«Non c’è protezione sociale»
Un’Italia che episodicamente ritrova la speranza e l’ottimismo – soprattutto nell’«io», nel piccolo delle reti sociali e locali – ma che nel fondo non crede ancora che la crisi sia finita, e anzi ritiene che sarà lunga. Bisognerà proteggere la propria vecchiaia, il futuro dei figli, la salute, perché lo Stato e il welfare progressivamente si ritirano e lasciano scoperta la persona, con tutte le sue fragilità.
La sociologa Chiara Saraceno vede più scuro che chiaro nell’ultimo rapporto del Censis, e pur mettendo in evidenza i fenomeni innovativi – lo straordinario sviluppo dei bed & breakfast, il consolidarsi della sharing economy, il successo di tante start up – sottolinea però anche i rischi insiti nella perdita di fiducia nella politica.
La colpiscono di più espressioni come «letargo collettivo» e «limbo italico», o gli espedienti che gli italiani si inventano per tornare a galla dopo anni di crisi?
E’ un po’ il solito discorso «immaginifico« del Censis, ci siamo abituati e non ci vedo nulla di nuovo in questa narrazione. Discuterei alcuni spunti alla luce del terzo rapporto Istat sul benessere equo e sostenibile, il Bes 2015, presentato qualche giorno fa e che mi sembra contenga dati un po’ più solidi. Da un lato vedo un aumento della fiducia delle persone nelle reti sociali, nel proprio ambiente familiare e amicale, e nell’io: sembra che oggi molti se la sentano di dire «ce la posso fare».
Per un altro verso, si conferma la sfiducia nelle istituzioni: solo le forze dell’ordine e i vigili del fuoco reggono, mentre il Parlamento, i partiti, la magistratura non sono considerati punti di riferimento forti. Bene, se le reti locali sono importanti, io penso però al nostro rapporto con Bruxelles, o alla necessità di difenderci dal terrorismo: come si fa senza credere nelle istituzioni?
Forse questa voglia di proteggersi, più per sé che sul piano collettivo, si coglie nel dato sul risparmio: 4 mila miliardi di euro il valore del patrimonio finanziario degli italiani, spiega il Censis, cresciuto del 6,2% negli ultimi quattro anni. Si parla di «opzione cautelativa»: sono cresciuti contanti e depositi bancari, assicurazioni e fondi pensione, i fondi comuni, mentre sono crollate le azioni, le partecipazioni e le obbligazioni. Come dire: riduco gli investimenti e il rischio, e mi preparo un futuro più solido?
Il termine «cautelativo» è in effetti quello chiave. Negli anni peggiori della crisi, molti italiani hanno dovuto intaccare il risparmio per sopperire alla mancanza di reddito. Non è che oggi i redditi siano cresciuti, ma si guarda in modo diverso al risparmio: chi può, mette da parte non tanto per investire, ma per cautelarsi rispetto al futuro, in quanto ritiene che la crisi sarà magari meno violenta ma comunque lunga. Devo pensare ai miei figli, a farli studiare o a preoccuparmi se non avranno un lavoro, devo pensare alla mia pensione, che sarà ridotta rispetto a quelle del passato, devo pensare alla vecchiaia e alla salute.
Un’altra parte del rapporto parla proprio della riduzione del welfare, dell’aumento della spesa sanitaria privata a fronte della riduzione di quella pubblica. E sempre più persone rinunciano a curarsi.
Come dice anche l’ultimo Rapporto Bes dell’Istat, il divario tra ricchi e poveri non diminuisce, e anzi negli ultimi anni si è accentuato. Come si è acuita la frattura tra Nord e Sud, con una crescita evidente delle disuguaglianze. I poveri continuano a fare lunghissime liste di attesa negli ospedali, però dall’altro lato la narrazione pubblica parla di tagliare le tasse. Ma i soldi che non fai pagare a chi è benestante quando gli togli la tassa sulla casa, dopo dove vai a prenderli? Da un lato aumentano le imposte locali, dall’altro ti trovi costretto a tagliare i servizi. Il Censis ci dice che il 55% degli italiani vorrebbe «svincolare» il proprio reddito da tasse e contributi sociali: bene, ma poi non lamentiamoci se non c’è l’asilo per nostro figlio, se la scuola non funziona o se la lista d’attesa per una colonscopia è infinita.
Intanto però si modifica il volto delle nuove generazioni, e delle nostre città. Si sviluppa la sharing economy, dal coworking al car sharing, e tanti italiani – sono ormai 560 mila – mettono a reddito casa propria aprendo un bed & breakfast. Cambia il modo di socializzare, mutano i consumi culturali?
Senza dubbio ci sono molti mutamenti, e alcuni sono anche positivi: è bello pensare che tanti giovani si diano da fare, non dormano, che reagiscano. La sharing economy ha tanti volti: il coworking è una ricchezza, come può esserlo il couchsurfing, scambiarsi ospitalità, o affittare un bed & breakfast. Però attenzione: rispetto alla piattaforma Airbnb alcuni paesi protestano perché emergono problemi di pagamento del fisco, o a volte – come può accadere con multinazionali come Uber – possono venir fuori nuove forme di sfruttamento del lavoro. Sulle città, cosa dire? Si può benissimo mangiare allo street food e poi andare a un museo o a teatro, le due cose non confliggono: è anche vero, però, che i lettori di libri diminuiscono, che i consumi culturali per alcuni versi si riducono, e questo non è certo un bene.
Antonio Sciotto
6/12/2015 www.ilmanifesto.info
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