Conferenza permanente per la realizzazione in Medio Oriente di un’area libera daarmi nucleari e altre armi di distruzione di massa. L’atomica di Israele: origini e sviluppi di una minaccia incontrollabile

Appello segue dossier

Per un Medio Oriente privo di armi nucleari e di altre armi di distruzione di massa
Questo appello è rivolto a tutte e tutti coloro che non si rassegnano all’idea che l’umanità corra il
rischio di estinguersi perché le classi dirigenti dei Paesi più potenti del mondo non sanno parlarsi
se non attraverso il linguaggio delle armi.
Eppure 35 anni fa, quando, in rapida successione, si giunse allo scioglimento del Patto di Varsavia e
al dissolvimento dell’Urss, sembrò veramente che il Mondo potesse voltare pagina, non fosse altro
perché, con la fine della guerra fredda, si depotenziava la minaccia costituita dagli arsenali nucleari
che, apparentemente e ragionevolmente, non avevano più ragione di essere.
Le cose però sono andate diversamente, a cominciare dal fatto che l’organizzazione militare più
potente del Mondo – la Nato – invece di sciogliersi, come logica conseguenza, si è fatta talmente
grande ed influente, da subordinare la politica dell’Europa agli interessi degli Stati Uniti e
dell’industria delle armi.
Pur senza nutrire rimpianti per quel Mondo diviso in blocchi, non si può non riconoscere che
quello odierno è un Mondo più complicato, ingiusto e, soprattutto oggi, più pericoloso, anche
perché nelle attuali classi dirigenti c’è la dissennata tendenza a sottovalutare i rischi di un conflitto
generalizzato, dove l’idea di impiegare armi nucleari, cosiddette “tattiche”, viene ritenuta tutto
sommato “accettabile”.
Un’ondata di scellerato bellicismo, che permea nel linguaggio molte componenti della Società,
prima tra tutte l’informazione, sta travolgendo ogni ragionevolezza: Pace e Disarmo sono termini
banditi e chi li invoca è guardato con sospetto.
Ma riteniamo, come tante e tanti tra noi, che non ci si possa rassegnare; è dovere etico
imprescindibile trasformare la preoccupazione collettiva in azioni concrete, partendo dalle realtà
dentro cui possiamo, e dobbiamo, promuovere alternative all’estinzione di massa.
In questo contesto, dove i bilanci delle spese militari si gonfiano come mai era accaduto prima,
dove la Nato si prepara a schierare nuovamente gli euromissili in Germania e la Russia sta
rivedendo la sua postura nucleare, si aggiunge minacciosa l’Armageddon di Israele che sta
portando la guerra in tutto il Medio Oriente, dopo che un suo ministro aveva minacciato di
incenerire Gaza con l’atomica.
Consci dunque che tutta la situazione internazionale richiederebbe una decisa mobilitazione ed
una presa di posizione coerente contro tutte le guerre che incombono sul Mondo e che non
possono non riguardarci, ci proponiamo di compiere un piccolo, ma concreto passo sulla Via del
Disarmo: fare del Medio oriente un’area libera da armi nucleari e da altre armi di distruzione di
massa.
Anche se può apparire velleitaria, l’idea ha già trovato una sua formulazione specifica
nell’Assemblea generale dell’Onu, sotto la voce Conference on the Establishment of a Middle East
Zone Free of Nuclear Weapons and Other Weapons of Mass Destruction.
Iniziato nel 2018, l’iter di questa Conferenza è giunto alla sua quinta sessione convocata per i
giorni 18 – 22 novembre 2024 ed ha per scopo finale la ratifica di un trattato internazionale
vincolante.

Al momento le posizioni riguardanti il trattato sono le seguenti:
Favorevoli: uno schieramento largamente maggioritario di Stati, comprendente tutti gli Stati arabi
e dell’Africa, oltre a Cina e Federazione russa.
Contrari: Israele e Stati Uniti.
Astenuti: praticamente tutti gli Stati europei, Italia compresa!
Una campagna a sostegno di questo trattato internazionale, in questo particolare momento,
avrebbe delle notevoli implicazioni, certamente per le sorti del popolo palestinese, ma soprattutto
perché, mettendo in luce la minaccia rappresentata dall’arsenale nucleare di Israele, potrebbe
contribuire ad una de-escalation di tutta l’area medio-orientale, con potenziali riflessi significativi
sull’area del Mediterraneo. Ricordiamo peraltro che, purtroppo, i precedenti di Israele in questo
campo non depongono per il meglio: giunto segretamente a realizzare la sua prima bomba
attraverso l’aiuto della Francia e poi godendo dell’appoggio degli Stati Uniti, Israele non ha mai
ammesso di detenere armi nucleari, non ha mai aderito al TNP (Trattato di Non Proliferazione
Nucleare) e non ha mai permesso all’IAEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) di
effettuare ispezioni sulle sue installazioni nucleari, così come non ha mai ratificato i trattati per la
proibizione di armi chimiche e biologiche, al pari di Egitto, Corea del Nord, Sud Sudan, Somalia,
Siria.
Conseguentemente, la campagna deve potersi finalizzare con un obiettivo estremamente
concreto: chiedere che il governo italiano la smetta di tergiversare ed, invece di astenersi in sede
Onu, così come ha fatto finora, voti a favore dell’istituzione del trattato che vieta l’esistenza di
armi nucleari e di altre armi di distruzione di massa nel Medio oriente.

Giorgio Ferrari ed Emanuela Bavazzano

DOSSIER

Il lungo cammino del disarmo
Quando nella seduta del 9 dicembre 1974, l’Assemblea generale dell’ONU fu chiamata a votare il
testo della risoluzione 3263 che mirava a fare del Medio Oriente un’area libera da armi nucleari,
nessuno si aspettava che ricevesse un consenso così vasto, anche perché essa era stata sollecitata dal
consiglio della Lega Araba e, inaspettatamente, dall’Iran governato dallo Scià Reza Pahlavi.
Su 138 nazioni presenti in quella assemblea, 128 votarono a favore, 8 non votarono e 2 si astennero
(Israele e Burma). Tra i favorevoli c’erano i membri del consiglio di sicurezza ONU (nonché
potenze nucleari: Usa, Cina, Urss, Francia e Inghilterra) e la totalità dei paesi europei, tutti
visibilmente preoccupati che la situazione del Medio Oriente potesse degenerare ulteriormente con
l’introduzione di armi nucleari da parte di un paese dell’area.
Pur senza nominarlo, il riferimento era indirizzato soprattutto ad Israele le cui attività in campo
nucleare -per quanto tenute segrete – facevano ritenere che lo stato ebraico fosse dotato di un certo
numero di testate nucleari.
Nei cinquanta anni che ci separano da quel primo pronunciamento, la situazione di questa area
tormentata del mondo si è aggravata, registrando un continuo riproporsi di conflitti, un escalation
negli armamenti con l’introduzione di armi di distruzione di massa chimiche e biologiche, oltre
all’aumento della dotazione nucleare attribuita ad Israele, unico paese dell’area che a tutt’oggi è
accreditato come potenza nucleare.
Questo stato di cose, pur con tutti i ritardi e le contraddizioni di cui sono affette le istituzioni
internazionali, è stato oggetto di costanti richiami e pronunciamenti da parte dell’Assemblea
generale dell’ONU e della Conferenza generale della IAEA (Agenzia Internazionale per l’energia
atomica) che assommano a:

  • 44 risoluzioni dell’Assemblea generale per sollecitare la realizzazione in Medio oriente di un area
    denuclearizzata;
  • 15 risoluzioni dell’Assemblea generale di censura e condanna di Israele per il suo atteggiamento
    in materia, essendo l’unico paese dell’area a non aver mai voluto ratificare il TNP (Trattato di non
    proliferazione) e di essersi sottratto alle regole e ispezioni della IAEA;
  • 1 risoluzione del consiglio di sicurezza ONU (n. 487 del 19.06.1981) che condanna Israele per
    aver bombardato il reattore di ricerca iraqeno di Osirak, richiamandola a porre le sue installazioni
    nucleari sotto il controllo della IAEA;
  • 10 risoluzioni della Conferenza generale IAEA sulla criticità della situazione nucleare in Medio
    oriente, di cui 3 di censura e condanna di Israele per la minaccia rappresentata dalla sua politica
    nucleare.
    Neppure si può dire che l’apparizione sulla scena mediorientale di altre armi di distruzione di massa
    diverse dal nucleare sia rimasta inosservata: nella risoluzione 49/71 (9 gennaio 1995)
    dell’Assemblea generale ONU viene richiamata per la prima volta l’idea di estendere la proibizione
    delle armi nucleari in Medio Oriente anche ad altre armi di distruzione di massa (chimiche,
    biologiche) stante i sospetti o gli indizi riguardanti l’Iraq, la Siria, l’Egitto e lo stesso Israele.
    Nel corso dello stesso anno, la conferenza di revisione del TNP approvava una risoluzione sul
    Medio Oriente in cui, tra l’altro, si richiamavano tutti gli stati dell’area “Ad adottare nelle sedi
    appropriate misure concrete volte a compiere progressi verso l’istituzione di una zona del Medio
    Oriente effettivamente verificabile e libera da armi di distruzione di massa, nucleari, chimiche e
    biologiche e dai loro sistemi di lancio, e ad astenersi dall’adottare misure che impediscano il
    raggiungimento di questo obiettivo” mentre si invitavano tutti gli stati membri del TNP (in
    particolare le potenze nucleari) a collaborare alla sua realizzazione.
    Ci sono voluti ben 23 anni e innumerevoli discussioni in sede ONU prima che l’Assemblea generale
    riuscisse a deliberare (Decisione 73/546 del 22.12.2018) l’istituzione di una Conferenza permanente
    per la realizzazione in M.O. di un’area libera da armi di distruzione di massa e nucleari con 88 voti
    a favore, 4 contrari e 75 astensioni. Oltre agli stati arabi e moltissimi altri paesi, hanno votato a
    favore Cina e Russia, mentre la totalità dei paesi europei si è astenuta e i contrari sono stati Israele,
    Stati Uniti, Liberia e Micronesia.
    La prima conferenza si è tenuta il 18 novembre 2019, riconvocandosi automaticamente per il terzo
    mercoledì di novembre di ogni anno e fino a definitiva approvazione di un trattato vincolante che
    istituisca nel Medio oriente un’area libera da armi nucleari e altre armi di distruzione di massa.
    La prossima sessione è prevista per il 18-22 novembre 2024.
    In principio fu l’atomica di Israele
    Il Medio oriente è l’area del mondo che, a partire dal secondo dopoguerra, ha registrato la più alta
    frequenza di conflitti armati. A ciò ha contribuito, oltre alla nefasta spartizione dell’impero
    ottomano stabilita dalle potenze vincitrici della prima guerra mondiale, un continuo afflusso di armi
    che quelle stesse potenze non hanno mai smesso di fornire ai neonati stati dell’area per ragioni
    geopolitiche e di interesse economico, petrolio in primis.
    Armi di ogni tipo, convenzionali e non, che hanno fatto di questa area del mondo il mercato
    privilegiato dall’industria delle armi per esportare i propri prodotti. Ma il Medio Oriente è anche
    l’area, dopo l’Europa, dove maggiormente si sono importate e prodotte armi di distruzione di massa
    chimiche e dove, tra complicità e coperture, Israele ha potuto sviluppare il suo programma nucleare
    nel più assoluto segreto.
    Nonostante la censura di stato che ancora oggi -in Israele- circonda la storia dell’atomica israeliana
    e malgrado Israele non abbia mai ammesso di possedere armi nucleari1, la sua collocazione tra le
    potenze nucleari è cosa ormai indiscussa.
    Tuttavia la ricostruzione dettagliata del come e quando Israele arrivò a fabbricare la bomba non è
    ancora stata scritta né, tanto meno, si intravvede la possibilità che “l’opacità della politica nucleare
    israeliana” (così la definì Avner Cohen) venga finalmente resa trasparente, sia da parte israeliana
    che delle altre nazioni coinvolte fin dall’inizio in questa vicenda.
    Nel suo libro Israel and the bomb, che resta il più attendibile lavoro di ricerca in proposito, è
    proprio Cohen a evidenziare le difficoltà incontrate nell’accedere ai documenti originali negli Stati
    Uniti (tutt’ora parzialmente secretati), ma soprattutto in Francia e poi in Israele dove, ancor più
    degli ostacoli frapposti alla consultazione, pesò la censura alla pubblicazione delle sue ricerche per
    motivi di segretezza.2
    Atteggiamento questo che se da un lato metteva all’oscuro l’opinione pubblica israeliana delle
    scelte fatte in sede di governo, dall’altro incarnava una politica basata sulla menzogna allorquando
    il primo ministro Ben Gurion affermò in parlamento (dicembre 1960) che l’impianto nucleare di
    Dimona aveva solo scopi pacifici, dichiarazione che egli trasmise tal quale nel maggio 1961 allo
    stesso presidente Kennedy. Non meno fuorviante fu Shimon Peres quando nell’Aprile 1963,
    incontrando Kennedy alla casa bianca nella veste di vice ministro degli Esteri di Israele, gli assicurò
    che loro (gli israeliani) non avevano alcuna intenzione di introdurre armi atomiche nell’area del
    Medio oriente, e che certamente non sarebbero stati i primi.
    Furono quelli gli anni -sotto l’amministrazione Kennedy- in cui gli Stati Uniti esercitarono la
    massima pressione su Israele riguardo alla sua politica nucleare. Nonostante Kennedy si sia
    dimostrato grande amico di Israele, egli era ossessionato dalla possibilità che Israele diventasse una
    potenza nucleare rompendo così le già delicate relazioni che gli Usa avevano col mondo arabo.
    Inoltre, stante il braccio di ferro con l’Urss culminato nella crisi dei missili a Cuba, Kennedy non
    voleva fornire all’Unione sovietica un ulteriore motivazione per aumentare la sua influenza in
    Medio Oriente.
    Questo insieme di cose, oltre alle menzogne riferitegli da Ben Gurion e Peres, fece sì che Kennedy
    mettesse sotto attenta osservazione il programma nucleare israeliano, spingendosi fino al punto –
    secondo l’opinione di Avner Cohen- di ottenere le dimissioni di Ben Gurion.
    Fu solo dopo l’assassinio di Kennedy e l’arrivo di Lyndon Johnson alla Casa Bianca che
    l’attenzione degli Usa scemò fino poi a diventare un vero e proprio sostegno con la presidenza di
    Richard Nixon.
    E’ un fatto che, a partire dal 1970, gli Stati Uniti non hanno più sollecitato Israele a firmare il TNP e
    smisero anche di effettuare “visite” nelle installazioni nucleari di Israele, che in cambio si impegnò
    a mantenere una postura nucleare di basso profilo: nessun test, nessuna dichiarazione, nessun
    riconoscimento. In pratica, con l’atteggiamento del “Don’t Ask, Don’t Tell” concordato con gli Usa,
    si passava da una politica nucleare basata sulla menzogna ad una strategia basata sull’omertà, che
    poi fu chiamata eufemisticamente “opacità”.
    D’altro canto dopo la vittoria nella guerra dei sei giorni (1967) gli Stati Uniti erano diventati il
    primo fornitore di armi ad Israele (la Francia aveva interrotto le sue forniture) e per quanto ancora
    intenzionati a non inimicarsi il mondo arabo, cominciavano a considerare Israele un alleato
    strategico, non solo un alleato naturale. Considerazione questa che si rafforzò nel 1973 con la
    guerra del Kippur, quando Israele lasciò intendere di aver armato i suoi aerei con testate nucleari e
    di essere pronta ad usarle. Fu in quel frangente che, in base al tipico pragmatismo yankee,
    l’amministrazione Usa decise che un tale soggetto era meglio avercelo per sempre amico, anche a
    costo di scontare le veementi proteste degli arabi.
    Da quel momento Israele non ebbe più remore nel perseguire la sua politica nucleare: immunizzata
    com’era dalle ispezioni dell’IAEA, estranea al TNP, utilizzò i progressi tecnologici e
    successivamente la collaborazione col Sud Africa di Botha per affinare e potenziare il suo arsenale
    nucleare fino -presumibilmente- a sviluppare testate termonucleari.
    Gli indizi in questa direzione sono rappresentati dallo scambio di 600 tonnellate di uranio naturale
    che nel 1977 il Sud Africa fornì ad Israele in cambio di 30 grammi di Trizio.3
    Se ciò fosse vero, significherebbe che il Sud Africa era interessato a sviluppare le bombe
    termonucleari, ma che Israele era già molto avanti in questa tecnologia (come poi confermarono le
    rivelazioni di Mordechai Vanunu) dato che disponeva di Trizio: il componente essenziale delle
    bombe all’idrogeno che non ha altre applicazioni di pratica corrente.
    Questa collaborazione col Sud Africa in campo nucleare, ripetutamente condannata dall’Assemblea
    generale dell’ONU4, contribuì indirettamente a demistificare un argomento capzioso che veniva
    fatto circolare dagli ambienti politici vicini ad Israele: quello per cui non essendoci prove di test
    nucleari effettuati da Israele, non si poteva sostenere che esso avesse sviluppato la bomba atomica.
    In proposito occorre ricordare che la collaborazione di Israele con la Francia in campo nucleare
    consentiva di aggirare l’ostacolo dei test in “proprio”, dato che questi erano abbondantemente
    previsti dal programma atomico francese, tra l’altro in località facilmente accessibili come era
    infatti il Sahara algerino.
    Il primo test francese, denominato Gerboise bleue fu effettuato nell’estremo sud dell’Algeria nel
    1960 e secondo Pierre Pean5, giornalista e scrittore francese, vi parteciparono “osservatori”
    israeliani, cioè tecnici e scienziati che stavano lavorando alla bomba di Israele, non ancora messa a
    punto. Considerato poi che la collaborazione in campo nucleare con Israele fu interrotta da De
    Gaulle solo nel 1968, che le stime della CIA collocano tra il 1963-64 il periodo in cui Israele è
    giunto a fabbricare la sua prima bomba e che, infine, gli esperimenti nucleari francesi in Algeria6
    (17 in totale) si protrassero fino a tutto il 1966, non si può escludere che oltre a presenziare a questi
    esperimenti, gli israeliani abbiano testato in Algeria una loro bomba.
    Ma fu durante la collaborazione con il Sud Africa che emersero gli indizi più evidenti
    dell’effettuazione di test nucleari congiunti Israele-Sud Africa.
    Il 22 settembre 1979, il satellite statunitense VELA 69117 individuò un segnale ottico a doppio flash
    proveniente da un area prossima alle isole Prince Edward (Atlantico del sud a ridosso dell’Oceano
    indiano) che faceva ritenere trattarsi di una classica esplosione nucleare.
    Le inchieste che ne seguirono furono molto controverse, dimostrando che mentre l’intelligence
    militare Usa propendeva per classificarlo come un test nucleare, un panel di esperti lo negava
    basandosi su interpretazioni diverse dei segnali acustici emessi durante l’evento che sembravano
    scagionare sia il Sud Africa che Israele.
    Valutazione questa che non convinse affatto l’allora presidente Jimmy Carter, il quale ordinò di
    riesumare tutta l’inchiesta sul caso NUMEC (vedi capitolo Scorrerie nucleari ), al fine di verificare
    se questo esperimento non fosse il prodotto finale del trafugamento di Uranio altamente arricchito
    che dalla NUMEC era finito nelle mani di Israele.
    Per quanto non ci sia stata una conclusione univoca sull’analisi di quell’evento, Carter scrisse nel
    suo diario, il 27 febbraio 1980, che “tra i nostri scienziati cresce la convinzione che gli israeliani
    abbiano effettivamente condotto un test nucleare nell’oceano vicino all’estremità meridionale del
    Sudafrica”.8
    Nel 2019, Avner Cohen e William Burr hanno prodotto una rivisitazione dell’inchiesta VELA 6911
    attraverso il contributo diretto di importanti personalità coinvolte all’epoca dei fatti nella vicenda. 9
    L’atomica dei poveri: la distruzione di massa con le armi chimiche
    Usualmente si sente parlare delle armi chimiche come la bomba atomica dei poveri, in
    contrapposizione a quella nucleare riservata ai paesi più ricchi. Ma si tratta di una suddivisione
    ingannevole perché, come spesso succede, i ricchi non disdegnano affatto di utilizzare gli strumenti
    dei poveri per i loro scopi e nel settore degli armamenti ciò è senz’altro vero.
    Capita però che accada anche il contrario, cioè che paesi poveri ambiscano a tutti costi a disporre
    dell’atomica dei ricchi (Pakistan, India, Corea del nord) così privando la loro popolazione di ingenti
    risorse economiche ben altrimenti destinabili.
    Sia come sia, il problema delle armi chimiche nasce, ancora una volta, da una “invenzione” e
    applicazione tutta europea -l’iprite o agente mostarda – che fu usata per la prima volta durante la
    prima guerra mondiale e poi abbondantemente impiegata (negli anni ‘20-’30) contro popolazioni
    inermi dell’Arabia, Del Nord Africa e dell’Eritrea, rispettivamente da Inghilterra, Spagna e Italia.
    Nonostante la ripugnanza, via via crescente, per questo tipo di armi, esse hanno a lungo proliferato
    e si sono tecnologicamente sviluppate (Sarin e altri gas) invadendo proprio i paesi meno ricchi.
    Nel caso dei paesi del Medio Oriente, oltre all’ambizione di dotarsi di un’arma terrificante, ha
    contribuito il fatto che il neonato stato di Israele si è mostrato da subito particolarmente interessato
    e capace nel fabbricare sia armi chimiche che nucleari.
    Ripetutamente, paesi come l’Egitto e l’Iran portarono negli anni’60 le loro proteste in ambito
    internazionale per chiedere l’interruzione del programma nucleare israeliano o, subordinatamente e
    segretamente, che venisse loro concessa la stessa opportunità: ne l’Unione Sovietica, né gli stati
    Uniti erano disposti a fornire loro tecnologie nucleari atte a produrre in prospettiva bombe
    atomiche, formalmente per impedirne la proliferazione, ma in buona sostanza per restare le uniche
    due grandi potenze in grado di “governare” il mondo.
    Ciò ha voluto dire -e non suoni come una giustificazione – che per controbilanciare il potere
    deterrente di Israele non restavano che le armi chimiche, di cui l’Unione Sovietica è divenuta
    fornitrice unitamente a paesi come la Germania Ovest, Francia, Olanda, Austria, Italia e Giappone
    che, direttamente o tramite accordi fatti da loro imprese, hanno venduto armi chimiche o trasferito
    tecnologia per fabbricarle, a paesi come l’Egitto, la Siria, l’Iraq e la Libia, a partire dalla seconda
    metà degli anni ‘60.10
    L’Egitto è accusato di averle impiegate nella guerra civile dello Yemen del Nord del 1963-1967 e
    l’Iraq le ha notoriamente utilizzate tra il 1980 e il 1991 contro l’Iran e la popolazione curda. La Libia
    non ha utilizzato armi chimiche, ma ne ha accumulato un’ampia scorta. L’arsenale iraqeno è stato
    smantellato negli anni ’90 è l’Iraq è entrato a far parte della CWC (Chemical Weapons convention)
    nel febbraio 2009. La Libia ha rivelato l’ammontare delle sue scorte nel 2004 e si è unita alla CWC,
    ma nel 2011, quando è scoppiata la guerra civile, solo la metà delle sue scorte di gas mostarda e il
    40 percento dei suoi precursori chimici erano stati distrutti.
    Il caso siriano è il più rilevante: si valuta che nel 2013 la Siria detenesse 1300 tonnellate di agenti
    chimici, tra cui diversi tipi di gas mostarda e componenti chimici chiave di gas nervini come il Sarin
    e il VX, distribuiti in 23 diverse località.
    Il caso più noto del loro impiego avvenne nella cittadina di Ghouta, ad est di Damasco a seguito del
    quale Russia e Stati Uniti -per una volta d’accordo- costrinsero Bashar al-Assad a rinunciare al suo
    arsenale chimico e ad entrare a far parte della CWC.
    Oggi, Egitto e Israele sono gli unici due stati del Medio Oriente non vincolati dalla CWC. Sebbene
    Israele abbia firmato la CWC nel 1993, non l’ha mai ratificata come del resto non ha mai ratificato
    la convenzione sulle armi biologiche.
    Così come avvenne per il nucleare, la segretezza con cui Israele sviluppò queste armi si deve
    all’impronta datagli da Ben Gurion che, secondo Avner Cohen, volle svilupparle a tutti i costi: n el
    marzo del 1948, David Ben-Gurion scrisse a Hud Avriel, incaricato dell’acquisto di armi in Europa,
    che doveva trovare scienziati ebrei dell’Europa orientale capaci di “aumentare la capacità di
    uccidere molte persone o, in alternativa, al contrario, in grado di guarire molte persone; entrambe
    le cose sono importanti” . (Israel and the bomb di Avner Cohen)
    Secondo gli estensori di ארמגדון (Armageddon)11 e lo stesso Cohen12 il fulcro di queste attività fu,
    fin dal principio, l’Istituto chimico e biologico in Ness Ziona (Tel Aviv), circondato da assoluta
    segretezza. Chi ha provato a violarla ne ha pagato le conseguenze con anni e anni di prigione come
    Marcus Klingberg, noto epidemiologo e per lungo tempo vice direttore dell’Istituto.
    Klingberg fu arrestato all’aeroporto Ben Gurion nel gennaio 1983 mentre era in partenza per
    l’Europa. Tradotto segretamente in carcere, fu processato nel giugno 1983 e condannato a 18 anni di
    carcere per spionaggio, con la proibizione per tutti gli organi di informazione di parlare della sua
    vicenda.
    Tuttavia alcuni anni dopo gli israeliani non riuscirono a silenziare le indagini giornalistiche, fra tutte
    quella dell’olandese Karel Knip, sull’incidente occorso ad un cargo della El Al precipitato su alcune
    case della periferia di Amsterdam nel 1992. Inizialmente era stato riferito che l’aereo trasportava
    frutta, spezie e apparecchiature informatiche. Ma la realtà era diversa. Ci sono voluti 6 anni per
    scoprire che l’aereo diretto in Israele trasportava 190 litri di una sostanza del tipo
    dimetilmetilfosfato (DMMP) e altre due sostanze chimiche, acido fluoridrico e isopropanolo, cioè
    tre delle quattro sostanze utilizzate nella produzione del gas nervino tipo Sarin.
    I materiali componenti il carico venivano dalla società Sulctronic Chemicals, Pennsylvania, Usa ed
    erano destinati all’Istituto Biologico in Ness Ziona, di Tel Aviv.13
    L’Armageddon di Israele
    Prima di tentare una ricostruzione di come e quando Israele sia giunto a fabbricare bombe atomiche,
    è utile fare alcune annotazioni di carattere tecnico-scientifico.
    Per fabbricare un ordigno nucleare è necessario disporre di materiale fissile, cioè di quegli elementi
    che sottoposti ad un bombardamento di neutroni, si scindono liberando grandi quantità di energia.
    Questa reazione nucleare può essere realizzata in due modalità: controllata ed incontrollata. La
    prima è quella che si ha nelle centrali nucleari che producono energia elettrica; la seconda avviene
    nelle cosiddette bombe atomiche dove lo scopo è esattamente quello di liberare istantaneamente
    tutta l’energia racchiusa nei nuclei dei materiali fissili, per dar luogo ad un evento distruttivo di
    ineguagliabile potenza.
    Gli elementi fissili che meglio si adattano a questo scopo sono due: l’U235 e il Pu239. Il primo esiste
    in natura come componente dell’Uranio naturale nella misura dello 0,7% in peso, mentre il Pu239 si
    può ottenere esclusivamente dalla trasformazione dell’U238 che è il componente principale
    dell’Uranio naturale (circa il 99,3%in peso). Questa trasformazione avviene costantemente durante
    il funzionamento delle centrali elettronucleari che risultano essere la fonte principale (quasi
    esclusiva) per la fabbricazione del Pu239.
    La tecnologia nucleare dunque, anche quando è utilizzata per produrre energia elettrica, è
    inequivocabilmente una tecnologia “dual use” perché la sua applicazione comporta la produzione di
    uno degli elementi essenziali alla fabbricazione delle bombe nucleari.
    Tuttavia, l’ottenimento di quantità sufficienti di U235 o di Pu239 a fabbricare una bomba nucleare, non
    è di facile attuazione. Entrambi gli elementi, per dar luogo ad una esplosione nucleare come quella
    delle bombe, devono essere presenti “in purezza” (tanto per usare un termine riferibile alla
    vinificazione delle uve), cioè a dire che la massa costituente la bomba deve essere composta da U235
    o Pu239 “puri”, ovvero con una percentuale quanto più vicina al 99% della massa critica.14
    Per ottenere U235 arricchito al 99% (data la sua scarsa presenza nell’Uranio naturale) bisogna
    disporre di notevoli quantità di Uranio naturale, di grandi quantità di energia e di una tecnologia
    sofisticata.
    Diversamente per ottenere Pu239 serve una centrale nucleare di modesta potenza e un impianto
    chimico (pericoloso, ma di non difficile realizzazione) per estrarre il Pu239 dal combustibile
    irraggiato proveniente dalla centrale nucleare.
    Per meglio comprendere quali opzioni siano disponibili per un paese che ambisca a dotarsi di
    bombe al Plutonio, è utile fare un’ultima annotazione.
    Come già detto, il Pu239 si produce durante il funzionamento di qualsiasi centrale elettronucleare, ma
    alcuni tipi di centrali ne producono percentualmente di più e questi sono i reattori che impiegano
    Uranio naturale non arricchito. Dato infatti che il Pu239 si ottiene dalla trasformazione del U238, più
    questo elemento è presente, maggiore è la resa in Pu239 ottenibile a parità di peso e siccome la
    massima concentrazione disponibile in U238 è data dall’Uranio naturale, ciò spiega perché i reattori
    che lo impiegano sono quelli in cui la resa in Plutonio è maggiore, mentre invece nei reattori ad
    acqua leggera (la comune acqua che conosciamo), dato che per funzionare abbisognano di un
    arricchimento in U235 del 3-4% (quindi minore presenza di U238 a parità di peso), la resa in Plutonio
    è minore.
    I reattori in cui la resa in Plutonio è maggiore (cosiddetti plutonigeni) sono quindi quelli ad Uranio
    naturale-gas-grafite oppure quelli ad Uranio naturale ed acqua pesante (D2O, acqua nella cui
    molecola sono presenti due atomi di Deuterio che è un isotopo dell’Idrogeno), ma per motivi tecnici
    che sarebbe complicato spiegare, questi ultimi sono in assoluto i reattori nucleari che, nel loro
    funzionamento, forniscono la maggiore resa in Plutonio.
  • • •
    Tornando alla vicenda in questione, bisogna considerare che all’epoca dei fatti (gli anni ‘50 del
    secolo scorso) la tecnologia nucleare era ai primordi e di dominio esclusivo del settore militare. Fu
    solo nel 1953, con il discorso di Eisenhower alle nazioni unite (Atoms for peace) che si inaugurò
    l’era del nucleare “civile” che apparve a molti paesi (grandi e meno grandi) come una opportunità
    da cogliere, sia perché questa tecnologia sembrava schiudere le porte ad un progresso senza
    precedenti, sia perché implicitamente consentiva ai paesi più ambiziosi di fabbricarsi una bomba
    atomica e sedersi così al tavolo dei grandi.
    Il neonato stato di Israele era, fra questi paesi, forse il più dinamico e intraprendente tanto che già
    nel 1952 aveva creato l’IAEC (Israeli atomic energy commission) ed era stato il secondo paese
    (dopo la Turchia) a siglare un accordo di cooperazione in campo nucleare con gli Stati Uniti (1955).
    L’anno successivo (1956), proprio in virtù di questo accordo, il presidente della IAEC David
    Bergmann15, avanzò la richiesta di assistenza alla AEC statunitense (Atomic energy commission)
    per la costruzione di un reattore da 10 Mw ad uranio naturale ed acqua pesante, specificando che
    necessitavano dagli Usa anche la fornitura di 10 tonnellate di acqua pesante.
    La richiesta apparve agli occhi dell’amministrazione Usa del tutto anomala per due motivi. Il primo
    era che questo tipo di reattore implicava una produzione significativa di Plutonio e quindi, secondo
    l’AEC e il governo Usa (allora piuttosto sensibili al problema della proliferazione), abbisognava di
    ulteriori e stringenti garanzie da parte di Israele. Il secondo motivo stava nel fatto che gli Stati Uniti
    non si erano mai impegnati a sviluppare reattori di questo tipo (uranio naturale ed acqua pesante),
    ritenendoli poco funzionali ai loro scopi politici, militari e di sviluppo tecnologico.
    Quest’ultimo aspetto è stato quasi sempre trascurato dalla storiografia scientifica e non, mentre
    invece ha influenzato considerevolmente lo sviluppo della tecnologia nucleare in Europa (Italia
    compresa) per circa un ventennio.16
    Posto di fronte alle precisazioni dell’amministrazione Usa, il governo di Israele si rese conto che
    l’idea di sviluppare in proprio, sia pure con l’assistenza degli Stati Uniti, un reattore plutonigeno
    non era percorribile. Teoricamente esisteva l’opzione dei reattori di tipo inglese (uranio naturale-
    gas-grafite), ma era stata subito scartata in base a due fortissime contro indicazioni. Una di natura
    tecnica era che questi reattori per quanto adatti a produrre Plutonio, presentavano una gestione assai
    complessa e, soprattutto, erano molto più ingombranti a parità di potenza, cosa che mal si adattava
    ai criteri di segretezza con cui Ben Gurion intendeva portare a termine l’impresa. La seconda contro
    indicazione era di natura politica e riguardava le relazioni non proprio ideali che correvano tra i due
    paesi, dato che -nonostante l’Inghilterra avesse contribuito alla creazione dello stato di Israele fin
    dal 1917 con la dichiarazione Balfour – gli inglesi non avevano dimenticato il trattamento ricevuto
    dalle organizzazioni sioniste durante il mandato britannico in Palestina: basta pensare ai due grandi
    attentati terroristici (entrambi nel 1946) contro l’ambasciata del Regno Unito a Roma e quello
    ancora più grave dell’Hotel King David a Gerusalemme dove furono uccise 91 persone, in
    maggioranza inglesi.
    A superare l’impasse contribuì in maniera determinante Shimon Peres, all’epoca nominato da Ben
    Gurion direttore generale del Ministero della difesa, il quale propose di abbandonare l’idea di uno
    sviluppo autoctono del nucleare israeliano e di “comprare” un reattore già sperimentato da un paese
    tecnologicamente avanzato in questo settore.
    Per una serie di considerazioni geopolitiche oltre che tecniche, la scelta cadde sulla Francia.
    La Francia era uno dei quattro grandi paesi che uscivano vincitori dalla seconda guerra mondiale,
    ma non aveva avuto lo stesso trattamento riservato all’Inghilterra, specie nel settore delle tecnologie
    avanzate e degli armamenti. Gli Usa avevano condiviso molto con l’Inghilterra specie nella
    tecnologia nucleare (impianti di arricchimento dell’uranio a diffusione gassosa) e soprattutto nella
    realizzazione della bomba a partire proprio dal progetto Manhattan. La Francia invece ne era stata
    esclusa e scontava un ritardo considerevole nello sviluppo dei reattori, tant’è che all’inizio dovette
    affidarsi alle filiere ad uranio naturale (non avendo impianti di arricchimento) sia nella versione a
    gas-grafite che nella versione ad acqua pesante, entrambe poi abbandonate. Ancora più sensibile il
    ritardo nello sviluppo delle armi nucleari se si tiene conto che il primo test atomico inglese è del
    1952 mentre la prima atomica francese è del 1960.
    Sul piano internazionale poi, la Francia usciva sconfitta dalla guerra in Indocina (peraltro
    registrando il mancato sostegno degli Usa) e proprio nel 1956 doveva affrontare la crisi di Suez
    (nazionalizzazione del canale di Suez da parte di Nasser) e la montante guerra di liberazione in
    Algeria a cui Nasser forniva appoggio.
    Qualunque siano stati gli approcci iniziali tra i due paesi, è un fatto che – contestualmente alla firma
    di un accordo di cooperazione scientifica (1957) tra l’IAEC e la CEA (Commissione atomica
    francese) – la Francia divenne il primo fornitore di armi ad Israele (compresi i modernissimi aerei
    Mirage) e nel 1958 iniziarono i lavori di costruzione del reattore nucleare di Dimona. Come
    contropartita Israele partecipò alla mini guerra di Suez occupando militarmente la penisola del
    Sinai, il cui confine occidentale è segnato proprio dal Canale di Suez.
    Il progetto Dimona
    Situato nel deserto del Negev, Dimona è il luogo dove sorge un complesso di installazioni nucleari,
    inizialmente concepite per produrre Plutonio, comprendente un reattore nucleare, un impianto di
    ritrattamento del combustibile irraggiato per estrarre il Plutonio e vari laboratori.
    Il reattore di Dimona, diversamente dalla versione accreditata nei documenti ufficiali desecretati e
    riportata spesso nelle opere di divulgazione, non è “il gemello del reattore di Marcoule” costruito in
    Francia dalla CEA nel 1955 e denominato EL 3. Quel reattore infatti, aveva una potenza termica di
    20 Mw ed era costituto da acqua pesante ed uranio arricchito al 4,5%, mentre il reattore di Dimona
    era sì ad acqua pesante, ma funzionava con uranio naturale ed era stato dimensionato per
    raggiungere, in prospettiva, una potenza almeno tre volte superiore a quella dell’originale francese.
    Queste diversità erano dettate da due esigenze: massimizzare la produzione di Plutonio (per le cose
    dette in precedenza i reattori ad uranio naturale danno una resa maggiore) e svincolarsi dalla
    dipendenza dell’uranio arricchito, anche perché c’era in progetto la possibilità di sfruttare i
    giacimenti di fosfati presenti nell’area del Negev, contenenti modeste percentuali di uranio. Questa
    opportunità, che poi si è concretizzata, non poteva prescindere dalla realizzazione di un impianto di
    raffinazione dell’uranio che si è aggiunto nel tempo alle altre strutture presenti nell’impianto di
    Dimona, così come è dato per certo che gli scienziati israeliani abbiano messo a punto una tecnica
    innovativa per l’arricchimento dell’uranio naturale basata sulla tecnologia Laser.17
    Se questo è vero, lo scopo non può essere stato altro che quello di dotare Israele di armi nucleari
    quanto meno “tattiche”, dato che Israele non possiede centrali elettronucleari che giustificherebbero
    la produzione di uranio arricchito.
    Le armi nucleari “tattiche” sono di incerta classificazione, dovendosi tener conto di potenza, peso,
    composizione e modalità di lancio; tuttavia se messe in relazione al loro impiego ci vengono
    presentate come armi impiegabili in teatri di battaglia ristretti (come quelli che interessano lo stato
    di Israele) e non su grandi complessi militari/industriali o sulle città, destinate ad essere colpite da
    armi più potenti. Ciò implica la possibilità che queste armi siano operate da lanciatori tradizionali –
    non necessariamente missili o aerei- come i normali pezzi di artiglieria. Sono proprio queste le
    considerazioni che, insieme allo sviluppo della tecnica di arricchimento del U235 per via Laser,
    hanno fatto pensare che Israele si sia munita anche di “proiettili atomici” (mini bombe) che per una
    serie di implicazioni tecniche, non possono che impiegare U235 arricchito.
    Ciò non esclude tuttavia, che l’arsenale nucleare di Israele abbia finalità offensive, dato che oltre ai
    missili di media lunga gittata (classe Jericho) e i bombardieri, Israele dispone di vari sottomarini
    della classe Dolphin (acquistati dalla Germania) e li ha equipaggiati con testate nucleari: dunque
    con la finalità di portare un attacco molto lontano dai suoi confini.
    Un aspetto del progetto Dimona che ha sempre stupito tutti coloro che ne hanno ricostruito la storia,
    è il fatto che -a parte la Francia che ne era partecipe- le altre potenze mondiali (in primis gli Stati
    Uniti) non si siano rese conto di conto delle vere finalità dello sviluppo del nucleare israeliano.
    Gli ultimi documenti declassificati negli Stati Uniti, provenienti dal NSA (National security
    Archive), dal Nuclear Proliferation International History Project e dal Center for Nonproliferation
    Studies del Middlebury Institute of International Studies at Monterey, hanno consentito a vari
    studiosi, compresi William Burr e lo stesso Cohen, di precisare ulteriormente la ricostruzione
    fattane nel libro “Israel and the bomb”.
    La prima segnalazione ricevuta dall’amministrazione statunitense, circa il progetto Dimona, sembra
    essere stata fatta da un dirigente dell’industria petrolifera di Israele che nel luglio del 1960 disse,
    incidentalmente, a dei funzionari statunitensi che in quel luogo si stava costruendo un reattore
    nucleare.
    Le successive indagini, sollecitate dallo stesso Eisenhower, portarono ad una prima conferma
    quando il ministro degli esteri francese, Maurice Couve de Murville disse al segretario di Stato
    Christian Herter che la Francia aveva aiutato Israele a costruire il reattore, praticamente una
    “replica dell’impianto Marcoule”, aggiungendo che, in base all’accordo CEA-IAEC, la Francia
    avrebbe fornito a Israele le materie prime per avviare l’impianto (Uranio naturale ed acqua pesante)
    mentre Israele avrebbe consegnato alla Francia il Plutonio prodotto durante l’esercizio. Quanto al
    finanziamento dell’opera il ministro francese disse che il suo paese aveva dato per scontato che
    venisse dagli Stati Uniti.
    Era una prima evidente menzogna della diplomazia francese a cui se ne aggiunsero altre da parte
    israeliana, la più celebre delle quali è quella di Addy Cohen, funzionario del Ministero del tesoro di
    Israele, che nel settembre del 1960, sorvolando in elicottero l’area di Dimona insieme
    all’ambasciatore americano Ogden Reid, disse a quest’ultimo che l’impianto che stavano
    sorvolando era una fabbrica tessile.18
    Quando poi gli Stati Uniti iniziarono a fare domande più precise su Dimona (anche perché la notizia
    era apparsa sulla stampa), un irritato Ben-Gurion chiese all’ambasciatore Ogden Reid: “Perché negli
    Stati Uniti viene detto tutto a tutti?”.
    Da quel momento la versione ufficiale di Israele, riportata dallo stesso Ben Gurion alla Knesset il
    21 Dicembre del 1960, fu che Dimona era un progetto con scopi pacifici, concepito per lo sviluppo
    del Negev. Pochi giorni prima però (8 dicembre 1960) la CIA emanava un suo primo rapporto19
    sulla questione sostenendo che uno degli scopi principali del progetto Dimona era la produzione di
    Plutonio per uso militare in una quantità tale da consentire la fabbricazione di una o più bombe
    nucleari già dagli anni 1963-64.
    Queste prime risultanze sulle reali finalità del progetto Dimona avvenivano negli ultimi mesi del
    1960 (quando Eisenhower era in procinto di lasciare la Casa Bianca) e dimostravano quanto fossero
    stati deficitari i servizi di intelligence statunitensi. Gli Stati uniti infatti venivano a conoscenza
    dell’accordo di collaborazione Francia-Israele tre anni dopo la sua stipula e solo due anni dopo
    apprendevano che il reattore era già in fase di costruzione avanzata, senza contare che erano rimasti
    del tutto all’oscuro dell’attivismo israeliano nel cercare di reperire finanziamenti (trovati poi in
    larga parte proprio nella lobby ebraica statunitense) e, soprattutto, nel fatto che Israele aveva stretto
    accordi con la Norvegia già nel 1959 per la fornitura di 20 tonnellate di acqua pesante. Accordo
    questo che coinvolgeva anche l’Inghilterra, dato che ad essa erano destinate le 20 tonnellate
    prodotte dalla società Noratom, la quale consentì che queste fossero girate ad Israele.
    Con l’arrivo di Kennedy alla Casa bianca il dossier Dimona divenne un argomento all’ordine del
    giorno.
    S’è visto come le generiche dichiarazioni di Ben Gurion non avessero convinto Kennedy che, a
    maggior ragione, voleva venire a capo della faccenda nel modo più diretto possibile, pur senza
    guastare i rapporti di buon vicinato con Israele.
    Dato che Ben Gurion non voleva sentir parlare di ispezioni IAEA o di una qualche equipe
    indipendente (si arrivò perfino a ipotizzare l’invio di specialisti svedesi o svizzeri) non restava che
    sostenere la via delle ispezioni “riservate e confidenziali” per opera degli specialisti dell’AEC
    statunitense, cosa che alla fine Kennedy riuscì ad ottenere, non senza aver alzato la voce.
    La prima visita, effettuata da due scienziati della AEC, avvenne tra il 17 e il 22 maggio 196120 e si
    rivelò irrilevante perché, più che una vera e propria ispezione, si trattò di un tour didattico presso
    varie installazioni tecniche, tra cui anche Dimona. La conclusione dei due scienziati fu che,
    nonostante permanessero alcuni dubbi, tutto sembrava indicare che il programma nucleare
    israeliano avesse finalità pacifiche.
    Davvero sconcertante questa conclusione (e così deve essere sembrata anche agli altri specialisti
    dell’AEC) perché nelle prime dieci righe del loro rapporto già si intravvedono evidenti anomalie.
    Scrivono infatti i relatori che, oltre al reattore vero e proprio, sono in progetto o in fase di
    realizzazione le seguenti strutture:
    un impianto per il ritrattamento del combustibile; un impianto di estrazione dell’uranio da minerali
    naturali; un laboratorio di chimica caldo e freddo; un impianto di smaltimento dei rifiuti che servirà
    a gestire i rifiuti radioattivi provenienti da altre parti del paese; un impianto di sviluppo di
    componenti ingegneristici.
    Colpisce infatti che la spiegazione data dagli israeliani (e accettata dai due ispettori dell’AEC) circa
    la presenza di un impianto di ritrattamento combustibile per estrarre il Plutonio, sia stata quella di
    sostenere che il Plutonio estratto dal reattore di Dimona, sarebbe stato reimpiegato come
    combustibile per nuovi impianti nucleari. All’epoca dell’ispezione infatti (1961) questa ipotesi era
    del tutto avveniristica, tant’è che i primi elementi di combustibile, solo in parte contenenti plutonio,
    furono introdotti nelle centrali nucleari nella prima metà degli anni ‘70. Anche l’approntamento
    presso il sito della centrale di un impianto di smaltimento rifiuti (inevitabilmente ad alta attività,
    dato che tali sarebbero stati quelli prodotti dall’impianto di ritrattamento combustibile), avrebbe
    dovuto far sorgere qualche sospetto. Questi impianti infatti, data la tossicità dei materiali impiegati
    e la presenza di materiali molto contaminanti, non dovrebbero mai essere collocati presso un centro
    di ricerca come veniva definito Dimona. Se ciò era avvenuto, la decisione non poteva che essere
    stata quella di realizzare il tutto nella massima segretezza, criterio che si applica precipuamente a
    tutte le installazioni militari o che hanno finalità militari.
    E’ un fatto che, comunque, questa prima visita non risolse i dubbi dell’amministrazione Kennedy,
    che anzi si indispettì ulteriormente quando incontrando Ben Gurion, pochi giorni dopo, questi gli
    disse che Dimona era assolutamente concepito per scopi di ricerca.21
    I dubbi non risolti si fecero più consistenti e tali da indurre l’amministrazione Kennedy a richiedere
    una seconda visita a Dimona a cui il governo di Israele oppose una tattica dilatoria che irritò
    decisamente il presidente. Tra continui rinvii e richieste di chiarimenti Israele riuscì a posticipare la
    seconda visita di oltre un anno dalla prima e quando comunicò la sua disponibilità, lo fece con
    brevissimo anticipo così da non consentire agli ispettori di prepararsi.
    La seconda visita si tenne nel settembre del 1962 e, dal punto di vista dei risultati, fu meno
    soddisfacente della prima,22 tuttavia dovendo rispondere alle pressanti richieste dei paesi arabi,
    primo fra tutti l’Egitto, circa lo stato del programma nucleare israeliano e le sue finalità, gli Stati
    Uniti “confezionarono” una risposta non veritiera, ma tranquillizzante, nella forma di una
    Comunicazione del Dipartimento di stato a numerosi governi arabi ed europei in cui si confermava
    che l’impianto di Dimona era un centro di ricerca per scopi pacifici.23
    Kennedy tuttavia, rimasto insoddisfatto, si apprestò a riprendere il discorso delle ispezioni col
    nuovo primo ministro di Israele Levi Eskhol che nel 1963 era subentrato a Ben Gurion. Era sua
    intenzione arrivare a imporre ad Israele un calendario di ispezioni serrato, una ogni sei mesi a
    partire dal gennaio 1964, ma il suo mandato si interruppe nel novembre del 1963 a Dallas.
    Il reattore di Dimona era già operativo e il programma nucleare di Israele aveva schivato l’ostacolo
    più grande che si era posto sul suo cammino.
    Scorrerie nucleari
    L’accesso ai materiali strategici, acqua pesante ma soprattutto l’Uranio, costituiva la
    preoccupazione principale del governo israeliano perché senza di essi il programma nucleare
    sarebbe stato irrealizzabile e siccome lo si voleva portare a termine nel più stretto segreto, non
    restava che procurarseli al di fuori delle regole internazionali. Cosa che divenne pratica diffusa da
    parte di Israele.
    Le fonti, al riguardo, sono prevalentemente indiziarie e riferibili ad ammanchi nella contabilità
    dell’Uranio che periodicamente veniva monitorata dalla IAEA, dalla AEC (per gli Stati Uniti) e
    dall’Euratom per l’Europa; ammanchi che ammontavano complessivamente a centinaia di
    tonnellate con provenienze diverse tra cui spiccano due casi: quello della società Usa NUMEC24 e
    “l’affaire plumbat”25 dal nome di un composto analogo al piombo.
    Precedentemente però -tra il 1963 e il 1964 – il governo israeliano aveva acquistato 80-100
    tonnellate di yellow-cake dall’Argentina riuscendo a tenere nascosta la transazione. Gli Usa
    vennero a conoscenza della cosa attraverso l’intelligence canadese ma, come al solito, non andarono
    a fondo della questione anche perché alla Casa Bianca non c’era più Kennedy, ma Johnson.
    I documenti declassificati dopo il 201026 consentono di chiarire l’andamento di questo intricato
    acquisto a cui fece immediatamente seguito un altro tentativo di acquisto clandestino di uranio da
    parte di Israele in Gabon.
    La NUMEC (Nuclear Materials and Equipment Corporation) era nata nel 1957 nell’ambito della
    neonata industria nucleare civile ed aveva il suo stabilimento nella città di Apollo, Pennsylvania.

Tra i maggiori azionisti figuravano Novick e David Lowenthal, entrambi seguaci del sionismo, ma
in particolare Novick era stato a capo dell’Organizzazione sionista d’America.
Uno dei partner dei Lowenthal fu Zalman Shapiro, un chimico nucleare di grandi capacità, nonché
presidente di NUMEC fino al 1970.
All’inizio del 1965, l’ufficio operativo di Oak Ridge dell’AEC fece un inventario di routine
dell’uranio altamente arricchito di proprietà del governo che l’AEC aveva affittato alla NUMEC, in
cui si riscontrò un ammanco significativo di materiale fissile altamente arricchito. All’inizio del
1966, dopo approfondite indagini, l’AEC confermò che 178 chilogrammi di U235 altamente
arricchito, mancavano dall’impianto NUMEC. Nel giro di tre anni, questa quantità era aumentata a
269 chilogrammi.
Le successive indagini svolte da tutti gli organismi di intelligence oltre che dalla AEC,
convergevano nello stabilire che l’ammanco era dovuto ad un trafugamento; che l’Uranio mancante
era probabilmente destinato ad Israele e che c’erano gravi sospetti sul coinvolgimento di Zalman
Shapiro. Anche se poi Shapiro fu trasferito in altra sede con incarichi secondari, l’inchiesta non
sfociò in un procedimento giudiziario, perché avrebbe creato un enorme imbarazzo
all’amministrazione Usa, con immancabili risvolti di natura politica.
In tempi più recenti però, sono stati declassificati altri documenti relativi alla vicenda uno dei quali
riporta la testimonianza di un ex dipendente della NUMEC,27 il quale dichiarò che all’inizio del
1965, durante il turno di notte, aveva visto degli estranei armati presso il portale di accesso
dell’impianto di uranio che stavano caricando su un camion munito di rastrelliere, contenitori di
Uranio altamente arricchito. Avvicinatosi potè constatare che il modulo di spedizione indicava che il
materiale era destinato a una nave diretta in Israele con la compagnia di navigazione Zim-Israel.
Successivamente un responsabile della NUMEC lo minacciò di tenere la bocca chiusa su ciò che
aveva visto.
Dalla metà degli anni ’80 fino al 2009, l’FBI ha declassificato alcuni dei suoi rapporti relativi agli
anni ’60 e fino all’inizio degli anni ’70. Tali rapporti indicavano che Zalman Shapiro, per tutto il
periodo in cui aveva diretto la NUMEC, aveva collaborato con diversi funzionari israeliani.28 Tra
questi c’erano attaché dell’ambasciata israeliana a Washington e altri soggetti riconducibili alle
agenzie di intelligence israeliane Shin Bet e Mossad, tutti ritenuti parte dell’organizzazione di
intelligence scientifica israeliana (LAKAM)29, che raccoglieva tecnologia nucleare negli Stati Uniti
per supportare il programma di armi nucleari di Israele.
Tre anni dopo il trafugamento alla NUMEC, si verificò l’affaire plumbat.30
Il 17 novembre del 1968 il mercantile Scheersberg A, battente bandiera liberiana era salpato dal
porto di Anversa diretto a Genova con un carico di 200 tonnellate di yellow cake (U3O8 da cui si
estrae l’Uranio naturale), ma invece di arrivare come previsto nel porto italiano, 15 giorni dopo
attraccò nel porto turco di Iskenderum, senza nessun carico a bordo.
Le successive ricostruzioni accertarono che l’uranio proveniva dallo Zaire, estratto dalla compagnia
mineraria belga Societe Generale del Minerals ed era stato ordinato da una ditta petrochimica
tedesca (Asmara chemie) per conto di una società farmaceutica marocchina, entrambe dichiaratesi
all’oscuro di tutto. Tuttavia dalle carte di spedizione del carico (560 fusti su cui era scritto
“plumbat”), si scoprì che lo scalo a Genova sarebbe dovuto servire a trasferire il carico ad una
società di vernici milanese (la SAICA che produceva anche vernici al “piombo”), la quale avrebbe
dovuto miscelare l’uranio con un altra sostanza per poi rispedirlo alla Asmara chemie. Ma la
SAICA, pur avendo ricevuto un anticipo dalla Asmara chemie per acquistare le apparecchiature atte
alla miscelazione, non ricevette mai i 560 fusti di plumbat.
Gli indizi determinanti a collocare la vicenda nell’ambito dell’acquisto clandestino di uranio da
parte di Israele, furono due: il fatto che il mercantile Scheersberg A fosse stato acquistato pochi
mesi prima di questo viaggio da una società di spedizioni (Byscaine) riconducibile al Mossad e che
tutti i membri dell’equipaggio della Scheersberg A furono sostituiti dal nuovo armatore con altri
componenti le cui identità risultarono poi del tutto false.
Dopo essere partita da Anversa la Scheersberg A deve essersi ancorata in qualche punto discreto del
Mediterraneo (si pensa all’isola di Cipro), non troppo distante dalle coste della Palestina, dove il
carico di Uranio è stato trasbordato su una o più imbarcazioni dirette in Israele.
Tuttavia Israele, nelle sue scorrerie in campo nucleare, non si è limitata ad ottenere illegalmente i
materiali strategici necessari al suo programma nucleare, ma ha effettuato vere e proprie incursioni
armate contro le installazioni nucleari dei paesi a lei ostili.
Il 7 giugno 1981 l’aviazione israeliana distruggeva il reattore iraqeno di Osirak che, secondo le
valutazioni del governo di Tel Aviv, era stato progettato per fabbricare bombe atomiche da usare
contro Israele. Il reattore di Osirak non conteneva ancora materiale fissile ed era una installazione
del tutto analoga a quella del reattore siriano di Al-Kibar, distrutto da Israele nel 2007.
Vero è che nel 1991 Saddam Hussein lanciò dei missili, per fortuna senza successo, contro il
reattore israeliano di Dimona che era operativo, ma ne fu pesantemente ripagato dagli Usa che
bombardarono il centro nucleare iraqeno di Al Tuwaitha in cui erano presenti due reattori di ricerca
operativi. In questo caso furono gli Usa ad agire e non Israele per evitare che, in sede di Consiglio
di sicurezza ONU, Israele fosse nuovamente condannata come era occorso nel 1981 dopo la
distruzione del reattore di Osirak.
E’ appena il caso di ricordare che Israele e Stati Uniti, non hanno mai ratificato i protocolli
aggiuntivi del 1977 della convenzione di Ginevra dove, all’Art. 56 del I° protocollo, si vieta di
colpire le installazioni nucleari.
Con il bombardamento di Osirak, Israele non aveva solo infranto il tabù che “vietava” di attaccare
siti nucleari, ma aveva aperto la strada alla “filosofia” dell’attacco preventivo e “legittimo”, la cui
massima espressione si ebbe con la guerra all’Iraq del 2003. Nelle riunioni del Consiglio di
sicurezza del giugno 1981, il rappresentante di Israele dichiarò che ”il raid contro il reattore
atomico iraqeno Osirak era stato un atto di autoconservazione col quale Israele aveva esercitato il
suo diritto di autodifesa come inteso nel diritto internazionale e come richiamato nell’ Art. 51 della
Carta dell’ONU”.

Mordechai Vanunu
il 5 ottobre del 1986, il Sunday Times pubblicò un lungo articolo che descriveva le reali potenzialità
e finalità del progetto Dimona.
A fornire queste notizie, corredate da numerose fotografie, era stato Mordechai Vanunu, un tecnico
che aveva lavorato a Dimona dal 1976 al 1985.
Data la enorme risonanza che avrebbero avuto queste rivelazioni, il Sunday Times le fece verificare
da due esperti in armamenti nucleari: lo statunitense Theodore Taylor e il britannico Frank Barnaby,
che confermarono l’attendibilità del suo racconto.
Vanunu fece sapere al mondo che l’impianto di Dimona non era costituito solo da un reattore
nucleare, ma da un complesso di laboratori e impianti che consentivano di effettuare sottoterra
alcune delle operazioni necessarie a fabbricare bombe nucleari.
Tra le strutture di superficie e i sette piani che si sviluppavano in profondità, a lato del reattore
nucleare, erano collocati un impianto di riprocessamento per estrarre il Plutonio dal combustibile;
un impianto per la produzione di Trizio (con l’impiego di Litio) che non poteva che servire alla
fabbricazione di bombe termonucleari; un impianto di arricchimento dell’Uranio con tecnologia
Laser, reparti per l’assemblaggio vero e proprio delle bombe oltre a tutti i laboratori di analisi e test
necessari a questo ciclo di fabbricazione.
Vanunu rivelò inoltre che l’impianto era in grado di fornire circa 30 Kg di Plutonio all’anno31, cioè
un quantitativo davvero significativo se si considera che la massa critica necessaria a fabbricare una
bomba al Plutonio è stimata tra 4 e 5 Kg.
Il Mossad era già sulle tracce di Vanunu prima che il Sunday Times pubblicasse il suo racconto, ma
dato che si trovava in Inghilterra non si riteneva opportuno ne richiederne ufficialmente
l’estradizione, ne organizzare un’azione sul campo col rischio di creare un caso con il governo di
Margaret Thatcher.

Così attraverso l’agente “Cindy”, una donna con cui Vanunu aveva intrapreso una relazione, fu
convinto a fare un viaggio in Italia, dove evidentemente Israele poteva contare su una maggiore
tolleranza, e lì fu rapito e condotto in Israele.
Il 6 novembre 1986 il governo di Israele annunciò ufficialmente che Vanunu era stato arrestato con
l’accusa di spionaggio e tradimento e il 24 marzo 1988, dopo 7 mesi di processo, fu condannato a
18 anni di carcere.

Giorgio Ferrari
Ottobre 2024

1 Israele non ha mai aderito al TNP (Trattato di non proliferazione nucleare del 1968); non è membro dell’IAEA
(Agenzia internazionale per l’energia atomica) e non ha mai accettato che gli ispettori dell’Agenzia visitassero le
installazioni nucleari israeliane.
2 “Nell’aprile del 1994, dopo mesi di discussioni, il censore militare israeliano mi informò che per ragioni di stato
aveva deciso di vietare la pubblicazione di un lungo articolo di giornale basato su questa ricerca. Appresi che era
la prima volta in Israele che un prodotto di ricerca accademica e di borsa di studio, non un’esposizione
giornalistica, veniva soppresso nella sua interezza dal censore. Quando tutti gli sforzi per raggiungere un
compromesso fallirono, feci una petizione alla Corte Suprema di Giustizia israeliana per annullare la decisione del
censore. Tuttavia, mi resi presto conto che le obiezioni del censore avevano poco a che fare con informazioni
specifiche che avrei potuto divulgare, poiché durante quasi un anno di corrispondenza legale il censore si rifiutò di
dirmi esattamente cosa riteneva discutibile o dannoso.” – Avner Cohen, prefazione al libro “Israel and the bomb”
3 www.armagedon.org.il – Questo documento è opera di un gruppo di giornalisti, scrittori, teologi e attivisti
israeliani che vivono in Israele e che si oppongono alle armi di distruzione di massa: Gideon Spiro; Yael Lotan; Dr.
Yehuda Atai; Giyora Neumann; Isam Mahoul; Amir Hallel; Akiva Orr. Il documento è redatto parte in inglese e
parte in yiddish
4 Questa collaborazione è stata esplicitamente condannata dall’Assemblea generale ONU in 15 risoluzione emanate
dal 1978 al 1991, cioè una ogni anno e fino alla fine dell’apartheid
5 P. Pean, Les Deux Bombes: ou comment la guerre du Golfe a commencé le 18 novembre 1975, Fayard, Parigi, 1991
6 https://www.agenzianova.com/a/602bb1cf6b7b56.73965303/3316327/2021-02-15/ong-denunciano-i-test-nucleari-
della-francia-in-algeria-continuano-a-fare-vittime/linked
7 https://www.wilsoncenter.org/blog-post/revisiting-1979-vela-mystery-report-critical-oral-history-conference
https://nsarchive.gwu.edu/briefing-book/nuclear-vault/2016-11-02/numec-affair-did-highly-enriched-uranium-us-
aid-israels-nuclear-weapons-program#_ednref11
8 Ibidem
9 Ibidem
10 https://apps.dtic.mil/sti/tr/pdf/ADA222311.pdf
11 Vedi nota 3
12 https://www.nonproliferation.org/wp-content/uploads/npr/83cohen.pdf
13 Vedi nota 3
14 Per massa critica di un materiale fissile si intende la quantità minima di questo materiale che consenta di mantenere
la reazione a catena senza ulteriore apporto di neutroni dall’esterno
15 David Bergmann era di origine tedesca, ma emigrò in Inghilterra poco prima dell’ascesa del nazismo al potere.
Stretto collaboratore di Chaiz Weizmann, leader indiscusso del movimento sionista e primo presidente della
repubblica di Israele, Bergmann fu chiamato da David Ben Gurion, all’epoca primo ministro, a dirigere la divisione
ricerca dell’Idf (esercito israeliano) e successivamente nominato direttore del IAEC
16 Lo sviluppo dei reattori ad acqua leggera ed uranio arricchito fu, inizialmente, una prerogativa esclusiva degli Stati
Uniti. Oltre che per motivi militari (la propulsione nucleare delle navi e sottomarini impiega reattori ad acqua
pressurizzata ed uranio altamente arricchito) questa scelta era stata fatta per stabilire un predominio tecnologico
degli Usa perché costringeva le altre nazioni interessate al nucleare ad adottare tecnologie basate sull’impiego di
uranio naturale. Infatti gli Usa non solo non condividevano con loro le tecnologie per l’arricchimento dell’uranio,
ma nemmeno permettevano l’esportazione di Uranio arricchito fabbricato negli Usa, a causa dei vincoli posti dalla
non proliferazione. I primi reattori sviluppati in Europa appartengono, non a caso, alla filiera uranio naturale- gas –
grafite e vengono costruiti sia in Francia che in Inghilterra. E’ solo verso la metà degli anni ‘60 che compaiono in
Francia, Italia e Germania i reattori ad acqua leggera ed uranio arricchito, mentre l’Inghilterra continua nella
costruzione di reattori a gas. Inizialmente le società esercenti delle prime centrali nucleari italiane ad acqua leggera,
Garigliano e soprattutto Trino Vercellese (che aveva un arricchimento maggiore), faticarono non poco ad ottenere
tutte le licenze per esportare dagli Usa il combustibile nucleare necessario al loro funzionamento.
17 Nei primi anni ‘70 Israele era all’avanguardia in questa tecnologia che se pure di non facile applicazione consente
di accelerare i primi stadi di separazione isotopica dell’Uranio.
18 https://www.wilsoncenter.org/publication/the-us-discovery-israels-secret-nuclear-project
19 https://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/special-national-intelligence-estimate-snie-100-8-60-implications-
acquisition-israel
20 https://nsarchive.gwu.edu/document/21653-8bo
21 https://nsarchive.gwu.edu/document/21630-document-9b-memorandum-conversation-president
22 https://nsarchive.gwu.edu/document/21651-document-16c-rodger-p-davies-phillips-talbot
23 https://history.state.gov/historicaldocuments/frus1961-63v18/d87
24 https://nsarchive.gwu.edu/briefing-book/nuclear-vault/2016-11-02/numec-affair-did-highly-enriched-uranium-us-
aid-israels-nuclear-weapons-program25 https://time.com/archive/6848700/high-seas-uranium-the-israeli-connection/
https://www.nytimes.com/1977/04/29/archives/1968-mystery-of-a-vanished-ship-did-its-uranium-end-up-in-
israel.html
26 https://nsarchive2.gwu.edu/nukevault/ebb432/
27 ibidem
28 ibidem
29 Ibidem LAKAM era un’unità di intelligence israeliana fondata nel 1957 da Shimon Peres, allora direttore generale
del Ministero della Difesa. LAKAM è l’acronimo ebraico di Science Liaison Bureau. Il suo primo direttore, che ha
ricoperto l’incarico per 20 anni, è stato un ex agente dello Shin Bet di nome Binyamin Blumberg. La motivazione
della creazione di LAKAM era quella di fornire intelligence tecnologica al servizio del progetto nucleare.
30 Vedi nota 25
31 Questo quantitativo è in linea con le caratteristiche tecniche e di funzionamento del reattore di Dimona tenuto conto
che il reattore EL3 francese aveva una resa in Plutonio di 0,3 gr per un burn-up medio di 25.000 Mwd per
tonnellata. Ipotizzando che il reattore di Dimona avesse una potenza almeno doppia (se non tripla) del suo
progenitore francese; che il suo burn-up medio fosse poco più della metà di quello francese (15-16.000Mwd per
tonnellata) e che la massa di uranio nel reattore fosse tra 4 e 6 tonnellate, si otterrebbe una resa in uranio variabile
da un minimo di 30 Kg/anno ad un max di 45 Kg/anno.

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