Rischi in agricoltura e caporalato. L’ennesimo quadro sconsolante
Ancora una volta la cronaca ci devia dal programma; anziché di rischi psicosociali in presenza o in lavoro a distanza, come preannunciato nello scorso articolo, si parlerà di agricoltura e caporalato. E l’occasione non può che essere la straziante (davvero) morte di Satnam Singh, bracciante “irregolare” e ipersfruttato prima trascinato e fatto a pezzi da un macchinario, poi criminalmente abbandonato, anzi peggio, sequestrato con la moglie dal suo datore di lavoro lucidamente (altro che il panico riferito agli inquirenti …) impegnato a cancellare tracce e costruirsi una giustificazione anziché soccorrerlo. Al di là dei tristi particolari di cronaca, che inducono alle più pessimistiche valutazioni sull’umanità, parliamo un po’ di caporalato.
Il caporalato, come da (esaustiva) definizione del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, consiste in “forme illegali di intermediazione, reclutamento ed organizzazione della manodopera. Si tratta di un meccanismo che si insinua tra domanda e offerta di lavoro, soprattutto nei confronti di soggetti come migranti, donne e minori che si trovano in condizioni di particolare vulnerabilità e bisogno, traducendosi spesso in violazione dei diritti umani e dei diritti fondamentali sul lavoro…. diffuso su tutto il territorio nazionale… Con violazione di disposizioni in materia di orario di lavoro, salari, contributi previdenziali, diritti alle ferie, salute e sicurezza sul luogo di lavoro e trattamento dignitoso”.
Soggetti comunque non autorizzati, talvolta criminali, forniscono cioè manodopera ad aziende terze con prestazioni di lavoro totalmente in nero, oppure senza alcun contratto, con paghe letteralmente da fame, e nessun diritto e/o tutela. In agricoltura in particolare è poi frequente (cfr. più avanti) il ricorso alla ‘sotto-dichiarazione’ delle giornate o delle ore lavorate. Ovviamente tutto ciò comporta evasione fiscale e contributiva, erosione quando non cancellazione di qualsiasi diritto o tutele per i lavoratori, (indennità di disoccupazione, malattia, infortunio, maternità).
Il fenomeno non è nuovo; chi ha qualche anno in più ricorderà ad esempio, 35 anni fa, l’esecuzione del rifugiato sudafricano Jerry Maslo a Villa Literno, in Campania, da parte della criminalità locale, che trovava insopportabile la sua attività di organizzatore dei braccianti stranieri schiavizzati a raccogliere pomodori. Il caporalato nasce da un lato dalla presenza di aziende il cui unico vantaggio competitivo è la riduzione brutale del costo del lavoro; e con attività caratterizzate da forte stagionalità e bassa o nulla qualificazione richiesta a chi lavora. L’agricoltura quindi in primo luogo, specie nelle aziende piccole e medie strozzate dalle filiere di acquisto, conservazione e distribuzione; perché edilizia, logistica e servizi, compresi quelli domestici, (settori in cui notoriamente si concentra il lavoro nero e/o irregolare) richiedono qualche professionalità in più e sono comunque più esposte a quello che possiamo definire controllo sociale. Dall’altro lato, esiste l’ampio serbatoio dei migranti “irregolari” secondo la legislazione italiana (in primo luogo, la famigerata legge Bossi-Fini, che di fatto rende impossibile o estremamente difficoltoso un ingresso regolare in Italia dai paesi extra UE); ma anche profughi/rifugiati che sfuggono alle, peraltro, altrettanto cattive ed inadeguate (ad esser buoni) norme e modalità di gestione degli stessi. Persone senza diritti quindi (che peraltro, per difficoltà linguistiche e culturali, magari neppure sono conosciuti), disposte, quando non obbligate, a lavorare (e vivere) in condizioni di semischiavitù, accettando paghe bassissime magari e vivere spesso in baraccopoli in condizioni indegne.
Non è questo il luogo per un discorso sull’immigrazione da paesi extra UE; in ogni caso la “regolarità” di chi è immigrata/o consiste nel permesso di soggiorno, da rinnovare periodicamente, legato ad un contratto di lavoro, come il contratto è legato al permesso, in un diabolico gatto che si morde la coda e che mette i migranti in una condizione di estrema debolezza e ricattabilità, e li costringe ad accettare condizioni di lavoro e di vita che nessun altro sopporterebbe. Ma l’economia italiana ha bisogno di tali lavori, e il fenomeno si mantiene, alimentando da non solo lo sfruttamento da parte dei caporali (anche provenienti dai paesi di emigrazione) spesso collusi con la criminalità organizzata, ma anche un fiorente traffico di esseri umani: si legge che lo sventurato Satnam Singh e la moglie avessero pagato ventimila euro per arrivare in Italia a lavorare per quattro euro l’ora senza alcuna tutela e a vivere in un rustico abbandonato. E in queste condizioni né loro, né i loro compagni di sventura, non riuscirebbero mai a ripagare il debito, perpetuando quella che la stessa Organizzazione Internazionale del Lavoro definisce una forma di schiavitù (irredimibile, a differenza, per esempio, dei tanti immigrati inglesi “servi a contratto” nelle colonie del Nordamerica nel XVII e XVIII secolo). E con la perdurante spada di Damocle di essere scoperti con rischio di rimpatrio o di finire in qualche struttura variamente denominata, ma di fatto luogo di detenzione. Peraltro, periodicamente, poiché queste braccia servono, i governi procedono a delle sanatorie, ad alto tasso di ipocrisia nelle modalità, di questi i lavoratori irregolari: e non può non colpire che, nonostante tutti i proclami, siano stati sempre i governi di centrodestra o destra-centro ed effettuare le sanatorie più cospicue, dalla prima storica del 2001/2002 a quella recente (e messa in sordina…) del governo Meloni, quest’ultima per qualche centinaio di migliaia di persone.
Tornando all’agricoltura, quanti sono i lavoratori irregolari interessati da fenomeni di caporalato? Premesso che il fenomeno può essere ovviamente solo stimato, i dati INPS pubblicati nel novembre 2023 e relativi al 2022 indicano che su 174.636 aziende agricole con dipendenti (NB: dal 2017 calate di un 7%!), gli operai agricoli censiti erano 1.006.975, quasi il 36% al Sud isole escluse, e in testa tra le regioni Puglia, Sicilia, Emilia-Romagna (per i curiosi, rimandiamo QUI). Tra costoro, come ovvio, ben 894.000 a tempo a tempo determinato, cioè l’83% del totale: e secondo fonti sindacali tra tutti 358.000, cioè il 31%, stranieri. NB: le giornate lavorative pro-capite sono passate (fonte UIL Agricoltura) da 96 del 2021 a 98 nel 2022 (tendenza all’emersione del fenomeno? Mah…) In ogni caso, produzione, valore aggiunto ed occupazione in agricoltura nel 2023 hanno registrato un calo sensibile (DATI ISTAT QUI).
Ai lavoratori dipendenti si aggiungono 431.215 lavoratori agricoli autonomi (coltivatori diretti), 46.213 imprenditori agricoli professionali (soggetti che dedicano all’attività agricola di impresa, direttamente o come di soci, almeno il 50% del proprio tempo di lavoro complessivo con ricavi di almeno il 50% del proprio reddito globale da lavoro (25% per le aziende ubicate in zone svantaggiate di cui all’art. 17 del reg. CE) e qualche centinaio di mezzadri (che lavorano cioè con i desueti contratti di mezzadria, soccida e simili, invece prevalenti in certe regioni come Lombardia e Toscana fino a qualche decennio fa). In tutto, distribuiti su poco più di 350.000 aziende agricole autonome. Gli occupati totali in agricoltura assommerebbero quindi ad una percentuale intorno al 6%, in realtà minore se si considerano le ore lavorate rapportate ad impieghi a tempo pieno. Ad essi vanno poi sommati i lavoratori irregolari, non necessariamente, ma spesso, preda del caporalato.
Secondo i dati dell’osservatorio Placido Rizzotto della Flai CGIL (QUI), come riportati da diverse agenzie di cui riproduciamo quello di Wired (QUI).
“…nel nostro paese sono infatti quasi 230mila le persone che lavorano nelle campagne e che non sono titolari di contratti regolari di lavoro e, di conseguenza, di diritti correlati. Di questi, 55mila sono donne e il 30% è costituito da cittadini italiani o dell’Unione europea.
A conferma di questi dati, che coincidono con quelli dell’Istat (che infatti stima una percentuale di poco inferiore, il 23,2%)., ci sono anche quelli dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil, la sigla sindacale che segue il settore agricolo, che da anni si occupano di monitorare il caporalato e le agromafie nella penisola, e che sottolineano come oltre il 25% dei braccianti in Italia lavori in nero. Come conferma il presidente dell’osservatorio Jean-René Bilongo, le paghe per i lavoratori a nero sono miserrime, “in media - racconta - 20 euro al giorno per una giornata di lavoro che va dalle 10 alle 14 ore”. C’è però anche “chi ne prende solo 10 di euro oppure nemmeno uno, a cui viene data dell’acqua, un panino e poi basta. E le donne vengono pagate il 20-30% in meno degli uomini”.
Tutto questo porta un giro d’affari difficilmente quantificabile, tanto che “anni fa - spiega ancora Bilongo - avevamo tentato un calcolo, ma non eravamo arrivati a niente”. È invece facile immaginare che l’evasione contributiva nel settore agricoltura possa essere “compresa - aggiunge - tra i 700 e 900 milioni di euro. In questa stima però non rientrano tutti gli anelli della filiera agroalimentare ma solo il primo, per questo sembra così bassa”.
Tornando al caso Singh, l’Agro pontino e la provincia di Latina risultano tra le aree nelle quali lo sfruttamento dei braccianti è più diffuso. La cronaca del 20 giugno, con sette arresti fra le province di Caserta e Napoli per intermediazione illecita di lavoratori di origine esterne all’Unione europea pagati due euro all’ora, restituiscono un radicamento di questa pratica che travalica i confini regionali. Il fenomeno è nazionale, e tocca la Capitanata foggiana come le campagne piemontesi di Saluzzo, il Ragusano e il Metapontino, il Fucino abruzzese e il Veneto. Oltre la metà delle 405 aree di caporalato diffuso censite dall’osservatorio presieduto da Bilongo è nel nord Italia.” (QUI)
Passando al caso dello sventurato Satnam, nella provincia di Latina le giornate lavorative pro-capite risultano, dice il segretario generale della UIL Agricoltura Mantegazza in una intervista comparsa su agricultura.it sono 118; a suo dire, in quanto superiori alla media nazionale, indice di un progressivo percorso di emersione del lavoro nero. “Latina, come Matera (118), Catania (113), Ragusa (112), Siracusa (128) sono alcuni dei tanti territori dove Sindacato, imprese, e istituzioni hanno avviato con successo un percorso di emersione, ancora lungo ma evidente” aggiunge “Forse bisognerebbe rivolgere più attenzione verso altri territori come Piacenza (79), Reggio Emilia (87), Modena (75), Udine (81), Pavia (77), Alessandria (77) e Asti (75) dove le giornate pro-capite risultano mediamente molto basse”.
Accogliamo pure lo spunto di riflessione, a suggestione, pur qualche perplessità. Ma cosa si fa per combattere il fenomeno, che in certe aree del paese e in certi segmenti e filiere produttivi costituisce la normalità del mercato del lavoro e dell’economia agricola, e lo è ormai da decenni? Il caso dell’azienda dove lavorava Satnam è emblematico. Riassumiamo: un fatturato di un 1.116.000 circa di euro, spese per retribuzioni 115.000 (!!), utile 2023 di 62.000 euro, con il titolare indagato da 5 anni per violazione delle norme sul lavoro (indagini non ancora chiuse …. è così oberata di lavoro la Procura di Latina?), e, ciò nonostante beneficiaria ripetutamente di fondi europei per 131.000 euro. Parrebbe confermata la sotto-dichiarazione delle giornate lavorate: a fianco dei lavoratori del tutto in nero, assunzioni, sempre di stranieri extracomunitari, in un primo tempo in regola (impossibile far credere che la terra si coltivasse da sola …) poi licenziamenti, riassunzioni in nero con questi, a quanto parrebbe, retribuiti (solo?) con l’indennità di disoccupazione INPS, e dimoranti presso qualche catapecchia del loro datore di lavoro anche ad oltre 100 euro di affitto in nero al mese, con ulteriore evasione ….
Che fare? Spiace rilevare che si è fatto ben poco di efficace. Una legge anti-caporalato, la 199, ad integrazione della normativa precedente (la prima risalente al 1949 con la legge 264) fu emanata nel 2016. Nel 2018 era stato istituito il (solito e pomposo…) Tavolo operativo per la definizione di una nuova strategia di contrasto al caporalato e allo sfruttamento lavorativo in agricoltura, che dovrebbe coordinare tutti gli Enti istituzionali coinvolti a livello nazionale e territoriale; triennale prorogato nel giugno 2002 al giugno 2025. Il Tavolo partorì un Piano triennale di contrasto 2020-2022, che comportò anche l’emanazione di specifiche Linee-Guida nazionali in materia di identificazione, protezione, assistenza delle vittime di sfruttamento lavorativo in agricoltura; osserviamo che il Piano triennale una volta scaduto non è stato rinnovato. E c’è voluto il drammatico caso di Satnam per la Ministra del Lavoro riconvocasse il Tavolo lo scorso 22 giugno … La Ministra peraltro ha ipotizzato:
- Un aumento del numero degli ispettori e dei controlli (lo si sente ripetere ad ogni infortunio mortale, ma le assunzioni previste rimangono sempre le stesse, qualche centinaio …). Leggiamo oggi che si tratterebbe di assumere 514 ispettori amministrativi, 403 da pare dell’INPS e 111 da parte dell’INAIL; numeri ridotti a parte, difficilmente le procedure potrebbero concludersi entro il 2024
- Una decontribuzione per le imprese che aderiscono alla «Rete del lavoro agricolo di qualità» istituita presso l’Inps (un “albo” che premia gli imprenditori agricoli che applicano la legge – strumento tutto da costruire e con la stessa errata filosofia di base della patente a punti in edilizia: ti premio se fai quel che devi, non se ti impegni a migliorare)
- Inasprimento delle sanzioni per l’esercizio non autorizzato dell’attività di intermediazione del lavoro (assoluta novità per un Governo che si è distinto sinora per condoni e per una filosofia, chiamiamola così, giustificazionista)
Nell’attesa che le calderoniane rose fioriscano (ma questo governo finora non dimostra alcun pollice verde…) si muove comunque la magistratura. Secondo il già citato Osservatorio Placido Rizzotto della FLAI CGIL, 66 Procure della Repubblica indagano quest’anno sul caporalato con 834 inchieste aperte, in aumento sugli anni precedenti; il 45% di queste al Sud, il 27% al Centro ed il 28% al Nord. Rinvio per ulteriori dettagli allo specifico Rapporto del Laboratorio L’altro Diritto (https://www.fondazionerizzotto.it/wp-content/uploads/2024/06/V-Rapporto-Adir-ok.pdf)
Per una vigilanza più efficace non basta però destinarvi più ispettori, carabinieri, guardie di Finanza (non occorre personale tecnicamente specializzato come gli ispettori tecnici dell’INL o delle ASL…): occorrono strumenti di quella che viene chiamata intelligence, oggi mancanti, per quanto tra l’altro da tempo richiesti dalle organizzazioni sindacali:
- DURC di congruità anche in agricoltura– È uno strumento introdotto per l’edilizia dal 2021 (era ministro del Lavoro Orlando), che verifica la congruità dell’incidenza della manodopera impiegata nella realizzazione di lavori edili rispetto all’importo dei lavori stessi. Tale congruità può essere definita come l’importo minimo di manodopera atteso per la realizzazione di un’opera edile, in dipendenza dalla tipologia di lavorazione e considerando tutte le imprese presenti nel cantiere. Si tratterebbe quindi di confrontare fatturato, tipo ed estensione delle lavorazioni svolte con le retribuzioni dichiarate.
- Data base delle aziende ispezionate e delle irregolarità riscontrate – Per quanto sembri incredibile, e nonostante tutte le chiacchiere, anzi gli ubiqui proclami, sulla necessità di un coordinamento delle varie forme di vigilanza per non infastidire troppo le aziende con controlli ripetuti (non disturbare chi fa, Meloni dixit da ultima, ma in buona compagnia a partire dai Ministri del Lavoro Sacconi con Berlusconi passando per Poletti nel governo Renzi), un tale data base non esiste, benché ogni protocollo, Tavolo ecc. parli di interoperabilità e condivisione delle banche dati. Ogni ente ha il proprio archivio non comunicante con gli altri; e il primo che ha provato testardamente ad istituirlo, cioè il precedente capo dell’Ispettorato Nazionale del lavoro, il magistrato Bruno Giordano, è stato sostituito non appena insediatosi il governo Meloni. Al suo posto, di nuovo un ex ispettore dello stesso INL, Paolo Pennesi, non particolarmente stimato nell’ambiente pare, ma capace di restare al timone, o nei paraggi, attraverso tutti i cambi di governo negli ultimi venti anni.
A conferma di quanto sopra, non si è riusciti a reperire dati completi e confrontabili su vigilanza ed irregolarità; mi limito a riportare il dato del Lazio 2023: su 222 ispezioni percentuale di irregolarità del 64,5% con 608 casi di caporalato (Il manifesto del 26 giugno).
Quali che siano i numeri (insufficienti) e le percentuali di irregolarità (elevate), la vigilanza non basta; ma, se andiamo alla radice dei problemi, due i rimedi che (vasto programma) delineiamo per sommi capi:
- Riformare le norme sull’immigrazione e di quelle sul lavoro, promuovendo politiche di integrazione reali e rendendo impossibili situazioni di ricattabilità quali quelle attuali.
- Intervenire sulla formazione dei prezzi dei prodotti agricoli e sulle relative filiere di raccolta, conservazione e distribuzione: è falso che sulle nostre tavole frutta e verdura hanno prezzi “abbordabili” solo perché sfruttiamo indegnamente chi le raccoglie. Gli agricoltori sono strangolati da chi vende carburante, fornisce sementi, affitta mezzi agricoli o terreni, compra, conserva, distribuisce i prodotti spesso attraverso cartelli o contratti capestro: non dal costo del lavoro regolare.
Su numeri e tipologia di infortuni e malattie professionali in agricoltura, con qualche focus sui lavoratori stranieri, rinvio agli ultimi dati INAIL di marzo 2024 (QUI). Peraltro, c’è ragione di credere che i dati per gli stranieri siano sottostimati, vista l’irregolarità diffusa: tutto fa pensare che gli infortuni anche gravi si nascondano, la cronaca riporta vari casi di cadaveri abbandonati, la gente verosimilmente si cura da sola, o non si cura affatto, perché teme si essere scoperta.
Un’osservazione finale: le modalità di infortunio di Satnam sono rare in agricoltura, dove spesso la tecnologia è poca, poche e magari vecchie le macchine; e i rischi prevalenti sono quindi piuttosto quelli fisici e da organizzazione del lavoro: orari, rischio da fatica e, come in tutti i lavori necessariamente da svolgere all’aperto, ritmi pesanti, con pause difficili da conciliare con i tempi ristretti delle raccolte. E qui si dimostra sempre più ingravescente rischio calore, che il cambiamento climatico amplifica e non solo in agricoltura, e che sarà oggetto di un prossimo articolo.
Infine il consueto sguardo agli ultimi infortuni mortali: persone che cadono dall’alto da una impalcatura oppure da una copertura perché quest’ultima cede, (evidentemente, in ambo i casi non assicurati in sicurezza); trascinate da macchinari in movimento, come Satnam, schiacciate sotto il trattore ribaltato (ma quanti trattori fuori norma senza protezione della cabina ci sono ancora ni circolazione?), oppure dal braccio di una gru che cade, o anche da un pezzo del trattore fermo sotto il quale cui stavano facendo manutenzione, ustionati dallo scoppio di metallo fuso come a Bolzano. Sempre le stesse, poche, evitabili, cause e circostanze.
Maurizio Mazzetti
30/6/2024 https://www.ilmanifestoinrete.it/
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