (Migrazione) e predicarono l’Aliya. Sono “ascesi” nella promessa di un nuovo futuro, un universo in cui gli ebrei diventassero ordinari e proletari. Herzl, egli stesso un borghese ebreo assimilato, definì il sogno sionista in poche parole: diventare “un popolo come tutti gli altri”. I sionisti laburisti desideravano amare i loro vicini e si aspettavano di essere ricambiati. Volevano liberarsi della propria coscienza, ma rimanere ebrei. Volevano davvero l’irraggiungibile. Non poteva funzionare; quando si sceglie di liberarsi dell’ebraicità, non rimane più nulla.

Quando mio nonno sbarcò sulla costa di Tel Aviv nel 1936 era già un devoto terrorista dell’Irgun. Mio nonno era un revisionista di destra. È finito in un conflitto perché lui stesso era il conflitto. Poteva comprendere la sua essenza solo in termini di battaglia. Ha combattuto gli inglesi, gli arabi, i sionisti laburisti, gli antisemiti, i comunisti, in breve: ha combattuto contro tutti.

Tuttavia, l’inizio di Israele era promettente. I nuovi Ebrei erano innamorati della loro trasformazione proletaria, ma le crepe si aprirono presto. La Nakba del 1948 segnò, di fatto, la fine di Israele. Era un peccato che non poteva essere espiato. Lo scontro tra le due realtà non poteva che aggravarsi. Ai nuovi ebrei mancava la necessaria affinità culturale e spirituale per l’armonia e la riconciliazione. I palestinesi, da parte loro, si rifiutarono di scomparire. La loro Resistenza non ha fatto altro che crescere.

Gli intelligenti tra i nuovi ebrei videro tutto fin dall’inizio. Alcuni addirittura pensavano che la scelta del linguaggio della Bibbia come nuovo mezzo di comunicazione israelita potesse riversare la brutalità dell’Antico Testamento nella nascente nazione. Le persone che parlano la lingua di Dio, sostenevano, a un certo punto potrebbero pensare di essere Dio stesso. Vi ricorda qualcosa?

Alcuni israeliani non approvavano la Nakba, la Pulizia Etnica della popolazione nativa del Paese, ma in generale il neonato Stato Ebraico si sentiva a suo agio con il conflitto emergente con gli arabi. Perché? Perché il DNA della sopravvivenza ebraica è sintonizzato sull’azione all’interno di un ambiente ostile ed esilico. Se il nemico non ci fosse, semplicemente lo inventerebbero. Ciò è davvero tragico, ma spiega perché non esiste una soluzione collettiva alla questione ebraica: ciò che unisce gli ebrei tra loro li separa dagli altri. Alcuni di conseguenza si resero conto già nei primi giorni di Israele che il sionismo, che in pratica prometteva di “risolvere la questione ebraica”, la aveva semplicemente spostata in un nuovo luogo.

Negli ultimi 20-30 anni ogni israeliano pensante che poteva assicurarsi una cittadinanza straniera lo ha fatto. Gli israeliani e soprattutto i discendenti dei pionieri sionisti dell’Europa dell’Est potevano vedere che la fine stava arrivando. Potevano vedere che il progetto era fallito. Centinaia di migliaia di israeliani, compresi i miei parenti, si sono assicurati il ​​passaporto polacco poiché la cittadinanza polacca garantisce alle persone la residenza nell’Unione Europea. Sono praticamente pronti a emigrare di nuovo.

A 127 anni dal il Primo Congresso Sionista, a poco più di un secolo dalla Dichiarazione Balfour e 76 anni dopo l’adempimento della promessa sionista, tutti gli indizi indicano che gli ebrei stanno per emigrare nuovamente. Gli israeliani vedono il loro Paese strangolato da un fronte unito di Resistenza. Possono vedere che i loro nemici sono feroci e seguono una strategia. Possono vedere che la loro stessa dirigenza è paralizzata e divisa. Naturalmente si sono accorti che il mondo volta loro le spalle, vedono il loro simbolo nazionale diventare agli occhi di molti la nuova svastica.

Mi ci sono voluti anni per accettare che la storia ebraica possiede un’affascinante dinamica meccanica. A differenza della storia di altri popoli che presenta un elemento di imprevedibilità, la storia ebraica funziona come un orologio. I disastri si ripetono in cicli quasi matematicamente accurati. Questi cicli storici sono definiti ripetutamente da un crescente senso di impunità e arroganza che alla fine si scontra con un’improvvisa ondata di rabbia tutt’intorno. Questi eventi avvengono sempre in quel momento epico e vittorioso in cui tutti i nemici sembrano essere sconfitti, soppressi, messi a tacere, incarcerati e viene formalmente annunciata “un’era dell’oro ebraica”. In questo momento grandioso, un evento del 7 ottobre spunta dal nulla, uno tsunami di violento risentimento. Tragicamente la maggior parte degli ebrei non riesce a comprendere la dinamica viziosa del loro orologio storico per la stessa ragione per cui gli ingranaggi all’interno dell’orologio non ne comprendono il significato.

Ho capito questo meccanismo temporale dell’orologio mentre camminavo lungo il fiume Vistola pensando a ciò che diceva Eraclito. Eraclito diceva che nessun uomo entra mai due volte nello stesso fiume, perché il fiume non è mai lo stesso, ed egli non è lo stesso uomo. Mi è venuto in mente che alcune persone in realtà entrano nello stesso fiume, non due o tre volte, ma di volta in volta, nel corso della loro intera storia, in precisi cicli storici ripetuti.

Gli storici spesso ci dicono che la Storia non si ripete mai. Il filosofo sostiene al contrario che la storia troppo spesso si ripete per una ragione molto ovvia. Spesso i suoi protagonisti sono le stesse persone.

Gilad Atzmon è uno scrittore e musicista britannico di musica jazz, ed un attivista anti-sionista. Attualmente vive a Londra.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

15/5/2024 https://www.invictapalestina.org/

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