Basaglia, il ritorno dei manicomi e la medicalizzazione del disturbo sociale

La laboriosità collettiva della costruzione di Marco Cavallo allude alla sovversione di tutti i presupposti alla sua nascita, quelli di commemorare il vecchio cavallo che tirava il calesse per il trasporto dei materiali interni al manicomio. Innanzitutto le dimensioni che, in barba a ogni ragionevole progettazione, superarono di gran lunga le misure delle porte del manicomio da dove sarebbe uscito. Ma pure le proporzioni delle parti del cavallo non furono armonizzate, sicché ne derivò, anziché un cavallo, una creatura che oggi ammiriamo nella sua ribellione alle convenzioni. La sua bellezza deriva proprio da questa universale insubordinazione alle regole e alle misure.

É bello immaginare che queste distorsioni nella sua costruzione siano state fatte apposta; infatti, per farlo uscire dal manicomio a costruzione avvenuta è stato necessario demolire parte del muro di cinta, al quale, evidentemente, i produttori non hanno ubbidito. Così come se ne sono fregati delle proporzioni. Un cavallo col collo lungo, le gambe storte e quant’altro ha liberato la fantasia generatrice che oggi possiamo ammirare come opera simbolo di una forma di liberazione collettiva.

Ci si dimentica sempre che il lavoro produce oggetti, opere e segni, ma in modo dissimulato retroagisce formando persone e pensieri che dunque non ubbidiscono più alle leggi naturali ma si plasmano secondo le esigenze del lavoro. Nel caso di Marco Cavallo le persone che ci hanno lavorato sono andate formandosi come persone libere da vincoli che ne determinavano la schiavitù. In questo senso la costruzione del cavallo è stata anche costruzione dell’uomo libero, e il processo lavorativo, perciò, è stato altamente rivoluzionario.

Quest’anno è ricorso il centenario dalla nascita di Franco Basaglia, una ricorrenza che più del solito ha portato attenzione su questa figura rivoluzionaria che ha sovvertito il sistema psichiatrico. Nelle sue conferenze brasiliane Basaglia cita più volte il pensiero gramsciano che dice che per uscire dalla trappola dell’istituzione psichiatrica bisogna modificare il proprio pensiero passando dal pessimismo dell’intelligenza all’ottimismo della pratica. 

È evidente invece che si è preferito arrendersi alla critica di ciò che non funziona, crogiolandosi nella mancanza di fondi, di personale specializzato (e ci sarebbe da chiedersi di quale specializzazione si necessiti per superare problemi principalmente di tipo sociale), e lasciando che tutte le spinte si cristallizzassero in un nulla di fatto, o ancor peggio, in una messa in discussione, come sta accadendo in questa fase, addirittura della chiusura dei manicomi.

Il Ddl Zaffini – in corso di esame in Commissione parlamentare – ripropone “misure di sicurezza” speciali in capo a ministro dell’interno e ministro della giustizia (sentito il ministro della salute) che riportano di fatto in auge la psichiatria manicomiale, e introduce “misure e trattamenti coattivi fisici, farmacologici e ambientali”. Il Trattamento sanitario obbligatorio raddoppia la durata a quindici giorni, “prolungabile”. Propone inoltre per gli Aso (Accertamenti Sanitari Obbligatori) e per i trattamenti urgenti in attesa del Tso, “strutture idonee per l’effettuazione di osservazioni cliniche”, oltre che un possibile aumento del numero degli Spdc, a dispetto della legge 180 che prevedeva invece il potenziamento di servizi territoriali. Infine, propone l’istituzione in carcere di “sezioni sanitarie specialistiche psichiatriche” dove é possibile effettuare il Tso in contrasto con la legge 833/78 che lo prevede solo negli ospedali generali. Viene aumentato il numero di posti in ogni Rems, invece di abolire il Codice Rocco che con il suo “doppio binario” (reo – socialmente pericoloso) favorisce l’istituzione di strutture speciali per i folli autori di reato.

Basaglia ha detto: non è vero che lo psichiatra ha due possibilità, una come cittadino dello stato e l’altra come psichiatra. Ne ha una sola: come uomo. E da uomo Basaglia attraverso la complicità istituzionale e sociale ha realizzato quello che fino a quel momento si riteneva irrealizzabile. È, infatti, legittimo pensare a Franco Basaglia come uomo rivoluzionario, partendo però dal fatto che prima di demolire il manicomio ha saputo costruire una serie di rapporti e relazioni, sociali e politiche, con le istituzionali locali e nazionali e persino relazioni professionali e amicali, spingendo in questa vasta discussione l’idea che la pazzia non esiste e che i disturbi mentali sono principalmente di natura sociale (tutt’ora qualche psichiatra illuminato afferma che se un paziente entra nel suo ambulatorio con il pensiero di suicidarsi, perché ha perso il posto di lavoro e non sa come mantenere la propria famiglia, lo psichiatra non sa che soluzione trovare).

Questa rete di discussione ha portato al compimento dell’idea forte dell’abolizione del manicomio. Una discussione, purtroppo, che si è arrestata alla demolizione fisica e ideologica delle mura, senza procedere oltre nella direzione liberatoria della salute mentale. Venuto meno il propulsore principale, l’ideatore, che solo marginalmente era anche un medico, la rete costruita non ha saputo dare continuità a quel processo che Basaglia aveva innescato introducendo l’idea secondo la quale la malattia è generata socialmente e non può essere trattata diversamente. Come un macigno sollevato a metà senza la spinta necessaria a dargli il giro, che fatalmente ricade sulle unghie.

Pertanto, se per un verso valutiamo come rivoluzionaria l’opera di Franco Basaglia, per altro verso non possiamo non osservare la degenerazione del disturbo mentale per incompiutezza del progetto originario che intendeva andare oltre l’eliminazione del manicomio, costruendo condizioni materiali di vita capaci di disinnescare a priori, quindi socialmente, la sua piega patologica. Una rivoluzione a metà per sopravvenuta morte (di cui oggi ricorre l’anniversario) del principale propulsore dell’intero progetto. La medicalizzazione chimica del disturbo sociale alla quale assistiamo attualmente è una scorciatoia pigra e volgare di un fenomeno indotto da quel sistema socioeconomico e relazionale secondo il quale chi non si adegua alle esigenze del capitale va espulso con tutti i mezzi, escluso, trattato come problema sanitario per salvaguardare interessi precisi, con proprie regole, senza prevedere possibilità altre.

Umanità al macero potrebbe essere lo slogan che governa la trasgressione delle regole capitalistiche che, non a caso, trovano lo sbocco naturale nella guerra. Il manicomio e i suoi surrogati, il carcere e tutte le istituzioni totali altro non sono che il seme domestico della guerra, l’assurdità disumana fatta sistema, l’estrema truffa morale spacciata come risoluzione dei conflitti innescati da un sistema che tutto intende piegare sotto il suo dominio. Uno come Marco Cavallo ben rappresenta la possibilità di eludere le condizioni che determinano le guerre. (beppe battaglia / sara manzoli)

29/8/2024 https://www.monitor-italia.it/

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