“Valentino T.” e gli altri: i casi limite non rappresentano il mondo dell’Hiv
Nel corso dell’anno di Hiv si parla poco. Il 1° dicembre è l’occasione per ricordare che questo virus riguarda chiunque abbia una vita sessuale attiva e che è necessario prendere precauzioni per evitare la sua trasmissione. Quest’anno la giornata mondiale contro l’Aids è stata dominata, sui media italiani, dalla storia di “Valentino T.” trentenne romano con Hiv arrestato con l’accusa di aver trasmesso consapevolmente il virus a diverse donne. L’anno scorso si è molto parlato di siti di incontri in cui persone negative cercavano partner Hiv positivi con i quali contrarre volontariamente il virus. Si tratta di storie limite che sono molto lontane dal nostro mondo e che, se da un lato alimentano l’immaginario collettivo che associa l’Hiv alla colpa e alla trasgressione, dall’altro non aiutano a contrastare la diffusione dell’infezione.
Dalla narrazione delle vicende di “Valentino T.” emerge l’idea che la prevenzione sia un “onere” a esclusivo carico delle persone con Hiv: sono loro a essere responsabili, a dover comunicare al partner la loro infezione. Tutti gli altri – anche coloro che non conoscono il proprio stato sierologico – sembrano poter restare tranquilli. Questa idea è fuorviante e pericolosa perchè oggi in circa il 50% dei casi, la trasmissione dell’Hiv avviene da parte di persone che hanno contratto il virus di recente (1 anno) e che non sanno di essere portatrici del virus. Si tratta di persone che, pur avendo una carica virale altissima si percepiscono “sane” e non si sentono perciò in dovere di avvertire il partner che non hanno fatto un test per l’Hiv da almeno un anno. Lo si può giudicare un comportamento responsabile il loro? Se le donne e gli uomini che non conoscono il loro stato sierologico, facessero sesso protetto avremmo il 50% in meno di nuove infezioni.
Dall’altra parte, la stragrande maggioranza delle persone che sanno di avere l’Hiv sono in trattamento antiretrovirale: il 92,6% in Italia secondo l’Istituto Superiore di Sanità (Iss) il cui ultimo bollettino evidenzia come l’85,4% di chi è in cura ha una carica virale non rilevabile, ovvero una probabilità di trasmettere il virus vicina allo zero. Dai dati emerge che è più pericoloso chi non dice di non essersi mai fatto il test (o di non averlo fatto nell’ultimo anno), rispetto a chi non mi comunica la sua sieropositività all’Hiv essendo in terapia e con carica virale non rilevabile. Oggi i progressi della medicina hanno trasformato l’Hiv in una patologia cronica – con la quale si può convivere e avere relazioni affettive normali e diventare genitori – ma l’immagine delle persone che vivono con il virus resta legata al terrore che era stato suscitato negli anni ’80.
La narrazione che si fa dell’Hiv è basata su storie che ammettono solo due posizioni: contro o a favore, colpevole o innocente, non c’è alternativa, così come già avviene con il terrorismo, la criminalità, i rischi ambientali e l’afflusso di Altri e Diversi, bersaglio prediletto delle politiche della paura che hanno nelle persone immigrate il più redditizio capro espiatorio con il più elevato livello di stigma. Ma, chiuso il ruolo inquisitorio assegnato ai telespettatori e alle telespettatrici, ai lettori e lettrici, come potrà tornare in gioco uno sguardo non dicotomico e capace invece di vedere la complessità delle cose? Come potremo scrollarci di dosso quell’approccio investigativo e come potremo dire, così come ci mostrano gli studi, che non è affatto necessario conoscere lo stato sierologico di una persona per prevenire l’Hiv. Le parole e le posizioni travalicano il giudizio sull’atto colposo e diventano condanna morale generalizzata, stigma indistinto verso chi è portatore del virus Hiv senza rendersi conto che l’epidemia oggi è alimentata da chi si crede negativo.
Ludovica Jona
12/1/2016 www.lila.it
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