Diario palestinese
Prima parte
Ritorno in Israele, cosa è cambiato dopo il 7 ottobre e alla vigilia di un’escalation regionale. Un Paese diviso, ma anche l’impossibilità di costruire, dopo l’eventuale caduta di Netanyahu, un “sionismo buono”.
Potrebbe sembrare strano o addirittura irrispettoso cominciare il racconto di un viaggio in Palestina parlando della società israeliana e delle fratture che la agitano.
Eppure, a ben vedere, non è che una delle tante conseguenze del regime di occupazione. Non si può arrivare a Gaza o in Cisgiordania senza attraversare i confini e controlli imposti da Israele. Dopo il 7 ottobre questo regime di mobilità si è fatto ancora più stringente, innanzitutto per i palestinesi ma anche per gli internazionali. Pochissimi sono i voli rimasti sulla Giordania, atterrare a Tel Aviv è quasi un obbligo. Chiaramente, lo diciamo dal punto di vista di europei che possono ancora entrare e uscire dai territori occupati senza troppi problemi. Per i palestinesi, invece, la situazione non è mai stata semplice. In questo momento però non bisogna fare i conti solamente con le restrizioni legali per le quali pochi sono autorizzati ad uscire dalla Cisgiordania o con l’imprevedibilità e arbitrarietà dei controlli ai check-point. Sono gli attacchi dei coloni – ai quali il governo ha distribuito più di 10mila fucili negli ultimi mesi – a essersi moltiplicati, per numero e pericolosità.
Occupied minds
Il nostro viaggio si limita ai territori del ’48 e alla Cisgiordania. Gaza torna in molte delle conversazioni che abbiamo avuto, ma è sempre una terra lontana e vicina allo stesso tempo. Lontana perché nessuno dei palestinesi che abbiamo incrociato finora ha mai potuto andarci, vicina perché in ogni caso è sentita come un luogo proprio le cui sofferenze fanno parte di una storia collettiva. La frammentazione territoriale della Palestina è un altro degli aspetti del regime di occupazione.
Una seconda premessa è necessaria. I nomi di molte delle persone che abbiamo incontrato non possono essere riportati e per questo verranno sostituiti con altri di fantasia. Il motivo è semplice: non esiste libertà di espressione per i palestinesi. In generale, la paura di essere arrestati è tantissima, anche solo per aver condiviso un post sui social o aver fatto parte di un gruppo su Telegram, come migliaia sono le persone che sono finite in prigione.
Terza e ultima precisazione. Il racconto che segue non ha nessuna pretesa di essere esaustivo. È un diario che raccoglie esperienze parziali e personali, spesso difficili da raccontare sia per le emozioni generate da alcune storie sia per la rapidità con cui qui si evolvono le cose. «Viviamo alla giornata», è questo quello che spesso ci viene ripetuto dai palestinesi.
Torniamo in queste terre esattamente dopo un anno, ma che la situazione sia diversa ci è subito chiaro fin dal momento in cui atterriamo all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. La fila degli internazionali per il controllo passaporti è quasi deserta. Gli ufficiali ci accolgono con una raffica di domande: dove vai, conosci qualcuno, perché torni dopo un anno, quanti soldi hai con te, che lavoro fai. Solita prassi ma più insistente che in passato.
Arriviamo e che non ci sia quasi più turismo a Tel Aviv e Gerusalemme ce lo confermano anche molti negozianti arabi. In compenso notiamo subito che è aumentato spropositatamente il numero di israeliani armati in giro. Si passeggia o si fa shopping con fucili da assalto al collo e pistole in tasca.
A parte ciò, potrebbe quasi sembrare che la vita scorra normalmente, sulle spiagge di Tel Aviv affollate di giovani al tramonto o tra i tavoli dei caffè di Jaffa Street a Gerusalemme. Ma è solo un’impressione superficiale.
Che qualcosa di profondo sia successo lo si capisce subito dai volti dei 251 ostaggi del 7 ottobre, stampati e affissi a ogni angolo di strada, nei corridoi dell’aeroporto, sulle vetrine dei negozi, alle fermate del tram. In giro, molti indossano maglie con lo slogan #bringthemhomenow, altri espongono un fiocco o un nastro giallo. Tutti simboli di quello che sembra essere una sorta di trauma condiviso dalla società civile israeliana, abituata per tanto tempo a ignorare – in parte o del tutto – la violenza generata dal regime di occupazione, convinta che il paradigma securitario costruito da Netanyahu in circa 15 anni di governo avrebbe garantito all’occupante una vita serena. Un paradigma andato in frantumi il 7 di ottobre. Riportare a casa gli ostaggi vivi – 105 sono quelli liberati grazie all’accordo raggiunto a novembre 2023 – e seppellire i corpi di quelli morti è diventata quindi non solo un’esigenza delle famiglie dei rapiti ma un passaggio collettivamente necessario per elaborare un trauma che per una parte della società è ancora in corso.
La linea del governo però è molto chiara: la “vittoria totale” promessa da Netanyahu – al di là della retorica, la punizione collettiva dei palestinesi di Gaza per aver sfidato il suprematismo sionista – ha la priorità su tutto, anche sul destino degli ostaggi.
Il silenzio sul cessate il fuoco
Per questo la definizione di un nuovo accordo che preveda un cessate il fuoco nella Striscia e uno scambio di prigionieri fra le parti – in Israele non se ne parla ma sono più di 9.000 i palestinesi arrestati solo in Cisgiordania dopo il 7 di ottobre – è diventata una questione politica esistenziale.
Anche sabato 27 luglio, come ogni settimana da quasi 300 giorni, è prevista una manifestazione nella Hostages and Missings Square, la piazza di fronte al Museum of Art di Tel Aviv dove famiglie e solidali con gli ostaggi hanno installato un presidio permanente. Arriviamo lì da Gerusalemme che sono le 5 del pomeriggio e c’è pochissima gente. All’ingresso della piazza uno schermo segna giorni, ore, minuti e secondi passati dal momento in cui gli ostaggi sono stati catturati. Alcuni volontari preparano il merchandise (magliette, shopper, stickers, ventagli) da vendere la sera, altri accolgono i visitatori nei diversi stand per raccontare le storie di quelli che ci vengono presentati come eroi: c’è quello delle famiglie, quello dei kibbutz e quello del Nova Festival. Entriamo in quest’ultimo, un po’ ovunque notiamo bambolotti e pupazzi macchiati di rosso e smembrati, oltre alle foto di alcuni dei ragazzi rapiti durante il festival. Ci accoglie una ragazza bielorussa che ci parla di Israele come del suo paese. Il suo racconto inizia e finisce con la mattina del 7 di ottobre, nessun riferimento al prima e al dopo, come se tutto fosse successo in un vuoto pneumatico, come se un male oscuro di nome Hamas si fosse manifestato quel giorno.
Continuiamo il giro della piazza e visitiamo le diverse installazioni con cui alcuni artisti israeliani hanno contribuito al presidio. Al centro è allestita una tavola per lo Shabbat con un posto a sedere lasciato libero per ognuno degli ostaggi, che col tempo si è ricoperta di polvere a simboleggiare la durata dell’attesa; a poca distanza, incontriamo un altro gruppo di sedie vuote dipinte di giallo. Fra tutte però ci colpisce la riproduzione, o presunta tale, di uno dei tanti tunnel che corrono sotto Gaza. I bambini giocano correndo da un lato all’altro mentre degli altoparlanti al suo interno riproducono suoni di bombardamenti e scontri armati. Ci dicono che l’intento di questa installazione sia quello di far provare ai visitatori l’esperienza vissuta dai rapiti. Percorriamo i pochi metri del tunnel e abbiamo la sensazione che si tratti di una vuota spettacolarizzazione del trauma.
Ci allontaniamo per un po’, mentre alla spicciolata vediamo arrivare in senso opposto al nostro sempre più persone. Sono le 8 di sera, torniamo in piazza e la troviamo affollata. Dal palco centrale si alternano i familiari dei rapiti, i loro discorsi sono proiettati su numerosi maxischermi disposti in ogni angolo. Alcune persone reggono dei cartelli, altri piangono, tutti ripetono gli slogan che con insistenza vengono lanciati. Cerchiamo di tradurre quelle parole che ci sembrano cariche di rabbia e sofferenza: «Netanyahu fai una scelta coraggiosa, umana e giusta e concludi un accordo adesso».
Le manifestazioni della sinistra israeliana
Ci arriva la notizia che la situazione si sta scaldando a Democracy Square, l’altra piazza fulcro delle proteste. Si tratta dell’intersezione fra due strade molto trafficate del centro di Tel Aviv dove per 28 settimane di seguito nel 2023 i manifestanti si sono radunati per opporsi al tentativo di riforma giudiziaria portato avanti dall’attuale governo e che mirava a ridurre il potere della Corte Suprema rispetto alle decisioni dell’esecutivo.
Incontriamo diverse realtà della “sinistra” israeliana come Look the Occupation in the Eye, Pink Front, Standing Together. Dall’alto del ponte che taglia la strada si lanciano slogan contro Netanyahu e Ben Gvir. I loro volti incorniciati da slogan come “dimettiti”, “vergogna” o “FCK” sono stampati su migliaia di adesivi che vengono distribuiti a tutti. «Dateci una mano ad affiggerli, ma state attenti perché a Gerusalemme potrebbero darvi un pugno in faccia». Qualche cartello chiede la fine della guerra. Non ci sono bandiere o simboli come l’anguria che rimandano alla Palestina, dicono che la polizia non li tollera e li confisca immediatamente.
Piano piano il presidio inizia a ridursi, al posto degli interventi al megafono si leva un battere di tamburi che dà inizio ad un piccolo corteo. Arrivati al primo incrocio, la polizia interviene. Un poliziotto regge sulla schiena un grande megafono, un altro intima di spostarsi sul marciapiede. Ogni volta che il semaforo pedonale diventa verde i manifestanti iniziano ad attraversare la strada attardandosi per rallentare il traffico. Arrivano altri poliziotti che cercano di contenere le ripetute ondate degli attraversamenti messi in scena dai manifestanti, qualcuno viene portato via. In lontananza inizia a schierarsi la polizia a cavallo. Un giovane colono prova a infiltrarsi tra la folla ma viene immediatamente bloccato. Da un altro lato arriva un gruppo di ragazzi le cui intenzioni non sembrano essere delle migliori, si avvicinano a un manifestante rimasto isolato, iniziano a strattonarlo, interviene di nuovo la polizia. Si va avanti così per un po’, poi il presidio si scioglie, i numeri non sono adeguati per continuare. È il momento di tornare a Gerusalemme, prendiamo un passaggio da un giornalista spagnolo che da anni segue la “questione palestinese”. Ci confrontiamo con lui.
Un Paese spaccato
In questi primi giorni di viaggio ci è sembrato che, semplificando, Israele sia spaccata in due:
da una parte l’anima più liberal che ha nostalgia di un sionismo dal volto buono o che semplicemente vuole godersi le spiagge di Tel Aviv ignorando più o meno deliberatamente la violenza del regime di occupazione; dall’altra quella più conservatrice che invece crede sia giunto il momento messianico di costruire la grande Israele e che ha totalmente deumanizzato i palestinesi. Tel Aviv e Gerusalemme sono simbolicamente i due poli di questa crisi esistenziale.
Il 7 ottobre è stato quella scossa che ha messo a nudo una frattura già profondamente radicata nel tessuto sociale e che ora non sembra essere più sanabile.
Questa implosione delle diverse anime del sionismo non può che riverberarsi anche sul dibattito politico attorno al cessate il fuoco: la priorità è salvare quante più vite israeliane possibili o salvare Netanyahu e il suo governo dalle inchieste giudiziarie nazionali e internazionali? Accertare le responsabilità personali e politiche del fallimento del paradigma di sicurezza e apartheid costruito in questi anni o ristabilire un ordine suprematista e un’equazione di deterrenza andati in frantumi?
La verità oramai innegabile è che per fascisti come Netanyahu, Ben Gvir e Smotrich la vita degli ostaggi non è mai stata una priorità, anzi un problema, un ostacolo. La stampa nazionale continua a riportare indiscrezioni che arrivano direttamente dall’intelligence, segno che anche nell’apparato di governo ci sono forti tensioni, secondo le quali non solo col passare del tempo diminuiscono sempre di più le possibilità di portare a casa gli ostaggi vivi, ma che è impossibile farlo esclusivamente per via militare. È per questo che la morte di Ismail Haniyeh, capo dell’ufficio politico di Hamas ucciso a Teheran il 31 luglio, è stata accolta con preoccupazione anche dalle famiglie degli ostaggi, potrebbe essere la pietra tombale su qualsiasi speranza di un cessate il fuoco.
Eppure, il rischio è di focalizzarsi esclusivamente sui crimini dell’attuale governo senza fare i conti con quei processi di invisibilizzazione dell’altro e di empatia selettiva con cui la maggior parte degli israeliani convivono tranquillamente. «Our people can’t be really free until all of us are free» – recita una scritta su un muro nei pressi di Hostages Square, emblematica di questa condizione di violenza epistemica.
In questo momento i margini per la costruzione di un discorso decoloniale interno allo stesso occupante sono pressoché inesistenti. Sembra che oramai le uniche possibilità per arrivare a un cessate il fuoco siano una forte pressione internazionale sul governo di Netanyahu o la sua caduta. Ci domandiamo se, a quel punto, quelle pochissime voci israeliane che hanno il coraggio di prendere atto della spirale di violenza generata dal regime di occupazione potranno trovare maggiore spazio. Non si tratta di ricostruire un sionismo nuovamente presentabile agli occhi della comunità internazionale ma disertarlo in tutte le sue forme, decolonizzare la mente dell’occupante, riconoscere l’esistenza e i diritti del popolo palestinese per salvare anche la propria di umanità.
di MP e ID
6/8/2024 https://www.dinamopress.it
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