La règia “modernità” del contratto di lavoro intermittente

La règia “modernità” del contratto di lavoro intermittente

Nella prefazione alla terza edizione de Il Capitale di Marx, nel novembre 1883, Friedrich Engels scriveva che «Non poteva venirmi in mente di introdurre nel Capitale il gergo corrente in cui sogliono esprimersi gli economisti tedeschi, quello strano pasticcio linguistico in cui, per esempio, colui il quale si fa dare del lavoro da altri contro pagamento in contanti si chiama il “datore” di lavoro e “prenditore” di lavoro si chiama colui al quale viene preso il proprio lavoro contro pagamento di un salario. Anche in francese “travail” si usa nella vita di tutti giorni con il significato di “occupazione”. Ma a ragione i francesi riterrebbero pazzo l’economista che volesse chiamare il capitalista “donneur de travail” e il lavoratore “receveur de travail”».
Ma, è noto ormai da qualche migliaio di anni, che i nomi vengono dati alle cose per mascherarne la sostanza. In effetti, la distinzione non certo linguistica, con cui Marx separava lavoro e forza-lavoro – la seconda essendo l’unica merce posseduta dal lavoratore e, dunque, da lui alienabile, vendibile; il primo essendo l’estrinsecazione dell’uso che di quella può fare colui che la compra, cioè il capitalista – pare con successo svanita dal gergo corrente degli odierni rapporti tra produttori diretti e possessori di capitale.
E rappresentando ogni codice giuridico l’ufficializzazione dei rapporti esistenti nella società, nessuna sorpresa che le pubblicazioni di regime confermino la scomparsa di quella distinzione marxiana e qualifichino dunque i «lavoratori dipendenti (altrimenti detti lavoratori subordinati)» come coloro che sono «occupati in una azienda alle dipendenze e sotto la direzione del “datore di lavoro”, tenuti a rispettare un orario di lavoro, in cambio di una retribuzione» (INPS; Lavoro dipendente).
Da un lato, dunque, mentre si sostiene che l’operaio venda non la propria merce forza-lavoro, ma il proprio lavoro, allo stesso tempo si qualifica come “datore” di lavoro colui che invece, se fosse vero il presupposto precedente, dovrebbe “comprare” il lavoro e non darne. Sembra un trucco da prestigiatori, ma serve egregiamente a instillare nel “buon senso comune” l’assioma per cui chi lavora debba sentirsi in perenne debito di riconoscenza con chi si appropria dei frutti del suo lavoro. La realtà che poi il capitalista, pagando il prezzo della forza-lavoro, ricavi da questa anche una buona quota di lavoro che non gli costa nulla, scompare allegramente come nel gioco delle tre carte. Come la biada con cui viene nutrito il cavallo è cosa completamente diversa dal tempo per cui questo può portare il cavaliere, diceva Marx, così il prezzo pagato per l’acquisto della forza lavoro non ha nulla a che fare con il tempo per cui l’operaio può lavorare e con il prodotto del suo lavoro, che finisce completamente nelle mani del padrone.
Usando il linguaggio moderno: il lavoratore viene “somministrato” dalle “agenzie autorizzate (somministratori), insieme a tutta la sua opera, alla “impresa utilizzatrice” (D.Lgs. 81 del 2015), che può farne quello che vuole: si somministra carne umana come si iniettano vaccini antinfluenzali.
«La forza-lavoro può manifestarsi al mercato come “merce” solo perché, e nella misura in cui, essa viene messa in vendita, e venduta, “dal suo possessore”, dalla persona di cui essa è forza-lavoro», scrive ancora Karl Marx, aggiungendo una citazione da Hegel, secondo cui «Delle mie particolari abilità corporee e intellettuali e delle possibilità di azione io posso “alienare” ad un altro un uso “limitato nel tempo”, perché essi mantengono, dopo questa limitazione, un rapporto esteriore con la mia “totalità e universalità”. Attraverso l’alienazione di “tutto il mio tempo concreto attraverso il lavoro” e della totalità della mia produzione, “renderei proprietà di un altro” il sostanziale dello stesso lavoro, la mia “universale” attività in realtà effettuale, “la mia personalità”».
Ora, tra le diverse tipologie odierne di contratti di lavoro dipendente, alcune, più di altre, rappresentano una perfetta sintesi a contrario di quella nota hegeliana. E uno degli specchi più lucidi degli odierni rapporti tra chi vende la propria forza lavoro e chi si appropria dell’intera somma dei frutti dell’estrinsecazione di quella, è il contratto cosiddetto “intermittente o a chiamata”, a tempo determinato. In base allo stesso D.Lgs. 81/’15 il «lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa in modo discontinuo o intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi, anche con riferimento alla possibilità di svolgere le prestazioni in periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno». Vale a dire, chiarisce la dottrina: ogni volta che il padrone abbia «necessità di utilizzare un lavoratore per prestazioni con una frequenza non predeterminabile, permettendo al datore di lavoro di servirsi dell’attività del lavoratore, chiamandolo all’occorrenza». Sorvolando sul dettaglio che, nonostante il «contratto di lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con soggetti con meno di 24 anni di età … e con più di 55 anni», se le “esigenze aziendali” lo impongono, si chiude un occhio sull’età, la voce del padrone stabilisce poi che «Nei periodi in cui non ne viene utilizzata la prestazione, il lavoratore intermittente non matura alcun trattamento economico e normativo, salvo che abbia garantito al datore di lavoro la propria disponibilità a rispondere alle chiamate, nel qual caso gli spetta l’indennità di disponibilità».
A prescindere dalla “novità” di tale tipologia di contratto – previsto dal Regio Decreto 2657 del 1923: si applica per lo più per commessi di negozio, addetti a pubblici esercizi di commercio, turistici, ecc. – i casi concreti della sua applicazione rendono completa giustizia alla sintesi marxiana per cui «il lavoratore, per tutto il tempo della sua vita, “non è altro che forza-lavoro” e, perciò, “tutto” il suo “tempo disponibile” è, di natura e di diritto, “tempo di lavoro” e dunque appartiene alla “autovalorizzazione del capitale”». In base a un moderno contratto-tipo a chiamata (“job on call”: farebbe più Leopolda) il «datore di lavoro potrà chiedere al lavoratore lo svolgimento della prestazione lavorativa… in qualunque giorno della settimana», così che va a farsi benedire ogni “programmazione” del tempo di non-lavoro, che dovrebbe essere a libera disposizione del lavoratore. Che poi, a dispetto di quanto scritto sul contratto, secondo cui «la chiamata da parte del datore di lavoro sarà effettuata in forma orale e/o scritta con 2 giorni di preavviso», questa arrivi invece telefonicamente con mezz’ora di anticipo, cui il lavoratore è tenuto a rispondere a stretto giro di “corsa al lavoro”, non inficia il presupposto base per cui «lo svolgimento della prestazione lavorativa è subordinato alla esplicita richiesta del datore di lavoro». Il contratto realmente applicato può anche bellamente tacere la norma che prevede una «indennità di disponibilità»: il lavoratore che non ne conosce l’esistenza non la richiederà. «Il lavoro intermittente», scrive la dottrina, è quel contratto con cui «un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro… esso rappresenta una estrema forma di flessibilità: il datore di lavoro può chiamare il prestatore» (quanto ci sarebbe da dire su questa parolina!) «in relazione alle proprie esigenze».
Quanti passi avanti (?!) rispetto all’epoca in cui, ricordava Marx, «Durante il periodo di 15 ore della giornata di fabbrica, il capitale attraeva il lavoratore una volta per 30 minuti, un’altra per un’ora, per respingerlo subito dopo, ma per attrarlo di nuovo nella fabbrica e respingerlo dalla fabbrica, incalzandolo qua e là per vari e dispersi brandelli di tempo, senza mai perder la presa su di esso, finché il lavoro di 10 ore fosse compiuto. Come sul palcoscenico, le stesse persone dovevano presentarsi alternativamente nelle diverse scene dei diversi atti. Ma, come un attore appartiene al palcoscenico per tutta la durata del dramma, così ora i lavoratori appartenevano alla fabbrica per 15 ore».
Oggi invece, alle 10 di mattina di un qualsiasi giorno della settimana, posso essere chiamato e mi si “chiede” di prepararmi per recarmi al lavoro entro un’ora – “tesi”. Ma, alle 10.30, mi si telefona ancora avvisandomi che la mia presenza non è più necessaria – “antitesi”. Infine, alle 11, mi si informa che non è ancora chiaro a che ora dovrò presentarmi, ma di tenermi comunque pronto – in una “sintesi” dialettica hegeliana che si esprime nella “disponibilità priva di indennità”. Naturalmente, l’esempio non ha nulla di ipotetico, ma si riferisce a un concreto odierno contratto intermittente e risponde al «bisogno del capitalista di avere sottomano un esercito pronto e preparato in corrispondenza di ogni movimento della domanda» (Marx).
Secondo le “esigenze datoriali”, scompaiono dunque i «“limiti morali”. Il lavoratore ha bisogno di tempo per la soddisfazione di bisogni intellettuali e sociali», ma il padrone guarda alla cosa nel senso che «se il lavoratore consuma per se stesso il proprio tempo disponibile, egli deruba il capitalista». Quest’ultimo si sente dunque autorizzato a «distruggere ogni regolarità dell’occupazione e può, secondo il solo suo comodo, arbitrio e interesse momentaneo, alternare il lavoro supplementare più mostruoso con la disoccupazione relativa o totale», a seconda che si presentino o meno «grandi ordinazioni improvvise a breve scadenza … ordinazioni da eseguirsi immediatamente».
Ogni “novità” di cui si ammanta la moderna legalizzazione della disoccupazione di massa può dunque ben riferirsi a quella situazione di 150 anni fa, per cui «il nostro lavoratore esce dal processo produttivo differente rispetto quando vi era entrato. Sul mercato compariva come proprietario della merce “forza-lavoro” di fronte ad altri proprietari di merci, proprietario di merce di fronte a proprietario di merce. Il contratto per mezzo del quale aveva venduto al capitalista la propria forza-lavoro dimostrava, per così dire, nero su bianco che egli disponeva liberamente di se stesso. Concluso l’affare, si scopre che egli “non era un libero agente”, che il tempo per il quale egli “può liberamente” vendere la propria forza-lavoro è il tempo per il quale egli “è costretto” a venderla. (…)
Quello che era il possessore di denaro marcia in testa come “capitalista”, il possessore della forza-lavoro lo segue come “suo lavoratore”; il primo è sorridente e significativamente compiaciuto, bramoso d’affari, l’altro è timido, riluttante, come qualcuno che ha portato al mercato la propria pelle e ora non ha da aspettarsi altro che la – “concia”» (Marx).

* Tutte le citazioni sono da Karl Marx, Il capitale, libro I; ed. Città del Sole

Fabrizio Poggi

6/1/2016 www.contropiano.org

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