La notte in cui Israele ha ucciso la mia famiglia

Reem Hamadaqa, all’estrema destra, con i genitori Sahar e Alaa’ e le due sorelle Heba, 29 anni, e Ola, 19 anni. Questi quattro membri della famiglia di Reem sono stati martirizzati insieme ad altri 10 membri della famiglia in un attacco israeliano del 2 marzo nel sud di Gaza.

Mondoweiss, 13 giugno 2024.    

La notte del 2 marzo Israele ha cancellato quattro generazioni della mia famiglia. Io sono sopravvissuta a malapena al massacro. Ora è mia responsabilità raccontare la loro storia.

Il 2 marzo, Israele ha spazzato via quattro generazioni della mia famiglia in una sola notte. Un attacco israeliano, verso mezzanotte, ha ucciso 14 persone della mia famiglia. Si è portato via l’essenza stessa della mia vita, i miei cari più preziosi, e mi ha segnato come una “sopravvissuta”.

“Andate a sud o vi faremo crollare questa scuola sulla testa”, era stato l’avvertimento che i soldati israeliani ci avevano mandato quando abbiamo deciso di lasciare la nostra casa nel nord di Gaza. A quel punto, la mia famiglia era sopravvissuta a 40 lunghi giorni di bombardamenti, accogliendo spesso decine di sfollati nella nostra casa. Ma dopo quel messaggio, siamo stati costretti a fuggire.

La nostra prima tappa è stata una vicina scuola dell’UNRWA. Sono stati i nostri primi passi di un viaggio alla ricerca di una cosa poco chiara chiamata “sicurezza”. Siamo partiti e abbiamo camminato a piedi per oltre sei ore, sotto il sole. Alla fine siamo arrivati a sud. E la mia famiglia è stata uccisa nella zona “sicura” dove l’occupazione israeliana ci aveva detto di andare.

Uccisi a mezzanotte

Siamo sopravvissuti per quasi 100 giorni a Khan Younis, a casa di mio zio materno. Non era il posto migliore per procurarsi cibo o acqua, ma era stato definito “sicuro”. La casa si trovava nel blocco 89, che l’occupazione aveva designato come “verde”. Per questo motivo siamo rimasti lì e non siamo fuggiti. Ma eravamo già degli sfollati.

La casa era piena di una dozzina di donne e bambini e il 2 marzo, intorno alle 22:30, è cominciato un intenso bombardamento.

Circa un’ora dopo, ho dato gli ultimi sguardi ai miei genitori, alle mie sorelle, ai miei cugini, a mia nonna e, purtroppo, a tutta la mia vita, anche se in quel momento non lo sapevo. Ho letto il terzo capitolo di un romanzo. Ho chiacchierato con i miei genitori. Ho chiamato mia sorella, sfollata in una tenda a Rafah. Ho preso in giro mia sorella minore. Sono andata a dormire, chiudendo inconsapevolmente l’ultimo capitolo della mia vita.

Mi sono svegliata durante i bombardamenti di massa, quelli che sono essenzialmente una serie di esplosioni continue.

Terrorizzata, mi sono svegliata urlando. Mio padre e mia madre erano in piedi accanto alla porta. Heba, la mia sorella maggiore, era accanto a me. Abbiamo urlato. Attraverso la finestra, tutto ciò che vedevo davanti alla casa era in fiamme. Quelle scene orribili riecheggiavano i sentimenti che avevamo nei nostri cuori.

“Papà! Non aprire la porta!”, abbiamo urlato. In pochi secondi, la casa era sulla nostra testa. Ho sentito le pareti e il soffitto crollare e la stanza mi è esplosa in faccia. Ho visto le spalle di papà e di mamma e ho sentito Heba accanto a me che urlava. Ho visto Ola che dormiva, senza essere disturbata dall’enorme esplosione.

Mi sono svegliata tra le macerie.

La luna era piena. Era così buio che probabilmente era mezzanotte, e faceva un gran freddo. L’inverno non ci aveva ancora abbandonato. Ormai tutta sola, mi son ritrovata bloccata tra le macerie e incapace di muovermi.

Per quanto avessi letto storie su come ci si sentisse a rimanere bloccati sotto le macerie, non è stato affatto come me lo ero immaginato. Non saprei dire per quanto tempo sono rimasta priva di sensi. Quando mi sono svegliata, ho pensato che stavo sognando. Un incubo. C’era così tanto dolore dentro di me.

Ho urlato a pieni polmoni, senza sapere cosa cercavo. Ho tolto le pietre che mi coprivano le mani, il petto e la pancia. Erano pesanti, ma il mio respiro era ancora più pesante. Aspettavo l’ignoto.

Ho sentito mio zio urlare, chiamare i suoi figli, e ho sentito un uomo che scappava dai carri armati, chiamando mio zio da dietro. Non riuscivo a togliermi le macerie dalle gambe. Dopo quasi un’ora, mio fratello e mio cugino, che vivevano nella casa di fronte, mi hanno trovato. Miracolosamente, Ahmad mi ha salvato. Ha sollevato quitali di macerie che coprivano il mio corpo.

Carri armati al posto delle ambulanze

Ahmad mi ha sollevato e si è messo a correre, portandomi sulle spalle. Ogni passo e ogni movimento che faceva mi squarciava dal dolore. Mi ha portato a casa sua, a pochi metri di distanza. Anche questa casa era stata colpita. Frammenti di vetro e di mobili coprivano tutto e tagliavano chiunque entrasse. Ahmad mi fatto sdraiare lì dentro.

I bambini e le donne sedevano inorriditi nel buio, mentre le granate sparate dai carri armati vicini ci circondavano. Erano tutti increduli che queste case fossero state prese di mira, anche se i vetri rotti ci erano piovuti addosso. Ma per me era chiaro. Sono stata tirata fuori da sotto le macerie, con il volto e i vestiti bruciati, coperta di sangue e di polvere.

Pochi istanti dopo, mia sorella, che allora viveva in una casa vicina, è corsa nella casa in cui mi trovavo perché un attacco aveva distrutto l’edificio in cui stava con il marito e i suoi cinque figli. La casa era crollata sulle loro teste. Cinque bambini piccoli, con i vestiti a brandelli e apparentemente bruciati, stavano ancora lì. Erano tutti vivi. Mia sorella li ha tirati fuori dalle macerie, miracolosamente illesi.

Abbiamo chiamato un’ambulanza e il Comitato della Croce Rossa (CICR), ma le nostre chiamate non hanno avuto risposta. Anche se l’isolato in cui ci trovavamo, che era stato bombardato, era un isolato “verde”, il che significava che doveva essere sicuro, l’area era ora considerata “rossa” a causa dell’invasione, e le ambulanze non vi potevano arrivare. Carri armati e bulldozer hanno invece invaso la zona. Quelli delle ambulanze hanno detto: “Ci sono decine di casi come il vostro. Ci sono decine di martiri e di feriti. Non possiamo venire”.

Hanno aggiunto: “La zona è troppo pericolosa. Che Dio vi aiuti”.

Un’ambulanza arriva all’ospedale Al-Aqsa Martyrs di Deir El-Balah con i palestinesi che hanno potuto raggiungere e che erano rimasti feriti negli attacchi israeliani a Khan Younis. 2 marzo 2024. (foto: Omar Ashtawy/ APA Images)

Intrappolati

Nel giro di mezz’ora, carri armati e bulldozer israeliani hanno assediato l’intera area. Ho avvolto tutto il mio corpo in una coperta, altrimenti i vetri rotti avrebbero lasciato cicatrici indelebili sul mio viso.

Quando abbiamo sentito l’incessante bombardamento dell’artiglieria israeliana avvicinarsi, le donne e i bambini si sono nascosti in una stanza sul retro. Siamo rimasti solo io, incapace di muovermi, e mio zio, salvato ma completamente e gravemente ustionato, steso vicino al balcone.

Mio fratello, mia sorella e mio cugino sono andati alla ricerca di altri sopravvissuti. Hanno tirato fuori tre dei miei cugini, Hani, 24 anni, Shams, 16 anni, e Muhammad, 18 anni. Mentre li tiravano fuori, le granate li bersagliavano senza sosta. Hani e Shams erano completamente bruciati e a brandelli. Muhammad sanguinava. Nessuno di loro ha ricevuto cure mediche. Sono morti tutti dissanguati. Tutti loro avevano sogni e obiettivi. Sono stati tutti uccisi.

Quando le bombe sono arrivate su di noi, tutta la famiglia si è nascosta, ogni madre con i suoi figli. Gli uomini sono andati a prendere altri che gridavano aiuto. Sono stata spostata di nuovo nella stanza in cui si trovavano tutti. Pochi minuti dopo, un carro armato israeliano ha sparato una granata incandescente nella stanza accanto alla nostra. Il muro è caduto sui figli di mia sorella. Non hanno avuto scampo. La stanza si è incendiata, una conflagrazione in pochi secondi.

I bambini sono rimasti intrappolati sotto le macerie. La porta e la finestra erano si chiuse a causa dello spostamento d’aria. Mio fratello ha cercato di rompere la finestra. Ha lanciato i bambini dall’alto mentre tutti i presenti soffocavano. Dopotutto, rotti era meglio che bruciati. È arrivata un’altra granata israeliana. La porta si è spalancata cadendo verso di me. Tutte le madri gridavano per i loro figli. Tutti correvano.

Ho visto Ahmad che teneva in braccio Maryam, la mia nipotina di 8 anni, morta. I suoi lunghi capelli biondi ondeggiavano, il sangue copriva tutto il suo visino, gli occhi, il naso, le orecchie. Moriva dissanguata. Anas, di 3 anni, non aveva perso una goccia di sangue. Pensavamo che stesse dormendo. Il suo viso e le sue mani erano ancora caldi. Era come un angelo.

Mia sorella ha tenuto in braccio i suoi due bambini senza vita per tutta la notte. Cercava continuamente di controllare se respiravano. Ha chiamato invano l’ambulanza.

Ha chiesto il loro aiuto al telefono. “Come faccio a sapere se sono ancora vivi o sono morti?”.

Con l’incessante bombardamento, la famiglia si è divisa. Da sotto le macerie non si sentiva più niente. I miei genitori e le mie sorelle non hanno emesso alcun suono. Nessuno sa se furono uccisi dalle onde d’urto, se morirono dissanguati o soffocati.

Siamo scappati in cerca di un riparo. Il rumore dei carri armati e dei bulldozer si avvicinava. Se non fossimo fuggiti, ci avrebbero trascinato e ucciso, passando sui nostri corpi. Ho lasciato indietro la mia famiglia. Ahmad mi portava sulle spalle e io li ho lasciati tutti lì, a urlare.

Abbiamo visto i carri armati sulla strada principale e ci siamo nascosti in una tenda vicina. Abbiamo aspettato per 15 ore, finché non abbiamo deciso di scappare dalla tenda, qualunque cosa accadesse. Sono svenuta molte volte. Ho aspettato che la mia famiglia venisse salvata. Ho aspettato di sapere cosa fosse successo ai miei cugini feriti. Ho aspettato di sapere cosa fosse successo a Maryam e Anas. “A mia madre è stato diagnosticato il diabete”, continuavo a insistere. “Non può farcela se sanguina”.

“Sopravvissuti”

Verso le 11:00 del mattino seguente, mio cugino è riuscito a procurarsi un carro trainato da animali per portare me, mio zio e i morti all’ospedale. Il carro era pieno. Ho riconosciuto le quattro persone che stavo cercando. “Quella è la mia famiglia, i miei genitori e le mie due sorelle”, dissi tra me. Nessuno aggiunse una parola.

Chiesi a mio fratello: “Sono tutti morti?”. Lui non rispose, ma i suoi occhi pieni di lacrime sì. Mi lasciarono lì, accanto ai martiri. Vidi i lunghi capelli di Maryam oscillare ancora, ma apparvero anche altri piedi minuscoli. “Perché i piedi di Maryam sono così piccoli?”. Chiesi. “Questo è Anas”.

Ho chiesto dei miei cugini feriti. “Dov’è Shams? E i ragazzi?”. Mi dissero che erano morti dissanguati.

Abbiamo percorso due lunghi chilometri fino ad al-Rashid Street e poi al mare. Abbiamo aspettato l’ambulanza. La gente lungo tutta la strada piangeva. “Sono sopravvissuto”, dicevano.

Ho perso 14 preziose persone della mia famiglia. Ho perso i miei genitori, Sahar, 51 anni, e Alaa’, 59 anni. Ho perso le mie sorelle, Heba, 29 anni, e Ola, 19 anni. Ho perso mia nonna, Shifa’, 80 anni. Ho perso i miei nipoti, Maryam, 8 anni, e Anas, 3. Ho perso mio zio materno e tutta la sua famiglia, Ahmad, 49 anni, Samaher, 43 anni, i suoi figli, Farid, 26 anni, Hani, 25 anni, e Muhammad, 18 anni, e le sue figlie, Sundus, 21 anni, e Shams, 16 anni. Tutti loro sono stati privati della realizzazione dei loro sogni. Erano tutti giovani e pieni di vita, ma Israele gliel’ha tolta.

I miei quattordici parenti non hanno avuto il lusso di essere sepolti immediatamente. Solo dopo due settimane, e solo dopo che i carri armati e i soldati hanno lasciato la zona, abbiamo potuto seppellirli. Non siamo ancora riusciti a seppellire la moglie di mio zio, che è ancora bloccata sotto le macerie.

Mi restano molte cicatrici, sia fisiche che psicologiche, e mi aspetta un difficile periodo di recupero. Ma io, Reem, nonostante queste gravi ferite, quasi certamente sopravviverò.

Se la mia famiglia ha dovuto morire, allora io devo vivere. Per raccontare la loro storia.

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

14/6/2024 https://www.assopacepalestina.org/

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