I rischi del lavoro a distanza

(parte prima)

Le innovazioni tecnologiche e la terziarizzazione crescente delle economie hanno portato, come è noto, ad una crescente diffusione del lavoro cosiddetto a distanza, nelle sue varie forme, sia per il lavoro dipendente sia per quello autonomo (che già, in larga misura, aveva tali caratteristiche). La Pandemia da COVID ha certamente impresso una accelerazione al processo, ma lo stesso sarebbe avanzato inesorabilmente (e proseguirà); vediamo di conoscerlo meglio.  

Eccetto che per quelle attività (produttive manifatturiere o di servizi alla persona, essenzialmente) per le quali la presenza fisica è imprescindibile  (almeno per ora, ad esempio in Cina già si stanno sperimentando robot industriali comandati a distanza) nelle economie sviluppate, nelle quali la maggior parte dei lavoratori sono impiegati in attività sostanzialmente di servizio anche quando producono oggetti/contenuti digitali, gli ostacoli ad un allargamento, o addirittura ad una sua generalizzazione, risiedono nel livello di digitalizzazione delle economie (infrastrutture telematiche comprese) e dei lavoratori, anche con riferimento alle competenze, nonché nelle culture organizzative dei datori di lavoro, al loro approccio alla gestione delle persone, e non da ultimo, (è bene non dimenticarlo) dalla natura dell’attività.  

E, si badi, non è detto necessariamente che tali attività, svolgibili a distanza e non legate ad un luogo fisico, ma semmai ad un ambiente, una piattaforma digitale, offrano condizioni di lavoro miglior e rappresentino un superamento del modo di produzione fordista-taylorista (superamento che anche nei settori manifatturieri non è certo totale). Anzi, per fare solo qualche esempio, il lavoro dei call center, degli estrattori di dati, di chi fa mining sulle criptovalute o è impegnato in microtransazioni finanziarie a ciclo continuo, riprendono spesso gli aspetti più deteriori del fordismo, anche in quella variante particolare (e particolarmente deteriore …) che era il lavoro manifatturiero a domicilio, ad esempio nell’industria tessile. È materia di dibattito, per il momento ancora più teorico che basato su dati di fatto, su quanto su determinati lavori, che siano in presenza o distanza, impatterà la diffusione dell’Intelligenza Artificiale. Ma in ogni caso il già ministro dell’economia greco durante lo sventurato governo Tsipras, Yannis Varoufakis, parla nel suo ultimo libro “Tecnofeudalesimo” di un neo-feudalesimo delle piattaforme, dove i giganti del WEB (Amazon, Google, Ali Baba, Tercent, Meta, ecc. altro non sono che i nuovi feudatari digitali con tutte gli altri soggetti, siano aziende, organizzazioni, singole persone, che sono i loro vassalli, valvassori e valvassini, o nuovi servi della gleba digitali. 

È inoltre ipotesi suffragata dalle evidenze empiriche, ove presenti, che l’adozione di forme di lavoro a distanza sia legata più alla cultura organizzativa ed al sistema di relazioni sindacali e sociali all’interno di aziende ed organizzazioni, che alle infrastrutture digitali disponibili; e ciò pur nei limiti insuperabili posti dalla necessaria smaterializzazione delle attività, o di una parte di esse

Sotto questi profili – infrastrutture vs cultura organizzativa/ relazioni sindacali e sociali – la PA italiana è paradigmatica nel dimostrare che è il secondo profilo ad essere determinante, mentre il primo è necessario ma non sufficiente. Già prima della pandemia il lavoro a distanza era unicamente il telelavoro a domicilio: fenomeno contingentato, limitato temporalmente e a particolari tipologie di lavoratrici e lavoratori variamente “svantaggiate/i” a raggiungere e restare sul luogo di lavoro, indipendentemente dal tipo di attività pur svolgibile integralmente a distanza. Con la pandemia si è aggiunto il concetto di fragilità, in base al quale, terminato il periodo di lock down totale, persone con particolari condizioni fisiche o comunque personali potevano usufruire del cosiddetto lavoro agile, di fatto ancora il “vecchio” telelavoro sono magari con minori vincoli, e con modalità e tempi più flessibili. Poi, terminata la pandemia, si è tornati ad una stretta di stretta di carattere generale, in base alla quale la modalità ordinaria di lavoro è quella in presenza e il lavoro agile è soggetto a limiti e condizioni spesso inutilmente restrittivi e soprattutto predeterminati di carattere generale, che poco o nulla hanno a che fare con i concreti processi lavorativi, con conseguente secca diminuzione del lavoro agile. Ma questa scelta, al di là del pur esistente problema di adeguate infrastrutture digitali 8 i curiosi cerchino in rete i dati sulla diffusione territoriale delle reti), è frutto di una radicata cultura organizzativa, al di là delle chiacchiere che si fanno davanti ai media ed ai convegni, costituzionalmente incapace di ragionare in termini di risultati (da fissare, misurare non solo sulla carta, valutare …) ma solo di adempimenti. E con la profonda convinzione, da parte dei decisori politici, che le forme di lavoro alternative di quelle rigidamente in presenza siano scappatoie per lavorare meno e per sfuggire al controllo dei superiori (o che dimostrano, diciamo malignamente e sottovoce, che questi ultimi non sono in grado di controllare e dirigere sfruttando le tecnologie ICT).  Convinzione questa basata su una valutazione nei fatti quantomeno parziale ma soprattutto profondamente pessimista (e profondamente errata …) su capacità ed impegno di chi lavora nel pubblico; di qui i controlli sulla presenza in ufficio e il clamore mediatico sui tornelli di Brunetta, il vigile che timbrava in costume da bagno (ma non lavorava proprio, altro che smart working …) i premi per i delatori della ministra Bongiorno, lo smart working da divano di Di Maio ed ampia compagnia. E infatti, per restare nella PA, anche durante la pandemia gli enti più informatizzati e flessibili, come INAIL e INPS, ad esempio, non hanno pressoché risentito del lock down; e nel privato lo stesso, per esempio, è accaduto a banche, assicurazioni, società finanziarie e fondi di investimento. 

Se queste modalità di lavoro a distanza sono conseguenza sia dello sviluppo tecnologico sia di nuove culture organizzative, facciamo però prima chiarezza su cosa stiamo parlando, perché esistono varie forme di lavoro a distanza. Utilizziamo quindi il discussion paper dell’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro ( EU-OSHA) su questo tema, in lingua inglese, dal titolo “Hybrid work: new opportunities and challenges for occupational safety and health” (Lavoro ibrido: nuove opportunità e problematiche per la sicurezza e la salute sul lavoro), e a cura di Pablo Sanz de Miguel, Maria Caprile and Juan Arasanz (NOTUS), redatto nel novembre 2023. L’intero documento è disponibile QUI.

Il documento utilizza le seguenti definizioni: 

  • Il lavoro a distanza (remote work) che si riferisce a qualsiasi tipo di accordo lavorativo in cui i lavoratori lavorano a distanza, lontano dai locali del datore di lavoro (o da una postazione fissa), utilizzando tecnologie ICT (ad esempio reti, computer portatili, telefoni cellulari e Internet). In questo caso il documento non si occupa delle tipologie di lavoro a distanza che non coinvolgono le tecnologie ICT
  • Il telelavoro (telework) che è una sottocategoria del lavoro a distanza quando il lavoro a distanza che coinvolge le ICT viene svolto da casa (o più raramente in uffici fuori casa dedicati al telelavoro. 
  • Il lavoro ibrido (hybrid work) che è una combinazione di telelavoro e lavoro presso la sede del datore di lavoro. Qui un dipendente può lavorare sia dall’ufficio che da casa (o da un ufficio fuori casa dedicato al telelavoro o da un altro luogo come un caffè, un mezzo di trasporto, ecc.). La distribuzione settimanale dei periodi di telelavoro e di lavoro in sede varia notevolmente (ad esempio, uno, due o più giorni di telelavoro a settimana). In quanto telelavoratori, i lavoratori ibridi utilizzano le tecnologie digitali e una connessione a Internet per lavorare a prescindere dal luogo di lavoro. 

 Riportate queste brevi e generali definizioni, si segnala che nel documento si utilizza, in particolare, una terminologia, basata sulla classificazione del telelavoro (a tempo pieno, ibrido e occasionale) dell’European Working Conditions (Telephone) Survey (EWCTS) (Eurofound, 2023): 

  • Il “telelavoro” corrisponderà al telelavoro svolto a tempo pieno o per più del 90% dell’orario di lavoro; 
  • Il “lavoro presso i locali del datore di lavoro” corrisponde al lavoro a tempo pieno in loco che può comportare un telelavoro occasionale (di durata inferiore al 10% dell’orario di lavoro); 
  • Il “lavoro ibrido” sarà considerato come una combinazione di telelavoro e lavoro in ufficio presso la sede del datore di lavoro, con periodi di telelavoro svolti tra il 10% e il 90% dell’orario di lavoro. 

Circa il lavoro ibrido, che appare ormai prevalente, esso è caratterizzato da a) un’organizzazione dell’attività che coordina sia il lavoro in azienda (presso la sede del datore di lavoro) sia il telelavoro, e b) un programma che specifica orario, durata e frequenza del lavoro in ciascun luogo. 

In particolare, continua il Discussion Paper, si possono distinguere diverse forme di lavoro ibrido (Eurofound, 2023): 

  • Lavoro ibrido “office-first“, in cui si prevede che i dipendenti siano per la maggior parte del tempo in sede e telelavorino alcuni giorni alla settimana,  
  •  “remote-first“, in cui i dipendenti telelavorano per la maggior parte del tempo e si recano occasionalmente presso la sede del datore di lavoro per il team building, la collaborazione e la formazione; 
  • Lavoro ibrido che alterna il lavoro presso la sede del datore di lavoro con il lavoro in spazi dedicati all’ufficio remoto fuori casa. Questi “spazi terzi“, come gli spazi di coworking, sono dedicati al lavoro fuori dall’azienda e (in teoria) vicino al luogo di residenza del dipendente. 
  • Lavoro ibrido che alterna il lavoro presso la sede del datore di lavoro con il lavoro mobile. Queste forme di lavoro ibrido nomade comportano frequenti viaggi di lavoro con un dipendente che combina diversi luoghi di lavoro: casa (a volte) e soprattutto mezzi di trasporto, alberghi, caffè, sedi dei clienti e così via. 

L’organizzazione del lavoro ibrido può essere più o meno flessibile (quando i dipendenti scelgono il luogo e gli orari in base alle loro priorità per la giornata) o fissa (quando l’organizzazione stabilisce i giorni e gli orari in cui i dipendenti possono telelavorare o venire in ufficio). 

Tutto ciò premesso, qual è la dimensione quantitativa del fenomeno?  

Nel periodo pandemico il lavoro a distanza (definito lavoro agile nei testi normativi, o smart working nel linguaggio comune, anche, come si è già visto, gli aggettivi agile e smart non sono sempre quelli appropriati) in Italia era esploso: a gennaio 2022 l’INAPP stimava che poco più del 40% dei 17,9 milioni di lavoratori dipendenti lavorassero in qualche misura a distanza, rispetto ai 570.000 del 2019. Terminata la pandemia, il ritorno al lavoro in presenza nel settore pubblico e modalità semplificate nel settore privato hanno condotto ad un drastico ridimensionamento del fenomeno, con numeri che restano però di tutto rispetto.  Secondo ricerche condotte dal Politecnico di Milano e da osservatori.net digital innovation, (QUI) i lavoratori a distanza oggi, a maggio 2024, sono 3,6 milioni, cioè poco più del 19% dei 18.703.000 lavoratori dipendenti censiti dall’ISTAT dati provvisori) a marzo 2024. 

Quali che siano l’organizzazione di tali forme di lavoro, ed al di là degli indubbi meriti che hanno a livello globale (ad esempio diminuzione della mobilità con conseguente decongestionamento del sistema dei trasporti e risparmio di emissioni climalteranti, minori consumi energetici)) e individuali (almeno tendenzialmente, più facile conciliazione tra vita lavorativa e privata – ma non è detto …) esse comportano una serie di nuovi rischi. Detti rischi affiancano (talvolta, ma più raramente sostituiscono) quelli del lavoro in presenza, e per la maggior parte rientrano nella più ampia categoria dei rischi psicosociali, e di essi ci si occuperà più diffusamene nel prossimo articolo. Da subito, si può dire che, considerata la natura delle attività svolgibili in remoto, è evidente che rischi fisici, chimici, biologici, infortunistici, scemano grandemente, e sono per lo più sostituiti da quelli appunti da organizzazione del lavoro. Per fortuna, tali rischi comportano di norma conseguenze negative meno gravi, ma non per questo trascurabili, e spesso legate più alla salute psichica che a quella meramente fisica. Peraltro, il fatto che l’attività lavorativa si possa svolgere in luoghi non originariamente destinati ad essa, che siano l’abitazione, un altro sito produttivo, o un qualsiasi luogo connesso in rete, e con regimi di orario anche estremamente flessibili, impatta pesantemente sia sulla obbligatoria valutazione dei rischi stessi, sia sulla loro eliminazione o almeno mitigazione. Una domanda per tutte: per il lavoratore a distanza che fa il lavoro mobile, per quanti ambienti, potenzialmente innumerevoli ed eterogenei, e per di più fuori dalla disponibilità del datore di lavoro, dovrebbe essere fatta una valutazione dei rischi? Da chi, come? Il vigente TU 81/2008, sul punto non è utile …. 

E che dire di tutta la problematica, essenzialmente assicurativa ma non solo, dell’eventuale verificarsi di infortuni e/o malattie professionali, del loro riconoscimento come tali, dell’individuazione di responsabilità di soggetti terzi diversi dal datore di lavoro? 

Per il momento tali domande non hanno che risposte parzialissime, e neppure risulta una giurisprudenza; non potranno quindi essere l’oggetto del prossimo articolo, nel quale si proverà a descrivere i rischi tipici del lavoro a distanza e qualche relativo possibile rimedio. 

Infine, nel momento in cui si scrive, non si può non ricordare che tra lunedì 27 e martedì 28 maggio sono stati sette gli infortuni mortali (cui se ne aggiungono cinque gravi) a conferma del fatto che occuparsi di lavoro a distanza è importante ma che le reali criticità stanno altrove. E sempre con le medesime modalità purtroppo ben note, ma che appaiono ineliminabili: persone stritolate dallo scontro frontale tra due veicoli (Errore per mera disattenzione o stanchezza?), schiacciate/colpite da oggetti in caduta dall’alto (evidentemente, non assicurati o non solidi), trascinate/incastrate da macchinari in movimento (evidentemente, con le obbligatorie protezioni inefficaci o rimosse), cadute dall’alto da tetti o impalcature (evidentemente, senza gli obbligatori ancoraggi e imbragature). Di queste modalità sappiamo ormai tutto, origini, cause, rimedi; purtroppo continuiamo però a registrarne gli esiti e a elencare ciò che si sarebbe dovuto fare e non si è fatto. 

Maurizio Mazzetti

2/6/2024 https://www.ilmanifestoinrete.it/

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