Radici e battaglie dei comitati contro il ponte sullo Stretto. Sostenere le ragioni del No.

Circa cinquemila persone, con in testa la rete No ponte siciliana e calabrese, la rete No Muos e alcuni membri della Freedom Flotilla, hanno sfilato il 10 agosto a Messina, nelle principali vie del centro, in uno scenario in cui il tema principale erano l’acqua e le politiche di razionamento per combattere la siccità che affligge la regione. Tra gli slogan: “Vogliamo l’acqua dal rubinetto!” e “Sciogliamo la Società dello Stretto di Messina!”. Il ponte difatti risulta insostenibile anche dal punto di vista idrico: solo uno dei diciassette cantieri previsti consumerà trentanove milioni di metri cubi di acqua – risorse che, in assenza di dissalatori, verranno prelevate dalla città.

Con la costruzione del ponte si profilerà un doppio “scippo” della società WeBuild (nata dalla fusione tra Impregilo-Salini e Astaldi) a cui è stato assegnato l’appalto del ponte, e che sottrae già acqua ai messinesi tramite l’acquedotto di Fiumefreddo, per i lavori che interessano il raddoppio ferroviario nella Messina-Catania-Palermo.

L’altra grande questione riguarda la richiesta di sciogliere la Società Stretto di Messina, che reclama più di trecento milioni di euro per il vecchio progetto del ponte, malgrado gli ingenti debiti accumulati dalla società nel corso degli anni. La Stretto di Messina, che doveva essere messa in liquidazione nel 2014, solo nel 2015 accumulava debiti per quasi due milioni di euro.

Il vero ostacolo è rappresentato dal clientelismo politico che frena la messa in liquidazione: la Corte dei Conti, nel 2017, evidenzia il rimpallo di responsabilità tra presidenza del consiglio dei ministri e ministero dell’economia – che detiene il cinquantacinque per cento delle quote – riguardo i mancati interventi normativi. La ratifica del piano definitivo arriva a febbraio, la Società dello Stretto di Messina approva la relazione di aggiornamento spalmandola in cinque mesi, ma emergono due anomalie: l’assoluta segretezza delle carte che non vengono rese accessibili ad alcuni parlamentari di Avs; e le sessantotto osservazioni della commissione della Società dello Stretto, composta da esperti e ingegneri, che evidenziano, tra l’altro, lacune relative a mancate analisi sismiche e assenza di prove di resistenza degli impalcati alle sollecitazioni del vento.

Ad aprile partono le comunicazioni per gli espropri: agli espropriandi vengono dati sessanta giorni di tempo per presentare obiezioni. Le informazioni sugli espropri – che riguarderanno quattrocentocinquanta famiglie, trecento in Sicilia e centocinquanta in Calabria – vengono fornite attraverso l’apertura di uno sportello infopoint a Messina.

Il 16 aprile, il ministero dell’ambiente redige la Valutazione di impatto ambientale (Via), e chiede alla Stretto di Messina duecentottanta integrazioni su diversi aspetti. Tra questi: mancanze dell’analisi costi-benefici; assenza di valutazione della qualità dell’aria; insorgenza di malattie cardiorespiratorie. La novità delle ultime settimane è rappresentata dall’approvazione del decreto infrastrutture che consente di approvare il progetto esecutivo a fasi, accelerando l’inizio dei cantieri. Questo preoccupa, sotto l’aspetto finanziario, per la temuta possibilità che si aprano i cantieri e si sospendano i lavori per mancanza di risorse. Altra novità è l’approvazione del ddl sicurezza n.1660, che prevede l’aggravante di un terzo della pena se la protesta è legata a una grande opera.

Per fare un punto sulle mobilitazioni e su quanto sta accadendo, incontro in un bar di Messina un militante della rete No ponte per parlare della loro storia e approfondire le loro rivendicazioni.

Ci puoi raccontare quando è nata la rete e quali sono state le sue tappe più importanti?

Il movimento parte nel 2002, al tempo della legge obiettivo e di Lunardi. Il ponte sembrava per la prima volta una cosa vera. Le prime mobilitazioni risalgono ai campeggi contro il ponte 2002-2004 lanciati da aree politiche vicino al movimento di Genova. A Messina viene lanciato dal Messina Social Forum. Quando è iniziata la lotta sembrava che tutti fossero favorevoli al ponte e noi fossimo una minoranza. Della serie: va bene il ponte fa schifo ma almeno è qualcosa. Vengono organizzati tre campeggi, tra il 2002 e il 2004, con delle manifestazioni, nei giorni finali, che alzano il livello di partecipazione di anno in anno: nel corteo del 2002 eravamo un centinaio, ma nel 2003 e nel 2004 eravamo un migliaio. E in pochi anni si è arrivati a un corteo più grande, nel 2006, di circa ventimila persone, con tante persone venute da fuori: trecento valsusini e sette sindaci della Val di Susa, tanti movimenti, ma la maggior parte delle persone erano dell’area dello Stretto. Ecco una caratteristica: questo è sempre stato un movimento composto non soltanto da militanti politici ma da gente comune. A Messina siamo certi che la maggioranza della popolazione sia contraria, anche se non vengono tutti al corteo, perché è proprio un sentire comune; e quelli che non si posizionano, non avendo alcuna fiducia nella classe politica sono consapevoli che l’operazione è di carattere speculativo. Ma c’è un elemento che abbiamo capito: l’amore molto forte del paesaggio da parte della popolazione delle città che si affacciano sullo Stretto.

Lo Stretto e il paesaggio sono l’ultima cosa che è rimasta, e nessuno vuole che venga toccata. La diffusione del movimento è dovuta anche al fatto che ci sono state generazioni di militanti che hanno lavorato generosamente senza cercare di capitalizzare la questione. Anche se nei fatti si è capitalizzato perché abbiamo avuto un sindaco che ha fatto la campagna elettorale con la maglietta No ponte, nel 2013, e tutti quelli che siamo entrati in consiglio comunale eravamo tutti militanti No ponte. In un certo senso è avvenuto, ma non c’era la volontà di costruire il partito No ponte. Per esempio, i Si ponte non ci riescono perché ciascuno ha la propria parte politica e cerca di capitalizzare il consenso nella sua area. Da parte nostra, dell’area più di movimento, si sta spingendo tantissimo per fare cortei che siano solo cortei No ponte, caratterizzati dalle magliette e dalle bandiere No ponte. Perché riteniamo che il No ponte abbia un’intrinseca natura politica che basta da sé per avere un punto di vista innovativo sulla città.

Com’è cambiata la composizione del movimento nel corso del tempo?

Abbiamo una prima fase che inizia nel 2002 e finisce nel 2006, poi riprende nel 2009 quando ritorna Berlusconi, e si conclude con il periodo Monti, nel 2013. In questa fase troviamo un’area più movimentista e una più tecnica, legate ai movimenti di opposizione e alle realtà ambientaliste. Questa prima fase si conclude con il periodo Monti, e il ponte diventa il simbolo dell’austerità. Come se Monti avesse detto all’Europa: “Ti do questa cosa perché vogliamo fare l’austerità e te lo dimostro cedendo la peggiore delle grandi opere che è il ponte sullo Stretto”. Monti chiede alla società un atto aggiuntivo con una rivalutazione dei costi e la Società dello Stretto non lo presenta. E sostanzialmente casca il progetto e nel 2013 la società viene commissariata e messa in liquidazione. Doveva stare commissariata un anno, ma lo rimane per dieci anni. E qui i partiti – compresi quelli che oggi sono contro il ponte – sono colpevoli, perché ogni anno la Corte dei Conti diceva di chiuderla, ma loro non lo hanno fatto.

Se l’avessero fatto l’operazione di “reviviscenza” del contratto non l’avrebbero potuta fare, perché sarebbe mancato il soggetto fondamentale che è il concessionario (Società dello Stretto Spa) e avrebbero dovuto costituire la società, rifare la gara con una procedura che avrebbe avuto tempi lunghissimi.

Intanto nel movimento cambia la situazione e si entra in una nuova fase: si formano varie tendenze, vari comitati e non c’è più questa cosa “io mi occupo delle manifestazioni e dell’area militante e tu ti occupi della questione tecnica”. Adesso abbiamo tre comitati: il nostro, che si riunisce allo Spazio No ponte, l’area di movimento; poi c’è un soggetto che si chiama “Invece del ponte” che fa tanti comunicati, presenta denunce e studi; e poi c’è un comitato che è situato nella zona di Capo Peloro che si è occupato un po’ di tutto ma in particolare della questione degli espropri.

In Calabria la cosa è un po’ diversa perché all’inizio stavano tutti insieme: partiti, sindacati, associazioni e movimenti. Adesso anche lì ci sono delle divisioni. In questo momento si è formato un coordinamento di tutte le realtà tranne la nostra. Perché abbiamo posto due questioni: la prima, è che abbiamo un’idea del movimento che si muove in una logica assembleare che necessita di una partecipazione popolare; per cui l’idea che si costituisca un coordinamento a cui tu partecipi mandando un delegato rischia di trasformare la riunione in un direttorio del movimento. A noi non piace. La seconda questione è che all’interno delle strutture politiche non ci debbano stare i partiti, che possono venire ai cortei e portare le bandiere ma riteniamo che la parte organizzativa debba restare in mano ai comitati. D’altronde non ti puoi legare al partito che sta in Parlamento, e che cambia opinione a seconda se sta al governo o meno, perché rischi di essere sovradeterminato dalle loro decisioni. Nell’ultimo corteo l’abbiamo detto espressamente che chi voleva sventolare le bandiere doveva mettersi in coda.

Nei vostri comunicati parlate di “modello ponte”, ci puoi chiarire questo punto? 

Il “modello ponte” comprende una serie di aspetti. Il ddl sicurezza e il decreto infrastrutture costituiscono un dispositivo normativo di questo modello. Con il ddl sicurezza si vogliono scoraggiare tutte le pratiche di opposizione alle Grandi Opere e si mira a terrorizzare le comunità. Il decreto infrastrutture, invece, permette di realizzare le opere per pezzi, prendendo cosi possesso di un territorio senza un progetto e un piano finanziario unitario. Il ddl, invece, che abbiamo denominato progetto “spezzatino”, serve a far partire i cantieri e nutrire gli uomini della governance della Stretto di Messina Spa, i politici, i tecnici locali che provano a entrare nelle opere connesse, formando filiere di tecnici legati ai partiti.

Questo spiega perché i partiti al governo sono sempre favorevoli al ponte, e contro il ponte quando sono all’opposizione. Se sei all’opposizione non puoi nutrire la tua filiera politica e allora ti conviene capitalizzare il dissenso. Salvini, per esempio, era contrario al ponte, e ora è favorevole. Il Pd è sempre stato favorevole, o comunque in una posizione di mezzo. Anche i Cinque Stelle, quando stavano al governo, non hanno mai espresso la loro contrarietà al ponte; hanno sempre detto: vediamo, discutiamo, forse facciamo il tunnel.

Ma tornando al “modello ponte”, noi parliamo di “città cantiere” perché mentre per lungo tempo si pensava che l’impatto riguardasse solo una parte della città, quando hanno tirato fuori le carte le persone si sono rese conto che i cantieri riguardavano l’intera città. Questo è un problema, perché in una città come Messina che ha una direttrice unica nord-sud, hai due strade, e se ne blocchi una il traffico va sull’altra strada. In questo modo tutta la popolazione subirà l’impatto dei cantieri o dei camion. E questo determinerà, anche rispetto al decreto sicurezza, un processo di militarizzazione. Quando loro dicono che il ponte è un’opera strategica, d’altronde, non significa che sul ponte faranno passare i carri armati, ma che i cantieri diventeranno come basi militari, quindi chi ostacola i cantieri subirà delle denunce, perché ti stai opponendo a un’operazione militare. Se tagli una rete del cantiere sarà come tagliare una rete del Muos, la rete di Sigonella, o lanciare qualche fumogeno alla Leonardo. Lì, per esempio, in quella sproporzione tra l’atto e la pena contestata contro Luigi Spera, si vede quanto alcune istituzioni non si possano toccare. Non ha importanza se fai un graffio, se tiri una molotov o qualcos’altro, la cosa importante è che la Leonardo non si può toccare. Ma la cosa più grave è che nel ddl sicurezza non ha importanza che tu eserciti la forza o la disobbedienza; ciò che importa è che tu applichi delle pratiche di conflitto. Queste pratiche devono essere schiacciate sul livello alto della pena, in modo da impedire qualsiasi forma di protesta. Dal nostro punto di vista questo è un problema grossissimo, e proviamo a interloquire con coloro che si stanno mobilitando su questa faccenda. Noi sappiamo che i movimenti vengono repressi, ma in questo modo si vuole rimuovere la questione del conflitto dalla società. Rimuoverla significa che le popolazioni verranno scoraggiate dall’occuparsi della propria vita. Questa è un’operazione per sganciare le aree militanti dalle popolazioni locali. Tutto questo costituisce il “modello ponte”: un insieme di dispositivi amministrativi, normativi, finanziari, di gestione del territorio, che definiscono un modello che può essere esportato. Questo è il nostro punto di vista: la lotta No ponte non è solo una battaglia che riguarda un’analisi costi-benefici, o una lotta sulla tenuta ingegneristica dell’opera, ma guarda alla natura politica dell’operazione. Per questo il corteo del 10 agosto lo abbiamo dedicato al tema dell’acqua. Perché sapevamo che in estate ci sarebbero stati problemi. Lo slogan “vogliamo l’acqua dal rubinetto, non il ponte sullo Stretto”, è uno slogan che abbiamo inventato nel 2002, ma che oggi va a maturazione: vogliono spendere quattordici miliardi di euro in una città in cui ci sono quartieri che hanno l’acqua un giorno sì e uno no, e quando ce l’hanno la disponibilità è solo per alcune ore.

Del greenwashing istituzionale cosa pensi?

Per un anno intero Salvini è andato in giro dicendo che il ponte avrebbe creato centoventimila posti di lavoro e avrebbe fatto risparmiare centoquarantamila tonnellate annue di CO2. Diceva sempre la stessa cosa, tanto nessuno chiedeva cosa volesse dire, e lui lo ripeteva. Questa cosa del ponte green è nata da un libretto pubblicato a Messina da un ingegnere che in passato aveva lavorato per la Impregilo (ora Webuild), che ha fatto uno studio sulle tonnellate di CO2 emesse dalle navi che trasportano le macchine. Sostanzialmente dice che se faccio passare le macchine dal ponte e fermo le navi risparmio questa emissione. Da questo momento il ponte è diventato green.

È una bugia clamorosa. Una sciocchezza detta anche in Val di Susa o per la TAV in Trentino. Ma se tu devi costruire delle infrastrutture su cui passeranno le auto, devi calcolare la CO2 che viene emessa durante la costruzione, per esempio per la produzione dei materiali che serviranno per i cantieri. Ma la cosa ancora più clamorosa di questa discussione sono i dati di emissione delle navi da crociera. Le duecento o duecentocinquanta navi da crociera che arrivano nel porto di Messina, producono emissioni di COdi gran lunga superiori alle navi che fanno l’attraversamento dello Stretto. Per coerenza se tu fossi per il ponte green dovresti essere contro il passaggio delle navi da crociera, ma non è così. I sostenitori del ponte sono anche favorevoli al crocierismo. Alla fine, forse, l’unico risvolto positivo del ponte sarebbe non far passare le navi da crociera. (giuseppe mammana)

16/9/2024 https://www.monitor-italia.it

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