“Stesso lavoro, stesso salario”. Per un orizzonte nuovo nei servizi di cura pubblici

Dopo il racconto e l’analisi dello sciopero del 10 aprile per l’internalizzazione dei servizi, e mentre diverse iniziative dal basso sollevano il tema delle condizioni insostenibili del lavoro di cura esternalizzato (“Lotto per mille” dicono le lavoratrici in agitazione della Diaconia Valdese), riprendiamo il ragionamento sull’internalizzazione, soffermandoci sul suo punto centrale: chi fa lo stesso lavoro, deve ricevere lo stesso salario. E non si tratta di un salario come gli altri.

UN’ESTATE CALDA
Anche in questa estate, come già in quella del 2022, con la dichiarazione dell’emergenza legata alla cosiddetta “fuga degli operatori sociali”, diventano particolarmente visibili le condizioni insostenibili in cui il lavoro di cura – e in particolare il lavoro educativo esternalizzato – quotidianamente si svolge. Sul fronte della mobilitazione dal basso delle lavoratrici, sono le dipendenti della Diaconia Valdese che, dopo una campagna intensa ma sconfitta per un giusto rinnovo del contratto nazionale (avvenuta a inizio aprile senza tenere conto delle loro richieste), sono entrate in stato di agitazione denunciando “un licenziamento punitivo” ai danni di una lavoratrice impegnata nelle mobilitazioni. Ma sono anche le Centrali cooperative e il Forum del Terzo Settore, come già due anni fa, a promuovere iniziative e presidi in diverse città (insieme ai sindacati confederali a Milano, senza di loro a Roma), invitando esplicitamente lavoratrici e lavoratori a partecipare: in questo caso la richiesta è l’adeguamento delle tariffe dei servizi esternalizzati agli aumenti, assai tenui, previsti dal rinnovo del contratto nazionale delle cooperative. Per completare il quadro, le chat di coordinamenti, sindacati e gruppi improvvisati di educatrici ribollono per le recentissime norme previste dalla legge 55/2024 legate all’entrata in vigore dell’obbligo di iscrizione al neonato albo professionale per pedagogisti ed educatori socio-pedagogici.

Eppure, subito prima dell’estate c’è stata anche quest’anno la primavera, segnata dal rinnovo del Contratto collettivo nazionale delle cooperative sociali (che riguarda circa 400 mila lavoratrici e lavoratori a  livello nazionale) firmato dalle centrali cooperative e dai sindacati confederali (5 marzo 2024) e dallo sciopero nazionale e unitario dei sindacati di base per l’internalizzazione dei servizi educativi e la critica ai contratti esistenti (10 aprile).

Abbiamo così un concentrato di nodi irrisolti e non risolvibili senza un ripensamento complessivo del sistema che si regge sulle esternalizzazioni.

Partiamo dall’alto, ossia dai soggetti che hanno finora governato (non senza conflitti, ma senza mai mettere in discussione il sistema delle esternalizzazioni): prima il rinnovo, abbastanza silenzioso e, come vedremo, molto debole, del contratto collettivo nazionale firmato da sindacati confederali e centrali cooperative; poi i presidi di questi stessi soggetti che denunciano che quanto stabilito dal rinnovo è messo in discussione dall’attore pubblico che non incorpora nei propri bandi e convenzioni queste condizioni migliorative. Intanto la maggioranza parlamentare lascia stagnare la sua stessa proposta di legge sull’internalizzazione degli assistenti scolastici. Proprio rispetto a quest’ultima, sul fronte opposto, i sindacati di base e i collettivi che da anni chiedono l’internalizzazione spingono perché, approfittando delle proposte di legge depositate in parlamento, il tema venga infine assunto dalla politica ascoltando la voce di chi lavora nei servizi. Infine, nella quotidianità delle lavoratrici, emerge da un lato il logoramento non solo del trattamento salariale, ma anche dei già assai deboli spazi di democrazia interna agli enti del terzo settore (come nel caso delle lavoratrici valdesi, ma anche, di recente, nei casi torinesi di Eufemia e Almaterra), e dall’altro una nuova tappa dell’odissea della professionalizzazione, con lauree e albi che invano continuano a promettere il famoso “riconoscimento della professionalità”, come se la sua mancanza dipendesse dalla scarsa formazione di chi lavora nel settore o da una sua insufficiente “formalizzazione” (da compiersi, nemmeno a dirlo, a spese di chi lavora).

Sullo sfondo, alcuni vuoti persistenti: l’incontro così difficile tra sindacati e lavoratori del sociale; i cortocircuiti del terzo settore, in cui le condizioni di lavoro sono nominabili solo secondo modi e tempi scelti dagli enti di rappresentanza delle cooperative, che improvvisamente invitano i lavoratori a scioperare insieme ai dirigenti, partecipando “come una famiglia” a estemporanei presidi; l’incapacità dell’università di giocare un ruolo critico e inventivo e il suo rimanere schiacciata sulla produzione e certificazione di “profili professionali”; la frattura tra soggetti e pratiche che mettono al centro la qualità dei servizi e quelli che mettono al centro la qualità del lavoro, come se non fossero due facce della stessa medaglia; l’irrisolto equivoco tra lavoro e missione e la sua strumentalizzazione per far funzionare un sistema sotto-finanziato.

STESSO LAVORO, DIVERSO SALARIO
Allora eccoci al titolo che abbiamo scelto per l’articolo, che continua ad avere senso perché oggi questo sistema basato sulla collaborazione tra settore pubblico e terzo settore paga salari diversi per lo stesso lavoro e perché l’esternalizzazione, in qualunque forma, trova la sua ragione ultima proprio nel minore costo del lavoro e soprattutto nella maggiore flessibilità: in una parola, nella maggiore precarietà delle lavoratrici e lavoratori del terzo settore.

Le forme di questa precarietà e di questa diseguaglianza sono molteplici; affiorano nel dibattito pubblico quasi come elementi di folclore, ma raramente sono messi in connessione con le premesse stesse del sistema in cui si inseriscono. Ne richiamiamo qui alcune, a partire dall’esperienza di chi di noi lavora nei servizi esternalizzati; dai dati e dalle rivendicazioni contenuti nella piattaforma per il rinnovo del contratto nazionale delle cooperative sociali promossa dai sindacati di base; infine, da studi e ricerche in cui chi tra noi fa ricerca sociale è stato coinvolto.

Partiamo dal dato di base che ci dice che la figura dell’educatore ha attualmente nel contratto enti locali (con inquadramento C1) una paga base di 1.782,74 euro lordi mensili, mentre una collega delle cooperative sociali 1.511,24 euro lordi (con inquadramento D1). A questa differenza va sommato il fatto che il tempo pieno previsto dal primo contratto è di 36 ore, mentre quello previsto dal secondo è di 38: dunque, per guadagnare circa il 15% in meno, chi lavora nelle cooperative sociali deve lavorare più di 100 ore in più in un anno.

Gli stessi sindacati di base registrano inoltre, nelle assemblee territoriali, una varietà di altre questioni: la grande diffusione di part-time involontario (dati Cnr-Ircres del 2020 segnalavano il 45% di contratti part-time nel terzo settore); la scarsità e spesso la bassa qualità dei percorsi di formazione (talvolta nemmeno certificati), che pure sarebbe prevista dal contratto nazionale e che finisce per rappresentare un ulteriore elemento di diseguaglianza rispetto a chi lavora nel settore pubblico (la cui formazione è invece sempre certificata e riconosciuta anche a livello europeo).

Restano poi diseguaglianze importanti in termini di ferie e permessi e su almeno altri tre fronti che storicamente sono state al centro di vertenze locali oltre che nazionali: l’uso e abuso della banca ore nelle cooperative sociali (usate per gestire, spesso a senso unico, le esigenze di flessibilità del servizio); la cronica scarsità, se non la totale assenza, delle cosiddette “ore indirette”, ovvero quelle dedicate alla riflessione sul lavoro e alla sua programmazione (“ci troviamo a farle da sole, in macchina, nel tempo non pagato di spostamento tra un caso e un altro”, ci hanno raccontato le educatrici di un collettivo piemontese, illustrando una situazione diffusa), infine l’istituto delle “notti passive” (solo lievemente migliorato nell’ultimo rinnovo del contratto nazionale), ovvero il lavoro in comunità nella fascia oraria tra le 22 e le 6, per le quali – pur essendo chi lavora sul posto di lavoro e perennemente a disposizione – viene corrisposta un’indennità forfettaria di 12,39 euro complessivi.

C’è poi un altro aspetto delle esternalizzazioni, trattato raramente ma cruciale: proprio in quanto garantisce diritti essenziali, il lavoro pubblico è diverso dal lavoro privato. Questa differenza è riconosciuta anche “tecnicamente” nell’idea che il lavoro pubblico non sia retribuito in quanto “vendita di lavoro” secondo la logica capitalistica, ma come contropartita di una “funzione pubblica” svolta dalla lavoratrice o dal lavoratore. C’è dunque una specificità del lavoro pubblico, e di quello di cura in particolare, per pensare la quale è necessario uscire dalla prospettiva capitalista di vendita di forza lavoro scomposta e misurata in minuti e ore e guardare invece verso un orizzonte di più lungo respiro: quello della funzione e del senso del lavoro per chi lo svolge e per la collettività che le/gli dà mandato di svolgerlo. Si tratta di una logica che viene completamente ribaltata nel meccanismo degli appalti, in cui si commerciano ore-lavoro in modo del tutto sconnesso sia dalla situazione concreta di chi lo svolge, sia dallo scopo del lavoro stesso.

COME USCIRNE?
Ritorniamo così al nesso tra condizioni di lavoro e qualità del servizio, intesa però non nell’ottica della qualità valutata dal “cittadino-cliente”, ma di qualità pubblica, cioè di capacità di alimentare un senso di solidarietà collettiva. Certamente si può sostenere che, affinché questa costruzione collettiva di significato avvenga e si traduca in termini organizzativi e contrattuali, non è sufficiente che lavoratrici e lavoratori siano inquadrati con un contratto di pubblico impiego, e questo è certamente vero. Il settore pubblico, in effetti, sembra sempre meno capace di mettere in moto processi che producono questo tipo di qualità. La tutela del lavoro e il trattamento equo e giusto di tutti coloro che lavorano nei servizi, e il loro inserimento in un sistema di diritti, è tuttavia una condizione necessaria.

Dire “internalizzazione” allora forse non basta, perché è una richiesta che va aperta e articolata in tutte le sue implicazioni. Tuttavia, per cominciare, ci permette di indicare una priorità rimossa e di aprire uno spazio di critica e soprattutto di immaginazione: esiste un mondo possibile al di fuori del sistema di esternalizzazioni che si è sviluppato a partire dagli anni Novanta. Non si tratta di perfezionarlo o restaurarne un buon tempo perduto, ma di lasciarselo alle spalle facendo lo sforzo di inventare un orizzonte nuovo, abbandonando le abitudini e le piccole o grandi rendite di posizione da cui molti oggi estraggono valore economico, politico, relazionale e di reputazione. Le esternalizzazioni, più o meno sofisticate e “co-progettate”, dei servizi di cura pubblici non sono il destino ineluttabile né del lavoro sociale, né del terzo settore, né tantomeno del welfare pubblico. Come diverse mobilitazioni in corso ci ricordano, chiedere oggi – proprio mentre in Francia il Nuovo Fronte Popolare propone Lucie Castets, cofondatrice del collettivo per la difesa dei servizi pubblici come prima ministra – l’internalizzazione e l’eguale trattamento di tutti coloro che lavorano nei servizi pubblici dovrebbe essere il primo passo per poter reinventare questo orizzonte. (laboratorio welfare pubblico)

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26/7/2024 https://www.monitor-italia.it

Immagine: disegno di pietro cozzi

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