A forza di legge: l’esclusione operata con la norma

L’hub all’aeroporto Allegri di Padova

Il libro di Antonio Ciniero su centri accoglienza, ghetti agricoli e campi rom in Italia

Nelle società contemporanee, il rapporto e la dinamica fra inclusione ed esclusione è il risultato di una correlazione di più fenomeni e modalità in virtù di contingenze storiche e politiche sociali: vi può essere, infatti, esclusione radicale dalla società, segregazione, discriminazione, anche interna, inclusione differenziale dove convivono fattori di esclusione e integrativi. La relazione è disomogenea nell’intensità, nelle procedure e nella diffusione territoriale.

Le politiche dell’esclusione. Centri accoglienza, ghetti agricoli e campi rom in Italia di Antonio Ciniero 1 (Ciniero, 2024, ed. Meltemi) 2 è un abitare il luogo dal quale si parla e si pensa: centri di accoglienza, ghetti agricoli e campi rom, spazi carichi di significati e segni identitari, che, nella reciprocità fra modo di essere e vivere, restituiscono orizzonti di senso alla vita delle persone e concorrono, inevitabilmente, alla definizione del nostro sviluppo umano.

In questo volume, Antonio Ciniero ripercorre la ragion d’essere per cui un’emergenza trentennale – quella dell’immigrazione – si è tramutata in una condizione normale del vivere sociale, attraverso politiche che, non riuscendo a far fronte né al fenomeno né all’ospitalità stagionale dei lavoratori, hanno provveduto a delimitare, nelle stesse zone in cui si interviene in nome della sicurezza e dell’integrità (e che dovrebbero porsi a garanzia della legge) una gamma di inclusi ed esclusi dal palcoscenico della storia.

Campi‘, la cui definizione non è naturale ed eterna, ma politica e storica’ (Walters, 2004), materializzano, dunque, ‘come i decisori politici, e più in generale, noi, nelle società di destinazione, vediamo e percepiamo altri esseri umani’ (p. 151): vite prodotte politicamente e socialmente, che non contano, a cui tutto il resto, ovvero, un tessuto di relazioni, di partecipazioni, di integrazione, vita ed attività è stato negato1 (Arendt, 1989).

Un cortocircuito interno alla democrazia (strumentale e non costruttivo), dalla giurisprudenza coinvolta chiamato di doppio regime giuridico, che – approfonditamente – si svolge con, attraverso e contro l’umanità.

  1. Centri di accoglienza

Il 2 aprile 2011, la situazione temporanea nella tendopoli nell’agro di Manduria, pensata circondata da una rete metallica dal legislativo ed esecutivo, stratificava una condizione permanente della storia derivante dalle sue stesse strutture di amico-nemico, servo-signore, mare-terra manifestando una ‘dimensione del vivente’, colta nella sua alterità e superdiversità.

Estesosi poi in tutta Italia, il campo e il suo sistema hanno innescato logiche discriminatorie che si sono elevate a prassi ideologica quotidiana, realizzando il proprio concetto di politico.

Dalla loro genesi, i centri di accoglienza sul territorio italiano hanno acquisito la presenza degli immigrati in approdo, separandoli in un ulteriore confine, ‘fuori dal luogo e dal tempo di quello che è il mondo comune, ordinario e prevedibile’ (Agier, 2008).

In un calzante processo di bordering, il centro di accoglienza trova espressione come confine internalizzato –mantenuto in vita così da non dover essere pensato– segnando la separazione tra autoctoni e stranieri, dei quali, aspetto visibile rimane la territorializzazione come sospensione di ogni contatto decisivo con il mondo. Il centro di accoglienza lavora in funzione di una eterna privazione, laddove gli immigrati diventano non-nazionali, non-europei, non-cittadini; persone che non sono né presenti, né assenti, né uomini e neppure donne, senza dimensioni e/o spessore individuale.

L’osmosi tra accoglienza formale ed informale è pressoché completa ed i passaggi tra l’una e l’altra avvengono attraverso una serie di vistosi varchi.

A Borgo Mezzanone, in effetti, solo due cose catturano l’attenzione. Dalla parta destra, gli immigrati in bicicletta che escono da un cancello telecomandato dove è situato il Cara e dal lato opposto, la strada sterrata che gli ospiti del centro percorrono per arrivare all’interno del ghetto agricolo, formato da vecchi moduli siti sulla pista dell’aeroporto militare abbandonati ed occupati.

  1. Ghetti agricoli

A 30 anni dalla sua scoperta, quando la stagionalità lavorativa era la regola e il previsto rientro al paese d’origine collocava il fenomeno migratorio nel quadro di una mobilità geografica occasionale (1970 – 1980), ‘il ghetto agricolo si consolida in un sistema sociale molto complesso’ ponendosi, in ultimo, ‘come risposta informale al diritto negato all’abitare’ (p. 77) di un numero sproporzionato di immigrati, la maggior parte giovanissimi, ex ospiti dei centri di accoglienza governamentali sparsi lungo la penisola, qui giunti dopo un percorso ostinato e sempre più difficoltoso.

A fronte di una ordinaria tracciabilità del lavoro agricolo caratterizzata da un forte pendolarismo che rende ragione dei continui flussi di braccianti, i ghetti (come i microghetti prodotti dalle operazioni di sgombero) si sono sviluppati attraverso la rete informale che spinge gli stranieri che arrivano per la prima volta a spingersi per lavorare negli stessi posti usati da chi li ha preceduti. Chilometri di abitazioni di lamiere, copertoni, ante di armadi e mobilio, compensato, sotto pagamento di fitto stagionale, bagni in comune e poi ristoranti, meccanici, alimentari, bar, mercati, negozi, un sistema economico interno al ghetto (p. 84) ma anche l’illegalità, merce rubata, attività commerciali senza controllo e soggetti che si muovono verso i ghetti o ‘chi vi si reca per frequentare i night e le baracche destinate alla prostituzione’ (p. 85).

Non semplicemente episodio locale, bensì strutturale, il ghetto agricolo trova la sua valenza nella stessa relazione di dipendenza ed asservimento proposta dai centri di accoglienza, in una costante privazione di autonomia economica ed esistenziale, indicatori fondamentali dei processi inclusivi e della visibilità della sfera sociale di una persona.

Un modello di inserimento, che già nel 1999 Ambrosini definiva di integrazione subalterna, che, nel corso degli anni, come sottolinea lo studio in loco di Ciniero, ha tratto vantaggio sia dal sistema di irregolarità e clandestinizzazione sia dalla mancata applicazione della normativa in materia di lavoro stagionale.

Nel caso degli immigrati, fare il bracciante agricolo, non è più soltanto una definizione tecnica rispondente allanuova divisione internazionale del lavoro”. (Sassen 2003), ma una definizione sociale resa dal legame indissolubile tra contratti di lavoro, permesso di soggiorno e alloggio.

  1. I campi rom

Città e quartieri si trasformano: alcuni diventano multiculturali, altri etnicamente segregati.

Dagli anni ‘80, come chiarisce Ciniero, i rom provenienti dai paesi della ex Jugoslavia sono costretti ad un nomadismo forzato, legati al paradigma -dominante- secondo cui il nomade è l’abitante ‘ideale’ del campo (campi nomadi, campi sosta, villaggi della solidarietà, campi attrezzati, campi riconosciuti o tollerati): un “regime di verità” (Foucault, 1978), idoneo alla classificazione di racconti biografici in un ‘corpus monolitico’, essenziale e differenziale.

Contrariamente ai ghetti agricoli, che nascono per iniziativa degli abitanti, il campo sosta nomadi è il prodotto di una esplicita volontà politica contro l’antiziganismo che perpetua “la disuguaglianza di minoranze etniche, culturali, religiose o nazionali” (Bartoli, 2012), A sancire il permanente stato d’emergenza e d’eccezione, che legittima la prassi ‘addirittura come fonte del diritto’ (Pepino, Zancheta, 1989), lo Stato ha agito per lo più attraverso decreti del Governo e meno attraverso l’iter parlamentare, proponendo come soluzione temporanea il campo sosta, oggi, invece, area di residenza esclusiva dei rom.

Nelle analisi di Fassin, le disuguaglianze subite da parte della popolazione – in questo caso i rom – sono centrali per comprendere il concreto funzionamento delle amministrazioni statali, ‘la sua stessa capacità di produrre illegalità, illeggibilità e parzialità come disfunzioni anche funzionali’ (Fassin, 2011).

Baracche autocostruite e container angusti, privi di collegamenti e lontani dai centri abitati, individuano uno stato di eccezione permanente, dove gli indesiderati, ‘umanità eccedente delle politiche di ispirazione neoliberista’ permangono in una situazione di sostanziale isolamento, che rende le speranze di riuscita sempre più difficili.

Una volta integrati in questi ‘dispositivi’, i suoi abitanti capiscono quanto sia difficile emanciparsi dal divario che li separa dalla società civile. Un luogo dal quale andare via, un ‘campo che si incolla alla pelle’ (p.128) e ‘dal quale, generalmente, gli abitanti vorrebbero andare via’, (p. 130) per coronare il sogno di studiare, lavorare, aprire un’attività, curarsi, sposarsi, vivere vicini alla famiglia, viaggiare, affittare e acquistare una casa.

Conclusioni

Il potere dello spazio, rileggendo Foucault, è evidente nella sua capacità di escludere, allontanare, isolare una parte della società; esso è sia prodotto sia produttore: prodotto dalla società e dalle strategie che essa usa e produttore degli effetti da essa desiderati di cui è incaricato. Centri di accoglienza, ghetti agricoli, campi rom si traducono in una zona liminale in cui si cerca di ordinare numerose persone, sospese, tra la condizione netta di separazione dall’umanità in cui l’uomo si trova (fase pre-liminale) e la sua reintegrazione (fase post-liminale) con un nuovo status sociale (Van Gennep, 1909).

La zona liminale è la più importante perchè zona di frontiera e contatto (alla precedente e alla finale) in cui si considerano gli attori, gli strumenti, le tecniche, le categorie sociali, le relazioni di prossimità ed intermedie, in grado di generare (o meno) nuovi paradigmi e/o modelli funzionali a non riprodurre condizioni di oppressione e compromettere l’universalità dei diritti umani.

Nel corso di decenni, le aspettative dei migranti in una vita migliore, a fronte del proprio arrivo in Italia, si sono trasformate in esperienze di emarginazione istituzionale sempre più frequenti e in traiettorie sempre più, direttamente e indirettamente, deumanizzanti.

  1. Antonio Ciniero insegna Sociologia delle migrazioni presso l’Università del Salento. Si occupa di costruzione dell’alterità in seno ai processi di globalizzazione e nelle politiche migratorie dei paesi europei, di inserimento sociale dei cittadini immigrati e dei rifugiati, dei mutamenti socio-economici che interessano il mercato del lavoro e di esclusione sociale, con particolare riferimento alle comunità rom e ai braccianti agricoli. Su questi temi ha condotto studi e ricerche e pubblicato numerosi contributi.
  2. La scheda del libro

Vanna D’ambrosio

21/8/2024 https://www.meltingpot.org

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